GIACOMO LEOPARDI

ZIBALDONE

Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura

(pagg. 1000 - 1399)

 

Graecam [1000]linguam significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus ad Eutychium observavit. E p.131. nota (d) §.3. parlando delle testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il Vangelo di S. Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque intelligi observavit Seldenus. Intendi l’opera di Giovanni Selden intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario auxit Joannes Seldenus. Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell’Archeol. §.2. principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani. E così nella Scrittura †Ellhnew passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a Christo alieni (Scapula). Così ne’ Padri antichi. Il che pure ridonda a provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco. V. anche il Forcell. v. Graecus in fine.

Osservo ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l’Ebraica, come crede l’Ittigio, (nel Giosef. dell’Havercamp, t.2. appendice p.80. colonna 2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v. Basnag. Exercit. ed. Baron. p.388. Fabric. 3. 230. not. p), in uso, com’egli dice, de’ barbari dell’Asia superiore, cioè, com’egli stesso spiega (de Bello Iud. Proem. art.2. edit. Haverc. t.2. p.48.) de’ Parti, de’ Babilonesi, degli Arabi più lontani dal mare, de’ Giudei di là dall’Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric. l.c. Gioseffo l.c. p.47. not. h.) volendo poi, com’egli dice, accomodarla all’uso de’ sudditi dell’imperio [1001]Romano, toÝw katŒ t¯n „RvmaÛvn ²gemonÛan, e scrivendo in Roma, giudicò, come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230. principio.) e come fece, di traslatarla (non in latino) in greco, „Ell‹dow glÅssh+ metabaleÝn. (Idem, l.c. art.1. p.47.) E così traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp. Romani. (Ittigio l.c. Fabric. 3.231. lin.8. Tillemont, Empereurs t.1. p.582.).

(30. Aprile. 1821.)

La lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec. rispetto alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale si trova ne’ classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne’ classici del miglior tempo; e l’una e l’altra comparativamente, qual’è presso gli scrittori dell’ottima età dell’una e dell’altra lingua. E ciò malgrado la maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca. Questa dunque è la cagione perch’ella fosse più atta della latina ad essere universale: e n’è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra la parlata e la scritta.

(1. Maggio 1821.)

Quello che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra. Giacchè la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire che occupa l’ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec. signoreggia l’immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua francese qual è ne’ suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall’Accademia). Si giudichi dunque quanto ella sia propria a servire d’istrumento per conoscere e gustare le lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël (vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre, perciocch’è nata da lei. Anzi tutto all’opposto, se c’è lingua difficilissima a gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale occupa forse l’altra estremità o grado nella detta scala delle lingue, ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina è quella fra le dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate dalla lingua francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero signoreggiate dall’immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all’indole sua, ed alla conoscenza e molto più al gusto de’ francesi. [1003]Nella scala poi e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l’estremità della immaginazione, ed è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle lingue moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle Orientali, e nelle incolte regna sempre l’immaginazione più che in qualunque colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata. Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all’italiana, quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo conferma, giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e assurdamente gustata dai francesi, quanto l’italiana: di nessuna essi conoscono meno lo spirito e il genio, che dell’italiana; di nessuna discorrono con tanti spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e. la lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel tradurre ec. mentre una traduzione francese dall’italiano dal latino o dal greco non è riconoscibile) appartengano a tutt’altra famiglia di lingue.

(1 Maggio 1821.). V. p.1007. capoverso 1.

[1004]Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir, tutta quanta la Religion Cristiana. Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari, ch’io adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.

(1. Maggio 1821.)

Tanto era l’odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da’ Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione vervna; e dipendeva dall’essere assaliti, non [1005]già dalla considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale dell’odio scambievole delle diverse società, dell’odio che esisteva nell’assalitore, e che obbligava l’assalito a disperare de’ patti; dell’odio che esisteva nell’assalito, e che gl’impediva di consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel citato esempio di Numanzia.

Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere. E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un’altra potenza, ancorchè non eccessivamente più forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo delle forze e de’ mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo. [1006]E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.

In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli esercizi militari ec. non servono perchè si faccia esperienza di chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non avessero esistito.

Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose umane, derivata dall’esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta, dalla ragione, e dall’esilio della natura, sola madre della vita, e del fare. Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica. Dalla quale spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll’annullamento, risulta che oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo morti. Giacchè ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e dev’essere necessariamente tutt’uno con questa.

(1. Maggio 1821.)

Alla p.1003. fine. Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall’Italiana, perciò ch’ella è fra le moderne colte (e per conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera; naturale conseguenza dell’essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione. Al contrario l’italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e ignorata dalla massima parte degl’italiani, e degli stessi linguisti. Nella quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la nostra lingua e la greca. A differenza della latina, la quale, secondo che fu ridotta da’ suoi ottimi scrittori, e da’ suoi formatori e costitutori, è sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera, anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de’ primi distintivi delle quali è la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti i versi, ancorchè ardito, ella non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè oltrepassarlo ec. in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza. E perciò appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità, perchè l’ardire non era accompagnato dalla libertà. E la perfetta attitudine alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la francese. Un’altra attitudine meno perfetta nell’essere e ardita e varia, e nel tempo stesso libera, come la greca. L’ardire e la varietà, sebbene per lo più sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla libertà, come si vede nell’esempio della lingua latina, e bisogna perciò distinguere queste qualità.

Del resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall’italiana.

[1009]E queste sono le ragioni per cui la lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p.1003. tuttavia n’è tanto lontana e dissimile, massimamente nell’indole; e per cui la lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma propria e nativa, adattandosi alla francese, che l’è pur sorella: e per cui i francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l’italiano, cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di stirpe.

Quello che ho detto qui sopra dell’ardire, della varietà, della libertà, si deve estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell’italiana, e conseguenti dall’esser esse modellate sull’immaginazione e sulla natura, come dire la forza, l’efficacia, l’evidenza ec. ec. qualità che in parte derivano pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l’una dall’altra, e perciò mancano essenzialmente alla lingua francese.

Nè queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010]antiche, si deve credere ch’io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente. Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v. p.994.) nella Sascrita, (v. Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n.13. p.54. fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora e governatrice degli antichi e delle cose loro.

(2. Maggio 1821.)

Della lingua volgare latina antica v. Andrès, Dell’Orig. d’ogni letteratura ec. Parte 1. c.11. Ediz. Veneta del Vitto. t.2. p.256-257. nota. La qual nota è del Loschi. Che però egli s’inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la lingua di Celso, scrittore non dell’antica e mal formata, ma della perfetta ed aurea latinità.

(4. Maggio 1821.)

Se i tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l’investigare e il conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist. lib.4. cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati nello studiare le dette origini; Dolendum ec. v. Andrès luogo cit. qui sopra, p.249. quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d’ogni genere e di tanto pregio: laddove per lo contrario la lingua teutonica originaria della tedesca (Andrès, ivi, p.249.251.253. lin.6.14.18. paragonando anche questi ult. tre luoghi colla p.266. lin.9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun pregio. (Andrès, 249-254.) Aggiungete che l’esser la lingua latina universalmente conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec. ma anche al poterne noi attingere con assai più franchezza. Se la lingua teutonica fosse pure stata altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere ec. che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne prendessero? ec. V. p.3196.

(4. Maggio 1821.)

Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente, questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.

(4. Maggio 1821.)

Alla p.952. Meno straniera è la lingua francese all’inglese (e perciò meno inetta ad esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell’affinità che questa seconda lingua prese colla prima, dopo l’introduzione della lingua francese in Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit. poco sopra, p.252. fine, 255. fine-256. principio. Annali di Scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n. 13. p.30. fine.) [1012]Laddove la lingua tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac. des Inscr. tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più d’ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare dell’antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell’andamento, e maggiore affinità nella costruzione. (ivi p.253. principio.).

(4. Maggio 1821.)

Alla p.995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l’introduction de la langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l’Ac. des inscr. tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell’Astruc. (Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più conserva alcun vestigio dell’antico parlare di quelle genti. (Andrès, luogo cit. di sopra, p.252.).

(4. Maggio 1821.)

Che la lingua latina a’ suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si distinguesse in due lingue, l’una [1013]volgare, e l’altra nobile, usata da’ patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come parlavano i patrizi) (Andrès, l.c. p.256. nota), che Roma al tempo della sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97. p.242.) è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza di Cicerone. (Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità; e mentre l’unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec.

(4. Maggio 1821.). V. p.1020. capoverso 1.

Alla p.999. Così chi sapesse l’antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la tedesca, senza espresso e fondato studio. (Andrès, loco cit. di sopra, p.1010; non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec. v. p. [1014]1012. principio.

(5. Maggio 1821.)

La vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno 93. p.115. lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri, uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile colla duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall’ardire, e dalla varietà.

(5. Maggio 1821.)

Alla p.991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l’anglo-sassone: (Andrès, loc. cit., p.1010, p.255. fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si rileva da quello ch’egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua lingua. (Andrès, p.254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch’ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).

(5. Maggio 1821.)

L’u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec. [1015]Mediante le quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com’è noto, in varie parti delle Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr. lib.4. c.16. §.1 t.3. p.486. edit. vet.

Dalle quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec. fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche communicazioni avute colla lingua e letteratura greca. Questo però non mi par molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse interamente; e che della celtica ch’era pur la nazionale, appena si trova vestigio nella francese (v. p.1012. capoverso 1.). Quanto meno dunque si dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco. Inoltre questo argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per le parole italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra, in ordine di tempo: anzi immediatamente vicina. V. p.1040. fine. Del resto anche in Sicilia durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo dopo il dominio romano. Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci. E vedi Porfir. Vit. Plotin. cap.11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in tutte le parti dell’imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano ec. Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse in greco. V. Costantino Lascaris nel Fabricio, B. Gr. t.14. p.22-35. edit. vet. (6. Maggio 1821.). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri Siciliani ec.

Un effetto dell’antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del trionfo, costume che nel presente sistema dell’uguaglianza delle nazioni, anche delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti, e sì utili per lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e politiche.

(6. Maggio 1821.)

[1017]Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell’indefinito, che la realtà non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell’amore, dove la passione e la vita e l’azione dell’anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono altresì più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora osservate che per l’una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell’amore, il presentare all’uomo un’idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch’egli può concepir meno di qualunque [1018]altra idea ec. Per l’altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de’ maggiori piaceri che l’uomo possa provare.

(6. Maggio 1821.)

I filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più mettono in pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo mai esser filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo. All’opposto i filosofi antichi. All’opposto Socrate, il quale si mostrò nel teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri. Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de’ moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco intieramente colla moltitudine e colla universalità. Conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un’azione allo [1019]stesso pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell’interno, e non ha veruna o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell’esteriore. E generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l’apparenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o più naturali.

(6. Maggio 1821.)

La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta.

(7. Maggio 1821.)

Dalle osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere e gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl’italiani sono forse i più atti del mondo al detto oggetto. E ciò stante la moltitudine, dirò così, delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la francese [1020]è unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e inerente al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce l’arrendevolezza del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto appartiene alle altre lingue; mentre l’arrendevolezza della propria lingua, viene ad essere l’arrendevolezza e adattabilità dell’istrumento che serve a conoscere e gustare le altre lingue. E ciò tanto più si deve dire degl’italiani rispetto alle lingue antiche, massime la latina e la greca, sì per la conformità d’indole ec. che hanno colla nostra; sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni a queste lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.

(7. Maggio 1821.)

Alla p.1013. fine. Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de’ suoi dialetti. Ma ne’ dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta diversità di nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini di diverse nazioni e parti, (v. Fabric. [1021]B. G. l.5. c.1. §.17. t.5. p.67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si possono anche inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne’ diversi paesi, ed ancora viventi (che dimostrano una differenza d’inflessioni, di costrutti, di locuzioni ec. che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini che una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo numero di persone. (V. p.932. fine.) Così che io non dubito che la lingua latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la greca, sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e applicati alla letteratura. V. qui sotto.

Del resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l’inconveniente della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta. Ond’ella è per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguendosi sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non era così anticamente, ed allora l’italiano era più acconcio alla universalità, come lo prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si confondevano. In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a poco: e forse potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero l’italiano o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d’Italia, l’italiano non si parla.

(7. Maggio 1821.). V. p.1024. capoverso ult.

Al capoverso superiore. E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci. Nel modo che i dialetti d’Italia o di Francia, posto il caso che la lingua italiana o francese uscisse dell’uso, come la latina, non sarebbero conosciuti dai posteri, se non confusissimamente; per non [1022]essere stati ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo qualche poco in Italia. Ma così poco e insufficientemente, che si può credere che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla posterità.

(8. Maggio 1821.)

Quanto la natura abbia proccurata la varietà, e l’uomo e l’arte l’uniformità, si può dedurre anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita varietà delle lingue, p.952. segg. Varietà maggiore di quella che paia a prima vista, giacchè non solo produce p.e. al viaggiatore, una continua novità rispetto alla sola lingua, ma anche rispetto agli uomini, parendo diversissimi quelli che si esprimono diversamente; cosa favorevolissima alla immaginazione, considerandosi quasi come esseri di diversa specie quelli che non sono intesi da noi, nè c’intendono: perchè la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli uomini, sotto tutti i rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando le altre cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua comune, cioè la francese; la quale [1023]stante il detto commercio, e l’andamento presente della società, si può predire che non perderà più la sua universalità, nemmeno cessando l’influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec. della sua nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe appoco appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l’imparasse il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua strettamente universale.

(8. Maggio 1821.)

In proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è mai spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese all’opposto, v. Andrès, Stor. d’ogni letteratura. Venez. Vitto. t.3. p.95. fine-99. principio, cioè Parte 1. c.3. e t.4. p.17. cioè Parte II. introduzione.

(8. Maggio 1821.)

Alcuni scrittori greci degli ultimissimi tempi dell’impero greco, furono anche superiori in eleganza a molti de’ tempi più antichi ma corrotti, come gli scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi latini posteriori a Cicerone e a Virgilio. Dopo il secolo d’Augusto non è stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con coltura e con pulitezza la lingua de’ romani. Andrès, l. cit. qui sopra, p.96.

(8. Maggio 1821.)

[1024]Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne’ monumenti che ne avanzano, e come ho detto p.994. fine; sebben fosse così antica e radicata ec. nondimeno laddove i greci ancorchè sudditi romani, e vivendo in Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno scrittor gallo, nelle medesime circostanze, scrisse mai che si sappia in lingua celtica, ma in latino.

(9. Maggio 1821.)

Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d’imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli paragonati per questo capo.

(9. Maggio 1821.)

Alla p.1021. Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana scritta, se non l’antica, non passando [1025]e non meritando di passare le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta e propria. D’altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall’antica e parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana. Lo stesso appresso a poco si può dire dello spagnuolo.

(9. Maggio 1821.)

La cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de’ padri e teologi latini ec. soli scrittori latini ch’essi conoscessero, non fu (se non forse ne’ più barbari secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del cristianesimo, e negli ultimi anni dell’impero greco (Andrès, loc. cit. da me p.1023. t.3. p.55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del concilio di Firenze. (ivi).

(9. Maggio 1821.)

Sebben l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026]più vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l’infinità, o l’indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni, anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell’animo nostro finisce assolutamente sull’ultimo confine della materia, ed è confinata intieramente dentro i termini della materia.

(9. Maggio 1821.)

Se i principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici, i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste singolarmente l’Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni) diverrebbero un’altra volta invincibili. Ed allora [1027]si tornerebbe a conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de’ motivi e dell’alimento di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi odiate dalla natura:

Quod latus mundi nebulae malusque

Juppiter urget.

 

Notabile che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la moderna settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo (sin da’ tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud. Le capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno, Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell’esser tolta ai popoli meridionali l’attività e l’uso della molla principale della loro vita, cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia.

(10. Maggio 1821.)

[1028]La cosa più durevolmente e veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole.

(10. Maggio 1821.

Delle prime grammatiche italiane v. Andrès, Stor. della letteratura, ediz. di Venezia del Vitto. t.9. p.316. fine. cioè Parte 2. lib.4. c.2.

(10. Maggio 1821.)

Del sogno d’istituire una lingua universale v. Andrès, loc. cit. qui sopra, p.320. e il Locke del Soave t.2. p.62-76. ediz. terza di Venezia 1794.

(10 Maggio 1821.)

La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri nella sua Vita. Così Dante nell’italiano, ec. Non per altro se non perch’essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de’ suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.

(11. Maggio 1821.)

Se la universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro a’ quali essa è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell’inglese, giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del mondo, e sono più numerosi di quelli d’ogni altra nazione europea; e la nazione inglese è la più viaggiatrice del mondo.

(11. Maggio 1821.)

[1029]La lingua latina superò per esempio la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante la semplice introduzione nella Spagna, nelle Gallie ec. del governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar la greca non le bastò neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e quasi la stessa Italia.

(11. Maggio 1821.)

Alla p.991. Eccetto il solo Fedro, o ch’egli fosse Trace, come è creduto comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. v. seq.) La cui latinità, sebbene a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore al mediocre.

(11. Maggio 1821.)

Alla p.245. La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a cagione della sua struttura ed indole. E certo però che l’introduzione di questa lingua nell’uso comune, e il principio materiale della sua universalità, si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla moda di esser francese, [1030]dal regno e dittatura della moda, che la Francia ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura, dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere esclusivamente e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando anche cessino le dette ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà alla sua propria indole; laddove quella tal quale universalità acquistata già dalle lingue spagnuola, italiana ec. sono finite insieme colle ragioni estrinseche che la producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca alla universalità. Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto p.240-245. E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è certo che queste furono le ragioni estrinseche della universalità della lingua greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031]nè durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni estrinseche di universalità.

(11. Maggio 1821.). V. p.1039. fine.

Che la lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall’antico volgare latino, si dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll’erudizione recondita, ma col semplice ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La lingua italiana è derivata dall’antica latina, e questo è palpabile. La lingua italiana è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall’indole del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.

Da che ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante che l’italiano volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello volgare e parlato.

[1032]Questo ragionamento serve per tutte le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque altra lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato. Ma serve specialmente per l’italiano, ch’è la lingua volgare di quello stesso paese a cui fu naturale il latino.

Qual lingua avrà parlato l’Italia ne’ secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può credere quest’assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de’ civili? Forse le lingue de’ popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1. È noto e costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo d’introdurre la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano quella di costoro. V. Andrès, t.2. p.330.

2. Di parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell’italiano, e così pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso, il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell’italiano, derivi dal latino, e sia latino.

Dunque l’Italia ne’ secoli bassi parlò certamente il latino. Latino corrotto, ma latino. Qual latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima, il suo volgare di prima. Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non era il latino [1033]scritto, nè poteva essere, ma il latino volgare. Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la sostanza, il grosso ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello di detto volgare, da che oggi il grosso dell’italiano è derivato dal latino, ed è latino.

Comunemente pare che si supponga che s’interrompesse o affatto o quasi affatto l’uso volgare del latino in Italia, restandone solo l’uso civile, religioso e letterario, e che da quest’uso, e dal latino scritto ec. rinascesse poi di nuovo l’uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè dell’italiana; e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del provenzale che nascesse prima dell’italiano, o per qualunque altro mezzo.

Queste sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie alla natura delle cose.

Dovunque il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa, scritta, letteraria ec. le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal latino scritto ec. derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della latina, la lingua volgare ha per lo contrario scacciata la latina anche dalla scrittura, e dall’uso letterario e civile. In Germania, [1034]in Inghilterra, in Polonia dove ne’ secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa, letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall’uso civile e dal letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto solamente come lingua del governo ec. v. p.982.983. Lo stesso pure dell’italiano, dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua lor madre, dall’uso civile, politico, letterario. E questo si può vedere pure nell’esempio della lingua francese introdotta come civile ec. in Inghilterra per la conquista de’ Normanni (v. p.1011. fine); dell’arabica introdotta già nello stesso modo in parte della Spagna (Andrès 2. 263.-273.), e poi similmente scacciate dalla letteratura e da ogni luogo. V. pure gli Ann. di Sc. e lett. num.11. p.29.32. E così porta la natura delle cose, che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo, e s’introduca nel popolo, ma quella del popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono pure pel popolo e per la moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la parlata superi presto o tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se medesima. V. p.1062.

Se la lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali lingue, e non una lingua derivata dalla latina.

Ma accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d’Italia, fu senza interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque fu senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si parlava anticamente, e non già lo [1035]scritto; dunque noi oggi parliamo una lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi è lo stesso che quello dell’antico volgare latino.

Discorro allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese. Se queste lingue sono volgari, e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto; dunque dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna e nella Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria (e così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole Celtiche, nella spagnuola nessun vestigio dell’antica lingua di Spagna: Andrès, 2. 252.); dunque il volgare latino più o meno alterato da mescolanza straniera, si mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia (siccome in Valacchia) dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della lingua spagnuola e francese, e per mezzo di queste sino al dì d’oggi. Dell’antica origine della presente lingua spagnuola, e come i più vecchi monumenti che ne restano, siano, come quelli della lingua provenzale, francese ec. conformissimi al latino, v. un esempio recato in quella lingua dall’Andrès 2.286.fine.

Conchiudo. Se la lingua italiana, ch’è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può essere [1036]derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato, ma dirittamente viene dall’antico volgare latino, ed è nella sostanza e nel suo fondo principale, lo stesso che il detto volgare. E lo è per la circostanza della località (lasciando ora le prove di fatto e di erudizione) più di quello che lo siano lo spagnuolo e il francese. Questo ragionamento però vale per qualunque lingua derivata sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e ciascuna lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal volgare di essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta del Tercier, è fra tutte ec. v. p.1012. principio, questo accade perchè la lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata e formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo o nulla differiva dalla parlata e volgare. Ma altrettanta e forse maggiore uniformità si vedrebbe fra l’italiano e l’antico volgare latino, se di questo si avesse maggior notizia. E dico maggiore uniformità non senza ragione di fatto, considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l’odierno tedesco e il teutonico (Andrès, 2. 249-254.); e la somma rassomiglianza che io in molti luoghi ho cercato di provare, fra l’italiano, [1037]e il latino volgare antico. Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna di tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256. e passim) si verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi l’origine di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene alterato) nella oscurità delle origini dell’antichissimo e primo latino. A differenza dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni l’uso del volgare latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in Italia.

(12. Maggio 1821.)

Basta vedere il principio dell’Orazione ƒEpit‹fiow attribuita a Demostene, dove discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse fermo fra gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si aiutassero delle favole, delle tradizioni ec. per persuadersi, e tener come cosa non arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di genere e di natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa dalle altre. Persuasione utilissima e necessaria, come altrove ho dimostrato.

(12. Maggio 1821.)

Una lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall’esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038]e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione dell’italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua (come si scriveva l’antica teutonica, non mai ben formata nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l’italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente da tre soli (lasciando le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua fosse lo stesso che l’applicarla alla letteratura, l’epoca della perfezione della latina si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma nel tempo dei primi scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d’Ennio ec. e degli scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone (contemporanei) giacchè allora il latino fu applicato generalmente a lavori molto più letterarii, che nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o viventi.

(12. Maggio 1821.). V. p.1056.

Nei tempi bassi furono veramente dÛglvttoi i tedeschi e gl’inglesi, ossia la parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per le corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue nazionali. E così pure gl’italiani, i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare assai diverso dal latino scritto. Ma questa:

1.E una diglvttÛa che appartenendo allo scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso. E la [1039]universalità del latino, ch’era allora universale in occidente, era universalità che appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli uomini parlatori di due lingue, cioè veramente dÛglvttoi, della quale sola io discorro.

2. La lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non essendo parlata, ma solo scritta. E una lingua solamente scritta è lingua morta. Ora, quantunque l’uso di una tal lingua morta fosse allora più comune che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale tratta solo della universalità delle lingue vive. Così anche oggi si potrebbe chiamare presso a poco universale la lingua greca in Europa, e ne’ paesi colti, ma come lingua morta.

(12. Maggio 1821.)

Alla p.1031. principio. Come la letteratura, così la lingua francese è precisamente moderna, sì per l’influenza somma nella lingua della letteratura che la forma (e nel nostro caso l’ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da quella ch’era da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l’influenza immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla letteratura francese, e formatala. [1040]Or come la lingua francese è strettamente moderna, e quindi strettamente propria all’odierna universalità, per esser modellata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla universalità de’ tempi suoi, massime fra’ popoli del meriggio orientali e occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per essere strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel perfetto) sulla natura. A differenza della latina modellata piuttosto sull’arte. E si può dire che la perfezione della lingua greca era conforme, ed aveva il suo fondamento nella natura, non essendo perciò meno perfetta, nè artificiata; e la perfezione della latina era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il suo fondamento, la sua norma nell’arte.

(12. Maggio 1821.)

Alla p.1016. In ogni modo le parole greche che si trovano nell’uso familiare e popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori latini) non possono esser derivate se non dall’antico volgare latino, da qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab antico, per qualunque mezzo; o da un’origine comune con quella della lingua greca, ovvero dalle colonie greche d’Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041]comunicazione avuta colla lingua greca. Come infatti le dette parole avrebbero potuto pervenire a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si spense nelle Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più tardi p.e. in Sicilia, che nelle Gallie); ed all’incontro il volgare latino stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie de’ soli scrittori) nell’italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo); quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell’antico volgare latino, che sta di mezzo fra l’uso del greco in alcuni paesi d’Italia o di Francia, e l’uso dell’italiano o del francese: in maniera che le dette parole hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all’antico volgare latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare, e il nascimento de’ volgari moderni che ne derivano, l’Italia o la Francia hanno avuto colla lingua greca, (e massime coll’antica, o anche antichissima, alla quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042]comunicazione veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso; qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso loro.

Resta dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole o modi italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano all’uso volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che non si trovano presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente ed esserci venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.

Il qual discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza, e dimostra l’esistenza di dette parole o modi nell’antico volgare latino proprio, cioè in quello che si parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all’antico volgare latino che si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva, come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie greco-galliche, il quale non [1043]si trovasse nel volgare latino di Roma, o d’Italia. Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se nella lingua francese, e se mancano all’italiana. E così anche viceversa, se qualche parola greca passò in quest’ultimo volgare dalle Colonie greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec. dopo l’introduzione del volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821.). Giacchè le altre parole greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè venute dalle colonie greche d’Italia, non fa maraviglia se passarono col latino anche in Francia ed altrove.

L’Inghilterra in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell’origine de’ suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l’attività, il coraggio, la profondità del pensiero e dell’immaginazione, l’indipendenza, ec. ec.) senz’averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la politezza, la sottigliezza (attribuita già a’ Greci: v. Montesquieu Grandeur etc. ch.22. p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e fecondità d’immaginazione, e simili buone qualità, senz’averne il torpore, la inclinazione all’ozio o alla inerte voluttà, la mollezza, l’effeminatezza, la corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio pacifico ec. ec. Basta paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o russo ec. per conoscere l’enorme differenza che passa fra il carattere inglese e il settentrionale. E siccome l’Italia non ha milizia, e la Spagna non la sa più adoperare, ec. non v’è milizia in Europa più somigliante alla francese dell’inglese, più competente colla francese, per l’ardore e la vita individuale, la forza morale [1044]la suscettibilità ec. del soldato, e non la semplice forza materiale, come quella de’ tedeschi, de’ russi ec. V. p.1046.

Tutto ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro governo e costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche di qualunque altra Europea, fino al dì d’oggi ch’è stata appresso a poco adottata da’ francesi, dov’è troppo presto per vederne gli effetti. Ora egli è certo che l’antico è sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che in questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali antichi, erano però ben superiori ai meridionali moderni.

(13. Maggio 1821.)

La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all’uomo nell’una e nell’altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della vita è quello del piacere, o del godimento.

(13. Maggio 1821.)

[1045]Chi vuol vedere quanto abbia la natura provveduto alla varietà, consideri quanto l’immaginazione sia più varia della ragione, e come tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su questa, e viceversa. Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche architettate sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne che più sono architettate sulla ragione. Osservi come una lingua universale debba esser modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione, appunto perchè questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in tutti.

(13. Maggio 1821.)

La Francia è per geografia la più settentrionale delle regioni Europee che si comprendono sotto la categoria delle meridionali. Così dunque la sua lingua partecipa di quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella monotonia, di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma parte del carattere settentrionale. E così pure la sua letteratura in gran parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in gran parte dall’epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per conseguenza epoca di ragione. Come per lo contrario l’Inghilterra ch’è per carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali, (v. p.1043.) ha una lingua delle [1046]più libere d’Europa colta per indole; e per fatto la più libera di tutte (Andrès, t.9. 290 291. 315-316.); e parimente la letteratura forse più libera d’Europa, e il gusto letterario ec. Parlo della sua letteratura propria, cioè della moderna, e dell’antica di Shakespeare ec. e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla Francia. E parlo ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non delle informi o nascenti.

(13. Maggio 1821.)

Alla p.1044. Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili, degl’inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec. ec. e dall’essere stata forse l’Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l’unica potenza che si sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di forze uguali all’Inghilterra, fra le quali essa si troverà l’unica capace di far fronte per lo passato alla Francia.

(14. Maggio 1821.)

Principalissime cagioni dell’essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta (v. Giordani nel fine della lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua ricchezza, e la sua libertà d’indole e di fatto. La qual libertà produce in buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047]certa, anzi necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua. La quale se non è libera primitivamente e per indole, stante l’inevitabile mutazione e novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove ella conserva l’indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa la libertà. E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle principali parti, e uno de’ caratteri distintivi. E ciò è naturale ad una lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo, perchè antichissimo, e quindi naturale, e l’antichità e la natura non furono mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno della matematica. Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè può di gran lunga mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E questa antichità [1048]di formazione e di coltura, antichità unica fra le lingue moderne, è forse la cagione per cui l’indole primitiva della lingua italiana formata, è più libera forse di quella d’ogni altra lingua moderna colta (siccome pure dell’esser più naturale, più immaginosa, più varia, più lontana dal geometrico ec.).

Tutte le lingue non formate sono libere per indole, e per fatto. Tutte le lingue nella loro formazione primitiva, sono parimente libere, qual più qual meno, e per indole e per fatto. La quale libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo le circostanze della loro formazione. Tutte ne perdono alquanto (e giustamente) coll’essere ridotte a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal carattere sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.

Parlando dunque delle lingue dopo che sono perfettamente formate, io trovo rispetto alla libertà, tre generi di lingue. Altre libere per natura e per fatto, come l’inglese. Altre libere per natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra lingua da’ pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai conoscere fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai conosciuto nè conosceranno l’indole della lingua italiana. Una [1049]tal lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e del suo carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi, non usando nel fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo; ed a perdere la prima e nativa libertà, per usurparne poi necessariamente una spuria ed impropria ed aliena dal suo carattere, come oggi ci accade. E già nel 500. si era cominciata a dimenticare da alcuni (come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra lingua, dico la libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e spesso ne’ loro migliori secoli, appena vi s’è cominciata a introdurre, la sterile e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio, del sentimento naturale e dell’orecchio ec.

Il terzo genere è delle lingue non libere nè per natura nè in fatto, come la francese. Lingue che vanno necessariamente a corrompersi. La lingua latina, la cui formazione non le diede un’indole libera (v. p.1007. fine-1008.), si corruppe con maravigliosa prestezza. Ed osservo nella poetica d’Orazio che a’ suoi tempi la novità delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli italiani da’ pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050]mai di aver notato in nessun scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d’ogni altra lingua antica). Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi nè degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla purità dell’Atticismo, e all’escludere questa o quella parola o frase da questo o quel dialetto, riconoscendola però per greca, e non escludendola dalla scrittura greca, come fanno i toscani rispetto all’italiana.

Diranno che la lingua francese, la più timida, serva, legata di tutte quante le lingue antiche e moderne, colte o incolte, si mantiene tuttavia pura. Rispondo

1. La lingua francese schiava rispetto ai modi è liberissima (sia per legge o per fatto) nelle parole.

2. La servilità di una lingua è incompatibile colla durata della sua purità, a causa della inevitabile mutazione e novità delle cose. Ma la lingua francese formata com’è oggi, è ancor nuova. Le circostanze hanno voluto che ella ricevesse una forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse ridotta ad esser lingua precisamente di carattere moderno. Non è dunque maraviglia se le cose moderne non la corrompono. La quale modernità [1051]di formazione, fu anche la causa della sua servilità. Se fosse stato possibile che la lingua francese ricevesse una forma di genere simile a quella che ha presentemente, e divenisse così servile, al tempo in cui fu formata p.e. la lingua italiana; ella sarebbe oggi così barbara, e sformata; avrebbe talmente perduta quella tal forma ed indole, che non si potrebbe più riconoscere. Come infatti la lingua francese così formata come fu dall’Accademia, non si riconosce dall’antica; e gli Accademici (o l’età e il genio d’allora) per ridurla così doverono trasformarla affatto dall’antica sua natura (v. Algarotti Saggio sulla lingua francese); il che sarebbe stato insomma lo stesso che guastarla, e la lingua francese si chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai ricevuta una forma stabile. E quantunque non l’avesse ricevuta, e gli scritti anteriori non sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto anche oggi per classico, mostra che differenza passi tra l’antica e primitiva e propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse libera nelle forme e nei modi ec. mostra la differenza delle nature de’ tempi anche in Francia ec. E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec. furono nel secolo del 500. epoca della vera formazione delle lingue italiana e spagnuola, e della letteratura di queste nazioni. E ben credo che lo stile d’Amyot formi la disperazione de’ moderni francesi [1052]che si studino d’imitarlo (v. Andrès, t.3. p.97. nota del Loschi), giacchè la loro lingua ne ha perduta interamente la facoltà, e v. il luogo di Thomas che ho citato altrove.

3. Ho già detto in altri luoghi come la lingua francese vada effettivamente degenerando dagli stessi scrittori classici del tempo di Luigi 14. in proporzione della diversità de’ tempi, naturalmente assai minore di quella che corre fra il tempo presente, e quello della formazione p.e. della lingua italiana, e qual sia il pericolo che corre massimamente l’odierna lingua francese, pericolo veramente non di lei sola, ma di tutte le lingue; e non delle lingue sole, ma delle letterature ugualmente; e non solo di queste, ma degli uomini e delle nazioni e della vita del nostro tempo; cioè il pericolo di divenir matematici di filosofici e ragionevoli che sono stati da qualche tempo fino ad ora, e di naturali che furono anticamente. (14. Maggio 1821.).

Dell’ignoranza del latino presso i greci v. Luciano, Come vada scritta la storia.

(14. Maggio 1821.)

Alla p.988. Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in latino. Non così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in proporzione delle molte autorità di padri greci ec. che recavano i latini, [1053]voltandoli nel loro linguaggio. E generalmente l’uso de’ padri ec. latini nella Chiesa e scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di quello delle autorità greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la riconosciuta supremazia della Chiesa Romana.

(15. Maggio 1821.)

Considerando per una parte quello che ho detto p.937. seguenti, intorno alla naturale ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente provveduto che l’uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l’altra parte considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1. al capo 11. Lib.3. del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz. intorno all’influenza reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle Memorie della R. Accadem. di Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti, Milano 1775. vol.4. p.42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e perfezione ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e principalissima prova, di quanto il nostro presente [1054]stato e le nostre cognizioni sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e di quanti ostacoli la natura vi avesse posti.

(15. Maggio 1821.)

Come senza una lingua sono quasi impossibili le cognizioni e nozioni, massime non corporee, o immateriali, e senza una lingua ricca e perfetta, la moltitudine e perfezione delle dette cognizioni ed idee, e il perfezionamento o il semplice incremento delle lingue conferisce assolutamente a quello delle idee, conforme ha evidentemente dimostrato, oltre a tanti altri e più antichi da Locke in poi, (Sulzer, l. cit. qui dietro, p.101. nota del Soave) e massime più moderni, il Sulzer nelle Osservazioni citate nella pag. qui dietro; così proporzionatamente senza una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle altre lingue, mancando o scarseggiando l’istrumento della concezione dei segni, come nell’altro caso sopraddetto, l’istrumento della concezione chiara e fissa, determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette concezioni.

(15. Maggio 1821.)

Non solo la greca parola ux®, come dissi altrove, deriva da spirare ec. ma anche la latina animus e quindi anima da nemow vento. V. Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p.62. E l’antico significato di vento nella parola anima fu spesso usato da’ latini. (Credo massime i più antichi, o loro imitatori.) V. il Forcellini, e il Saggio sugli Errori popol. degli antichi.

(15. Maggio 1821.)

[1055]Couper dee venire da kñptein.

(16. Maggio 1821.)

Quanto sia vero che la scrittura Chinese si possa quasi perfettamente intendere, senza saper punto la lingua, v. se vuoi, Soave, Append. 2. al Capo 11. Lib.3. del Compendio di Locke, Venez. 3a ediz. t.2. p.63. principio. (16. Maggio 1821.).

L’incredulità in qualunque genere è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo stesso motivo per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel trovar la cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono negare. Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol numero di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec. un piccol numero di verisimiglianze. Chi oltre il sapere e il pensar poco, non ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella cosa possa essere. Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia ragiona, o si picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e sapendo che quello che non può essere, non è, non la crede; e questo non in sola apparenza, o per orgoglio, affettazione di spirito ec. ma bene spesso in buona coscienza, e naturalmente.

(17. Maggio 1821.)

[1056]Alla p.1038. La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli. Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi (o C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo, l’uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica, l’altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo stesso tempo, andò piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui era stata portata da’ suoi antenati. E pure chi mette la perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si lagnava, com’è noto, della povertà della lingua latina.

Quanto più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del 300. De’ quali eccetto 3. soli, nessuno appartiene alla letteratura.

Ma non ostante la vastissima letteratura del 500. non però la lingua italiana si potè ancora nè si può dire perfetta. Non basta l’applicazione di una lingua [1057]alla letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla. Bisogna ancora che sia applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere, ma in tutti. Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina, non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico e primitivo, e meno influito da commercio straniero.

Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più soprastanno, e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese effettivamente a modelli, da’ nostri scrittori: e per conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e più la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl’infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), [1058]e della universalità degl’italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia guadagnato.

Oltracciò supponendo che i generi coltivati da noi nel 500. o anche nel 300. fossero tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli uomini e de’ secoli, la perfezione antica non basta ad una lingua nè ad una letteratura, s’ella non ha pure una perfezione moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de’ 30. tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a’ tempi di Filippo e di Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa da quella di Lisia, che si può dire opposta (isxnòw, e il deinòw); e certo assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama. E potremmo recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e nella stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello stesso 500. Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059]moderna in nessun genere, anzi se l’Italia non ha letteratura che si possa chiamar moderna, se ec. (ricapitolate il sopraddetto) come dunque la lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente dalla letteratura?

(17. Maggio 1821.)

La scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i pensieri del pittore. Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi.

(18. Maggio 1821.)

Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la penso. L’uomo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona molto, e non cura gran fatto delle [1060]cagioni delle cose. (V. p.1055. ed altro pensiero simile, in altro luogo.) L’uomo naturalmente per lo più immagina, concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall’esperienza, nello stesso modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune di queste, uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da’ diversi uomini naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a mirar più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause occulte, all’esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali, delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. V. p.1065. capoverso 2. E sebben tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni un poco formate si possono considerare come cause dell’irreligione, ossia del loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell’uomo, il quale non sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa qualità principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica [1061]e Cristiana.

Ed è veramente curioso il considerare in questa medesima Religione, ed in questo medesimo nostro tempo, le fasi, le epoche, e le gradazioni dello spirito umano, tutte ancor sussistenti, ed accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie di generazioni, delle quali nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a vivere, senza lasciar di produrne delle nuove, che vivono insieme colle primitive. Eccone quasi un albero genealogico.

 


 Religione  Maomettana

 

Religione Giudaica  conservantesi

_______   ancora presso gli Ebrei, che rigettano la modificazione fattane da                              

                Gesù Cristo, e si attengono e conservano appresso a poco la sua forma primitiva

                                                                     |

                                                                     |

Religione Cattolica,

________che conserva la forma primitiva della detta modificazione fatta da Gesù Cristo

               alla Religione Giudaica.

                                                                     |

                                                                     |

        Religione Luterana, Calvinista

ed altre sussistenti, e chiamate ereticali, che sono nuove modificazioni della detta  modificazione, oltre le molte altre già estinte nello spazio di tempo intermedio fra questa e quelle, e che si sono rifuse, o perdute, parte nella primitiva Religion Cristiana, ossia nella [1062] Cattolica, parte in qualcuna delle dette ereticali.

                                                                                           |

Nuove modificazioni, alterazioni, suddivisioni

ancora esistenti, del Luteranismo, del Calvinismo, e d’altre simili sette.

                                                                                          |

Incredulità religiosa

che deriva primitivamente dalla Religione Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle dette successive modificazioni e quasi generazioni di essa Religione.

(18. Maggio 1821.). v. p.1065. capoverso 1.

 

Alla p.1034. Altro è che la letteratura influisca sulla lingua del popolo, la modifichi, la formi, la perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la stessa che la scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo, e fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne’ quali la letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non aveva quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi.

(18. Maggio 1821.)

Quanto giovi la riflessione alla vita; quanto il sistema di profondità, di ragione, di esame, sia conforme alla natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063]coll’azione vediamolo anche da questo. Considerando un poco, troveremo che l’abito di franchezza, disinvoltura, ec. che tanto si raccomanda nella società, che è indispensabile pel maneggio degli affari d’ogni genere, e che costituisce una gran parte dell’abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che l’abito di non riflettere. Abito che il giovane alterato dall’educazione, non riesce a ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s’egli ha grande ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il cui primo abordo dice Mad. di Staël, ch’è sempre un peu roide finch’egli non si mette à son aise.)

Il fanciullo è sempre franco e disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all’azione, quanto portano le forze naturali dell’età. Le quali egli adopera in tutta la loro estensione. Se però non è alterato dall’educazione, il che può succedere più presto o più tardi. E tutti notano che la timidità, la diffidenza di se stesso, la vergogna, la difficoltà insomma di operare, è segno di riflessione in un fanciullo. Ecco il bello effetto della riflessione: impedir l’azione; la confidenza; l’uso di se stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita. Il giovanetto alterato [1064]dall’educazione è timido, legato, irresoluto, diffidentissimo di se stesso. Bisogna che col frequente e lungo uso del mondo, egli ricuperi quella stessa qualità che aveva già di natura, ed ebbe da fanciullo, cioè l’abito di non riflettere, senza il quale è impossibile la franchezza, e la facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo valore. E ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali. Ma chi non ha ricuperato fino a un certo punto l’abito di non riflettere, non val nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli affari, e massime in quelle circostanze che portano, dirò così, un certo pericolo, non fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e disinvoltura, e di una, dirò così, intrepidezza sociale. Qualità impossibile a chi per abito riflette, e non può deporre al bisogno la riflessione, e non può abbandonarsi, e lasciar fare a se stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più necessarie a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta e parte di vita. E v. gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle stesse azioni fisiche senza l’abito di non riflettere, [1065]abito che rispetto a queste azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto, rende impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali.

(19. Maggio 1821.)

Alla p.1062. La Religion Cristiana, quando anche si voglia considerare come parto della ragione umana posta nelle circostanze di quei tempi, di quei luoghi ec. è innegabile che ha vicendevolmente influito assaissimo sopra la stessa ragione, rivoltala al profondo, all’astruso, al metafisico; propagatala forse più di quello che abbia fatto qualunque altro mezzo; e cagionato grandissima e principalissima parte de’ suoi progressi. Ora è manifesto che l’incredulità religiosa deriva dai progressi della ragione, e che quando o l’uomo, o le nazioni non ragionavano, credevano, ed erano religiose.

(19. Maggio 1821.)

Alla p.1060. Le religioni sono il principio, e nel tempo stesso la parte principale e più rilevante della metafisica, ed oltracciò la parte la più intensamente metafisica della medesima metafisica; appartenendo alla natura, all’ordine, alle cagioni più remote, più nascoste, e più generali delle cose.

(19. Maggio 1821.)

Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066]impressioni che le medesime cose fanno ne’ diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le diverse maniere d’imitazione usate da’ primi creatori e inventori della favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad imitare e ad esprimere da’ diversi uomini colla parola significante quella tal cosa; (v. Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol.4. p.56-57. e p.44. nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco appoco in differenti favelle.

(19. Maggio 1821.)

Lampa, lampo, lampare, lampante, come pure lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento derivano manifestamente dal greco l‹mpein ec. co’ suoi derivati ec. del quale, e de’ quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch’io sappia), fuorchè la voce lampas, gr. lampŒw, ital. lampada, lampade, lampana, co’ suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias, lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange.

(20. Maggio 1821.)

Quanta sia la superiorità degl’italiani nell’attitudine a conoscere e gustare la lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067]degli scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo chi è superiore nell’imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità, suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl’italiani nello scriver latino, dal Petrarca fino a oggidì, v. Andrès t.3. p.247-248. e quivi le note del Loschi, p.89-92. p.99-102. t.4. p.16. e le Epist. del Vannetti al Giorgi.

(20. Maggio 1821.)

Le parole di qualunque genere, (cioè particelle, come re, preposizioni, come ad ec., nomi ec.) che si prepongono ai verbi nella composizione, li chiama Varrone, e dietro lui Gellio, praeverbia. V. Forcellini.

(20. Maggio 1821.)

Le cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d’indole e di fatto, a differenza della latina, sono

1. Che la sua formazione accadde in tempi antichissimi, o si vogliano considerare quelli di Omero, o quelli di Pindaro, di Erodoto ec. o anche quelli di Platone ec. tempi che sebbene assai colti e civili (dico questi ultimi) anzi il fiore della civiltà greca, nondimeno conservavano ancora assai di natura. A differenza della lingua latina formata in un tempo di piena [1068]adulta e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch’era già cominciata la servitù degli animi romani; nell’ultima epoca dell’antichità.

2. Anche la lingua latina si andò formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori prima del suo secolo d’oro. Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d’oro. I suoi scrittori antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni agli antichi. Da Omero a Demostene non v’è differenza di autorità o di fama rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua. Questo fece che nessun secolo della Grecia (finch’ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro secolo passato in fatto di letteratura. Non vi fu secol d’oro, tutti i secoli letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e nell’opinione. Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della libertà della loro letteratura, e della loro lingua. Dico della libertà sì d’indole che di fatto. Non così è accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua formazione. Ma ella ebbe i suoi secoli d’oro come la latina. Laddove la lingua e letteratura greca, si andò [1069]via via perfezionando e formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata, come succede all’italiano, al francese ec. e come successe al latino. In maniera che non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser finiti, perchè non s’erano veduti tutti raccolti con soverchio splendore e superiorità in una sola epoca.

3. È già noto che le regole nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino agli ultimi tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero (o almeno si propagarono e crebbero) anche fra’ greci le regole, e le arti gramatiche, ec. ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio, e col di lei secolo d’oro, e parimente l’italiana, lasciarono largo e libero campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene il 500. non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano che fare coll’esattezza e finezza ec. [1070]e servilità delle posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i greci ne’ migliori tempi. Che se i latini n’ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà della loro lingua formata ec. ec. e resta compresa nella soverchia civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta poca libertà.

(20. Maggio 1821.). V. p.743-746. principio.

Quello che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla propria lingua, si deve anche applicare alla novità de’ sensi e significati d’una parola già usitata, alla novità delle metafore ec. V. Scelta di opuscoli interessanti. Milano. vol.4. p.54.58-61. I quali nuovi e diversi significati d’una stessa parola, non denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano confusione, ed ambiguità, come nell’Ebraico.

(20. Maggio 1821.)

Alla p.807. marg. Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per nomi imposti, le parole radicali (Varro, De ling. lat. lib.7.) (p.2. del I. libro de Analogia nella ediz. che ho del 400). [1071]

(21. Maggio 1821.)

Un antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente, significato non osservato dai Gramatici nè da’ Lessicografi (il Forcellini non ne fa parola alla v. Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un evidente vestigio nelle parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire, tamortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli scrittori latini non si trova, ch’io sappia, altra ricordanza che la sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l’adopra nella composizione di alcuni verbi come entr’ouvrir, entrevoir ec. Ell’signifie aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, dice l’Alberti della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si creda che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così composti e formati, e colla detta significazione. [1072]Giacchè 1. i detti verbi così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da quello di voir imparfaitement ec. dell’entrevoir (v. l’Alberti.). Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si verrebbero a dimostrar derivati dall’uso latino volgare. 2. La parola entre nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso. Laonde è manifesto che il detto significato passò dall’antichissimo latino al francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione. Si potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere, (co’ derivati) che vagliono ingannarsi nell’udire o nel vedere, cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir, sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo.

(21. Maggio 1821.). V. il Du Cange, se ha nulla al proposito.

Alla p.362. Immaginiamoci un pastore primitivo o selvaggio, privo di favella, o di nomi numerali che volesse, com’è naturale, rassegnare la sera il suo gregge. Non potrebbe assolutamente farlo se non in maniera materialissima; come porre la mattina tutte le pecore in [1073]fila, e misurato o segnato lo spazio che occupano, riordinarle la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle. Ovvero, che è più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono le pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi mediante veruna idea di quantità. Perchè non potendo contare nè quelle nè questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto della relazione scambievole o del ragguaglio di due quantità numeriche determinate: anzi non conoscerebbe quantità numerica determinata. Converrebbe che si servisse di un’altra maniera materialissima, come porre da parte prima una pecora ed un sasso, indi un’altra pecora e un altro sasso, e così di mano sino all’ultima pecora, e sino all’ultimo sasso. V. p.2186. principio.

Certo è che l’invenzione dei nomi numerali fu delle più difficili, e l’una delle ultime invenzioni de’ primi trovatori del linguaggio. L’idea di quantità, non solo assoluta e indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e sensibile l’idea del più e del meno, e quindi della quantità indeterminata), ma anche determinata, anche relativa a cose materialissime, considerandola bene, è quasi totalmente astratta e metafisica. Quando noi vediamo le cinque dita della mano, ne concepiamo subito il numero, [1074]perchè l’idea del numero è collegata nella mente nostra mediante l’abito, e l’uso della favella, coll’idea che ci suscita il vedere una quantità d’individui facili a contare, o di cui già sappiamo il numero. E l’idea di contare vien dietro alla detta vista, per la detta ragione. Non così l’uomo privo de’ nomi numerali. Egli vede quelle cinque dita come tante unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o attinenza numerica (come in fatti non l’hanno per se stesse), componenti una quantità indefinita (della quale non concepisce se non se un’idea confusa, com’è naturale trattandosi d’indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero l’idea di poterla determinare, o di contare quelle dita. Meno metafisica è l’idea dell’ordine. Giacchè (seguitando a servirci dell’esempio della mano) che il pollice, ossia il primo dito, stia nel principio della serie, che l’indice, cioè il secondo dito, venga dopo quello che è nel principio della mano, cioè il pollice, e che il medio cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un dito d’intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente l’idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo. Lo stesso potremmo dire di un filare d’alberi ec.

Così che io non credo che le denominazioni de’ numeri ordinativi non abbiano preceduto nelle lingue primitive quelle de’ cardinali (contro ciò che pare a prima vista, e che forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075]la parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due. Perchè la parola secondo esprime un’idea materiale, e derivata da’ sensi, e naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio, laonde la forma di quest’idea sussiste fuori dell’intelletto. Infatti nel latino, posterior vuol dire secundus ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco ìsterow: kuriÅtera ìstera nomÛzetai kaÜ bebaiñtera tÇn prÅtvn. Plutarco, Convival. Disputat. l.8. (Scapula) quantunque possa venir dopo, o dietro, anche quello che non è secondo. Così pure nell’italiano posteriore ec. Ma la parola due significa un’idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto, quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità, colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale, intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana. V. l’Encyclopédie méthodique. Métaphisique. art. nombres, preso, io credo, da Locke.

Quella cosa che è nel principio, ha una ragione propria per esser chiamata prima, e quella che gli sta dopo, per esser chiamata seconda, cioè posteriore: così che questi nomi ordinali sono relativi alle cose. Ma quella non ha ragione propria perchè l’uomo nel contare la chiami uno, e quest’altra due; e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla quantità, che è solamente idea, ed è separata dalle cose, nè sussiste fuori dell’intelletto.

(22. Maggio 1821.). V. p.1101. fine.

Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per una [1076]occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l’abito di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). E lo stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e negligenza.

Alla p.761. Anzi questa facoltà de’ composti di due o più voci, è proprissima anche oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare di tutte le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia; e il discorso ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola, (del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci burlesche o familiari antiche e moderne. Sicchè non si può dire che questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè sarebbe ridicolo l’impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li formano. Ma altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso [1077]di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo. E così fece giudiziosamente il Cesarotti nell’Iliade, e credo anche nell’Ossian. Omero, Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i Gramatici l’approvano: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo voleva, de’ magistrati. Davanzati (Annali di Tacito Lib.2. c.36. postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per rendere il latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821.). Era però già stato usato da Dante.

Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l’epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, di quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne’ Persiani e ne’ Romani, ne’ Sibariti, ne’ Greci ec. E tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e tutt’altro che barbara. Quantunque il tempo [1078]presente, che si stima l’apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa considerare come l’epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch’è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de’ mezzi per l’una parte, e per l’altra la contrarietà ch’essi hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com’è stato spesso notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire perfetta filosofia, ch’è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali), come guardinfanti, pettinature d’uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in un colpo dalla rivoluzione (V. la lettera di Giordani a Monti §.4.) E vedrete che il secolo presente è l’epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in Italia oggidì.

(23. Maggio 1821.). V. p.1084.

Altro esempio e conseguenza dell’odio nazionale presso gli antichi. Ai tempi antichissimi, quando il mondo non era sì popolato, che non si trovasse [1079]facilmente da cambiar sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec. ma anche quel suolo che calpestavano. E se non erano portate schiave; o tutte intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e alla schiavitù, se n’andava in esilio. E ciò tanto per volontà loro, non sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e volendo piuttosto mancar di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà passata, che dipendere dallo straniero: parte per forza, giacchè il vincitore occupava le terre e i paesi vinti non solo col governo e colle leggi, non solo colla proprietà o de’ campi o de’ tributi ec. ma interamente e pienamente col venirci ad abitare, colle colonie ec. col mutare insomma nome e natura al paese conquistato, spiantandone affatto la nazione vinta, e trapiantandovi parte della vincitrice. Così accadde alla Frigia, ad Enea ec. o se non vogliamo credere quello che se ne racconta, questo però dimostra qual fosse il costume di que’ tempi.

(23. Maggio 1821.)

Alla p.366. In una macchina vastissima e composta d’infinite parti, per quanto sia bene e studiosamente fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini, massime in lungo spazio di tempo; disordini [1080]che non si possono imputare all’artefice, nè all’artifizio; e ch’egli non poteva nè prevedere distintamente nè impedire. V. p.1087. fine. Di questo genere sono quelli che noi chiamiamo inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema della natura, e nella sua lunghissima durata. Che sebben questi non ci paiano sempre minimi, bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e complicazione, e della gran durata del tempo.

Per iscusarne da una parte la natura, e dall’altra parte, per conoscere se sieno veramente accidentali e contrari al sistema e non derivati da esso, basta vedere se si oppongono all’andamento prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle cose, e se ella vi ha opposti tutti gli ostacoli compatibili, che spesso possono riuscire insufficienti come nella macchina la meglio immaginata e lavorata. Quando noi dunque nella infelicità dell’uomo troviamo una opposizione diretta col sistema primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti infiniti e studiatissimi ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla natura, all’ordine primitivo ec. e lunghissima serie di secoli per ridurci a questa infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e durevole, ed anche irrimediabile ch’ella sia, non si può considerare [1081]come inerente al sistema, nè come naturale. Nè dobbiamo lambiccarci il cervello per metterla in concordia col sistema delle cose (il che è impossibile), nè immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un sistema fondato sopra gli accidenti, un sistema che abbia per base e forma le alterazioni accidentalmente fatteci, un sistema diretto a considerare come necessarie e primitive, delle cose accidentali e contrarie all’ordine primordiale: ma dobbiamo riconoscere formalmente l’opposizione che ha la nostra infelicità col sistema della natura; e la differenza che corre fra esso, fra gli effetti suoi, e gli effetti della sua alterazione e depravazione parziale e accidentale.

Lasciando che molti inconvenienti che son tali per alcuni esseri, non lo sono per altri; e molti che lo sono per alcuni sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi sotto un altro aspetto ec. ec.

Dimostrando dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l’infelicità dell’uomo che ne deriva) è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario all’ordine delle cose, e non essenziale ec.

(23. Maggio 1821.). V. p.1082.

[1082]Se fosse veramente utile, anzi necessario alla felicità e perfezione dell’uomo il liberarsi dai pregiudizi naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta ignoranza), perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente dell’uomo, opposti tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria sì lunga serie di secoli ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche impossibile l’estirpazione assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in quelli stessi che meglio li conoscono; e finalmente ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli coltissimi, dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano direttamente contrari al ben essere ed alla perfezione dell’uomo? Anzi perchè mai gli avrebbe solamente posti nella mente dell’uomo da principio?

(24. Maggio 1821.).

Alla p.1081. fine. Per lo contrario, dimostrando come le illusioni ec. ec. ec. sieno state direttamente favorite dalla natura, come risultino dall’ordine delle cose ec. ec. vengo a dimostrare ch’elle appartengono sostanzialmente al sistema naturale, e all’ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità e perfezione dell’uomo.

(24. Maggio 1821.)

[1083]Alla considerazione della grazia derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de’ mezzi più frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il piccante. E ancora dall’amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso dell’amore e della stima di chi ti dispregia, perch’ella ti pare più difficile, e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o ritrose, o motteggianti ec.

(24. Maggio 1821.)

Stante l’antico sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne’ tempi antichissimi, le virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l’abuso della vittoria ec. erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto profondi filosofi e conoscitori della storia dell’uomo, sieno quelli che riprendono Omero d’aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi, dove il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime e poetica, concepiva anche in que’ suoi tempi antichissimi la bellezza della misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà che a noi pare assurda. (E quindi incidentemente inferite l’autenticità [1084]di quell’Episodio, tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a’ suoi tempi pareva nobile, naturale e necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio.

(24. Maggio 1821.)

Alla p.1078. Riferite a questo (per altro effimero e debole e falso) risorgimento della civiltà, la mitigazione del dispotismo, e la intolleranza del medesimo più propagata: il perfezionamento di quello che si chiama sentimentale, perfezionamento che data dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee cavalleresche, che come tali si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte del 600 (come nei romanzi di Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il Mariana attribuisce al Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso sulle forti e vivaci e dolci illusioni) l’indebolimento del valore (e quindi della vita nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli spagnuoli. Ho detto il Mariana, e così mi pare. Trovo però lo stesso pensiero nel P. d’Orléans Rivoluz. di Spagna lib.9. Ma il Mariana mi par citato a questo proposito dalla march. Lambert, Réflex. nouvelles sur les femmes. e così di tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec. che ora non si ardisce di porre in ridicolo, com’era moda in quei tempi: un certo maggiore rispetto alla religione de’ nostri avi ec. ec. Cose tutte che dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso della ragione, della filosofia, de’ lumi.

(24. Maggio 1821.)

Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto, ma relativo, è l’essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può dimostrare [1085]a chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono non solo i tempi da’ tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli stessi compagni differiscono sovente da’ compagni, giudicando bello quello che a’ compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si può convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire che nessuno de’ due che discordano nell’opinione, può pretendere di aver più ragione dell’altro, quando anche dall’una parte stieno cento o mille, e dall’altra un solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella letteratura ec. ec. V. a questo proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M. T. Cic. ad Q. Fratrem, cum adnott. et italica interpretat. Jacobi Facciolati; accedit nupera eiusdem interpretatio A. C.. Verona, Ramanzini. Ovvero lo Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il passo di detto discorso che fa al mio proposito.

(25. Maggio 1821.)

Parecchi filosofi hanno acquistato l’abito [1086]di guardare come dall’alto il mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e perpetuamente dall’alto le cose proprie. Nel che si può dire che sia riposta la sommità pratica, e l’ultimo frutto della sapienza.

(25. Maggio 1821.)

Della difficilissima invenzione di una lingua che avesse pure qualche forma sufficiente al discorso, e come questa debbe essere stata opera quasi interamente del caso, v. le Osservazioni ec. del Sulzer nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano. 1775. Vol.4. p.90-100.

(25. Maggio 1821.)

Siccome la perfezione gramaticale di una lingua dipende dalla ragione e dal GENIO (la lingua francese è perfetta dalla parte della ragione, ma non da quella del genio), così ella può servire di scala per misurare il grado della ragione e del GENIO ne’ vari popoli. (Con questa scala il genio francese sarà trovato così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione di quel popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che attestassero il GENIO FELICE de’ Greci, la loro lingua pur basterebbe. (Lo stesso potremo dire degl’italiani avuto riguardo alla proporzione de’ tempi moderni, che [1087]non sono quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando una lingua, generalmente parlando, (cioè non di una o più frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di tutte in grosso) è insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un’altra lingua, egli è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito men coltivato che l’altro. (Che diremo dunque dello spirito de’ francesi dalla parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non di una sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai, v. p.1091. nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa dubbia per me, e lo viene a confessare implicitamente il Raynal. Dico geni sviluppati, perchè nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi non già, stante le circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec. l. cit. qui dietro. p.97.

(25. Maggio 1821.)

Alla p.1080. marg. Lo stesso diremo delle costituzioni, de’ regolamenti, delle legislazioni, de’ governi, degli statuti (o pubblici o particolari di qualche corpo o società ec.); i quali per ottimamente e minutamente formati che possano essere, e dagli uomini i più esperti e previdenti, non può mai fare che nella pratica non soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088]che non s’incontrino dei casi dalle dette legislazioni ec. non preveduti, o non provveduti, o non potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il tutto fosse provveduto, e preveduto tutto il possibile, la pratica non corrisponda perfettamente all’intenzione, allo spirito e alla stessa disposizione dei detti stabilimenti. Insomma non v’è ordine nè disposizione nè sistema al mondo, così perfetto, che nella sua pratica non accadano molti inconvenienti, e disordini, cioè contrarietà con esso ordine. Ed uno degli errori più facili e comuni, e al tempo stesso principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre interamente l’idea di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce nel suo uso, andamento, esecuzione ec. Nella quale non possono mancare moltissimi accidenti e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema. Accidenti e sconvenienze che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e più numerose nei sistemi, ordini, macchine ec. che son opera dell’uomo (per ottima che possa essere), artefice tanto inferiore alla natura e per arte e per potenza. Maggiori però e più numerosi proporzionatamente, cioè rispetto alla piccolezza e poca importanza, [1089]durata ec. di detti sistemi umani, paragonati colla immensità ec. del sistema della natura. Nel quale, assolutamente parlando, possono occorrere e occorrono inconvenienti accidentali molto maggiori e numerosi che in qualunque sistema umano, sebbene assai minori relativamente.

(26. Maggio 1821.)

A quello che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose hanno certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano. Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in tanti particolari sistemi, indipendenti l’uno dall’altro, ma però ben armonici e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l’idea del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni, di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella sostanza, e in ciò ch’esiste. Così che gli speculatori della natura, e delle cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente. Potranno errare, prendendo per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090]arbitrario, ma non già nel cercare un sistema. Sarà falso quel tal sistema, non però l’idea ch’esso include, che la natura e le cose sieno regolate e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l’idea del sistema, si oppone all’evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente (se pur v’ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole. Ma oltre ch’egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema naturale e vero delle cose.

(26. Maggio 1821.)

Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere [1091]e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorchè menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta.

(26. Maggio 1821.)

Così, senza la condizione detta qui sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse che conducono a una conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connessioni che hanno le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza.

(26. Maggio 1821.)

Alla p.1087. Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec. ed altri tali, nessuno de’ quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se non dal genio.

(26. Maggio 1821.)

[1092]Alla p.894. marg. Riferite pure agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l’impotenza p.e. dell’Italia ne’ bassi tempi, di quell’Italia ch’era per altro animata di sì vivo, sì attivo, e spesso sì eroico amor di patria. Ma di patria oscura, debole, piccola, cioè le repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione, formando tante nazioni, tutte, com’è naturale, nemiche scambievoli. Dal che nasceva l’oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l’estrema miseria del sistema feudale. Riferitevi parimente il danno riconosciuto da tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città, ovvero anche delle provincie natali. Danno pur troppo ed evidente e gravissimo oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo statistica o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica. Ed è osservabile che l’amor patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto più fortemente e radicatamente, quanto è maggiore o l’ignoranza, o il poco commercio, o la piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma in proporzione [1093]del rispettivo grado di civiltà e di coltura. E in alcune delle più piccole città d’Italia l’amor patrio, e l’odio de’ forestieri è veramente accanito. E così proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella coltura artificiale, non si sa come. E lo stesso dico degl’individui più ignoranti ec.

(26. Maggio 1821.)

La letteratura di una nazione, la quale ne forma la lingua, e le dà la sua impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi, corrompe conseguentemente anche la lingua, che le va sempre a fianco e a seconda. E la corruzione della letteratura non è mai scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo vicendevolmente anche questa sulla corruzione di quella, come senza fallo, anche lo spirito della lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito della letteratura. Così è accaduto alla lingua latina, così all’italiana nel 400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi tempi alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva letteratura. Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi, dirò, imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094]più secoli, e molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio, in Imerio, in S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti o leggermente corrotti nella lingua. Tanta era per una parte la libertà, la pieghevolezza, e dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche essere applicata a pessimi stili, senza allontanarsi dall’indole della sua formazione, e senza perdere le sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere adoperata da una letteratura guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi tanto al buono come al cattivo, e ricevendo nella immensa capacità delle sue forme, e nella sua varietà, copia e ricchezza, sì l’uno come l’altro. Simile in ciò all’italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo gusto, ed usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto altrove. Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a differenza del francese, che avendo una sola lingua, ha anche un solo stile, e chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a poco, buono. E però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che tutti i francesi più o meno scrivono bene.

[1095]Tanta per l’altra parte (ritornando al proposito) era l’alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera. Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400. e poi nel 500. siccom’era corruzione italiana, non mutò le forme sostanziali, e il genio proprio della lingua; com’è accaduto per lo contrario in questi ultimi tempi, dove la corruzione è derivata da influsso straniero.

E se vogliamo vedere l’influenza straniera sulla lingua greca, e come subito la corruppe, per incorruttibile che paia, come abbiamo dimostrato; sebbene è difficile trovar cosa straniera in detta letteratura, consideriamo l’unico (si può dir) libro straniero che introdotto in Grecia (o ne’ paesi greci) abbia influito sopra i suoi scrittori, e che sia stato ai greci oggetto di studio. Lasciamo l’influenza del latino nel greco dopo Costantino, influenza che tardò molto a propagarsi e a guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò piuttosto sul parlato che sullo scritto, e dal parlato arrivò solo dentro lungo spazio, alla letteratura. Io voglio parlare della Bibbia. Esaminiamo i padri greci da’ primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli ebraismi, dall’uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta e barbara [1096]e spesso continua imitazione della scrittura, dal misticismo della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d’altro dialetto propagato fra’ giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec. ec. Ma erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto. Lascio la traduzione dei Settanta, e il Nuovo Testamento. Le stesse cause di corruzione influirono pure sulla lingua e sullo stile de’ padri latini. Ma da queste, com’è naturale, si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci che latini, e non pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie profane, o anche più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo la coltura, gli studi e l’eleganza degli scrittori.

(27. Maggio 1821.)

Non si stimino esagerazioni le lodi ch’io fo dello stato antico, e delle antiche repubbliche. So bene ancor io, com’erano soggette a molte calamità, molti dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità, o se vogliamo, [1097]infelicità degli uomini antichi, con quella de’ moderni, nel bilancio e nell’analisi della massa de’ beni e de’ mali presso gli uni e presso gli altri. Converrò che l’uomo, specialmente uscito dei limiti della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche stato sempre infelice. Ma l’opinione comune e quella della indefinita perfettibilità dell’uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno infelice, quanto più s’allontana dalla natura; per conseguenza, che l’infelicità moderna sia minore dell’antica. Io dimostro che l’uomo essendo perfetto in natura, quanto più s’allontana da lei, più cresce l’infelicità sua: dimostro che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l’antico stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll’essenza di stato sociale, e coll’alterazione inevitabile che l’uomo ne riceve da quello ch’era primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di fatto, [1098]che l’antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo, e da me perfetto, era meno infelice del moderno.

(27. Maggio 1821.)

Altra prova che il bello è sempre relativo. Dice il Monti (Proposta ec. vol.1. par.2. p.8. fine) che l’orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza esterna delle parole. Ora per quest’orecchio, parlando di parole italiane, non possiamo intendere se non l’orecchio italiano, e il giudizio di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue.

(28. Maggio 1821.)

La formazione intera e principale della lingua latina, accade in un tempo similissimo (serbata la proporzione de’ tempi) a quello della francese, cioè nel secolo più civile ed artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà) più corrotto: dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio. Ecco la cagione per cui la lingua latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco la cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due lingue ec.

(28. Maggio 1821.)

Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè espressivissime, bellissime, [1099]utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e modi, dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall’intonacatura vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarli.

(28. Maggio 1821.)

[1100]L’uomo non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna modificazione dell’amor proprio può condurre alla virtù. E così l’uomo non può esser virtuoso per natura. Ecco come l’egoismo universale, rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù all’individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l’egoismo individuale, anche nell’uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso. Perchè l’uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all’amor proprio suo. E perciò gli resta solo l’egoismo, cioè la più brutta modificazione dell’amor proprio, e la più esclusiva d’ogni genere di virtù.

(28. Maggio 1821.)

Chiamano moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101]intero, e durevole. Dunque tutta l’antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come quel tempo che corse da quest’epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più barbaro dell’Europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de’ tempi e delle nazioni. Per esempio la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè debole) risorgimento della civiltà. E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l’unica parte in cui l’età presente somiglia all’antichità. Puoi vedere in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol.1. part.2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche rinnovate oggi.

(28. Maggio 1821.)

Alla p.1075. Da queste osservazioni risulta che l’uomo senza favella è altresì incapace di concepire definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102]in questo modo: p.e. una lunghezza di cento passi. Giacch’egli non può concepire questo numero definito di cento passi. Così discorrete di tutte le altre cose o idee (e sono infinite) che l’uomo concepisce chiaramente mediante l’idea de’ numeri. E da ciò solo potrete argomentare l’immensa necessità ed influenza del linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne’ segni, sulle idee e le cognizioni dell’uomo.

(28. Maggio 1821.). V. p.1394. capoverso 1.

Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all’uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de’ suoni. Inclinazione materiale e innata nell’uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l’uomo, ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec.

(28. Maggio 1821.)

[1103]La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli? Essendo certo che la memoria dell’uomo è impotentissima (come il pensiero e l’intelletto) senza l’aiuto de’ segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec. nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775. p.65. fine, e segg.) Ed osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi, mentre tutti sanno che l’uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le cose vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole. Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e sentiva nominare al tempo stesso.

(28. Maggio 1821.)

[1104]Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de’ suoi composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano, traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell’italiano trarre o tirare (ch’è tutt’uno), nè del francese tirer. Traher vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher. Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare, o l’italiano trattare, come in Dante ec. V. la Crusca in Trattare e specialmente §.5. Ora io penso che questi significati gli avesse antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell’uso dello scrivere, e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d’esso volgare. Ecco com’io la discorro.

Io dico che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti significati, deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da principio ancor questo verbo; e ne deriva così. I latini dal participio in tus (o dal supino) di molti e molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us, e ponendo quella in are (o in ari se deponente) formare un nuovo verbo, che avea forza di esprimere una continuazione, una maggior durata di quell’azione ch’era espressa dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare deriva da tractus, participio di trahere, e significando fra le altre cose manu [1105]versare, significa (almeno nell’uso suo primitivo) un’azione più continuata di quella che significava, secondo me, il verbo trahere preso in questo medesimo senso. Veniamo alle prove.

Prima di tutto, che tractare venga da trahere è indubitato, perchè, massime ne’ più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere, cioè trarre, tirare, strascinare. Così anche quella di distrahere, dilaniare. (V. il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed oggi ignote, di questo verbo. Colla differenza che tractare propriamente significa sempre un’azione più continuata di quelle significate da trahere, come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch’esso ebbe di tirare ec.

In secondo luogo che i latini avessero questo costume di formare nuovi verbi dai participi in tus di altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi significassero la medesima azione che i primitivi, ma più continuata e durevole, lo farò chiaro con esempi.

Da adspicere (verbo composto), participio, [1106]adspectus, i latini fecero adspectare. Ognuno può sentire la maggior durata dell’azione espressa da adspectare rispetto a quella di adspicere.

Cunctaeque profundum

Pontum adspectabant flentes.

 

dice Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere o spicere negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri composti di spectare). V. p.2275. ed Aen. 6.186. adspectans, e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens. Così dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare. (V. se vuoi la p.1388. fine.)

Da raptus participio di rapere viene raptare cioè strascinare, azione come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.

Così da captus participio di capere, si fa [1107]captare, che non importa continuazione di capere o prendere, perchè l’azione del prendere non si può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare, accattare e simili; azione continuata. V. il Forcellini. E da acceptus di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere nel secondo e 3° esempio del Forcellini, che significano, non il semplice ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben diverso dal frequente. V. p.1148. V. Exceptare in Virg. Georg. 3.274. e p.2348.

Da saltus antico participio di salire [1] (o dal supino saltum ch’è tutt’uno) viene saltare. E qui la forza (dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è manifestissima. Perchè salire propriamente vale saltum edere, e saltare, vale ballare ch’è una continuazione del salire, una serie di salti.

Così da cantus antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che significava primitivamente un’azione ben più continuata che il canere.

Da adventus antico participio di advenire procede adventare, che significa l’azione continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove advenire significa l’atto del giungere o del sopravvenire.

[1108]Del verbo tentare dice il Forcellini che deriva a sup. TENTUM verbi TENEO. Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam exploraturi. V. p.2344. e p.1992. principio.

Così rictare da rictus di ringi, dictare da dictus participio del verbo dicere, e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus di nubere, e flexare del vecchio Catone da flexus ec. adfectare da adfectus participio di adficere, e adflictare da adflictus di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da commentus di comminisci e comminiscere; natare dall’antico natus o natum di nare; e reptare (di cui v. se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere; e offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (v. Forcell.) da argutus di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare da pressus di premere (gl’ital. i franc. ec. e il glossar. hanno anche oppressare da oppressus); v. p.2052. 2349. e vectare da vectus di vehere. V. nel Forcellini gli es. i quali dimostrano che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.

Sectari che importa (chi ben l’osserva) un’azione più continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus, participio di questo verbo, contratto in sectus. O piuttosto da principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari. E acciò che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato, un’immaginazione), ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari, composto di secutari. Anzi io credo che questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare latino fino all’ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi. Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come affettare da adfectare, [1109]e così altre infinite parole. Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso più continuato che seguire. V. p.2117. fine.

Sia poi che l’antico volgare latino, o che quello de’ tempi bassi, o quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal participio di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si trovano nella buona latinità; come usare (Glossar.) abusare ec. da usus di uti, ec., inventare da inventus participio d’invenio, infettare da infectus participio d’inficio, traslatare da translatus di transferre, benchè da questo verbo gl’italiani abbiano anche trasferire; (translatare è nel Glossario.) fissare e ficcare (fixer, fixar) da fixus ec. (Glossar. fixare oculos.); disertare, déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere; v. p.2194; votare da votus di vovere; (Glossar.) da junctus di jungere lo spagnuolo juntar, (non è nel Glossar. bensì Juncta per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè obsessus a daemone) confessare (Glossar.) da confessus di confiteri; e così mille altri. V. p.1527. e 2023. (I due primi verbi non si trovano nel Du Fresne). V. p.1142. Parecchi de’ quali stanno nelle lingue nostre in cambio de’ loro primitivi latini, usciti d’uso, e pare che nel formarli non si avesse più riguardo alla natura de’ verbi continuativi.

A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocab. della Crusca. vol.1. par.2. Milano 1818. alla v. allettare. p.42. seg.), il quale dice e sostiene che il nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch’è lo stesso che il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO, come da LATTE ALLATTARE, da ESCA ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a man piena; che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è riposo, e il riposarsi è soavissima e giocondissima cosa, [1110]ne seguì che ALLETTARE, ossia APPRESTARE IL LETTO, divenne subito per metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a poco a poco la prepotente forza dell’uso fe’ sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l’altra di DILETTARE e DILETTO con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino delectare, illectare, oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano niente che fare con allicere al quale dà tutt’altra etimologia. (p.44.)

Lascio stare che quel significato metaforico, e la successiva metamorfosi del significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del solito conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de’ suoi ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha veduto che adlectare (e quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio nello stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si potrebbero mentovare. Ora allettare è azione continuata, e così oblectare che significa trastullare ec. e così dilettare ec. Laddove adlicere è propriamente l’atto del tirare, prendere, [1111]indurre colle lusinghe. E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente significativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere (diverso da quello formato da lac) significa propriamente un’azione continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare. V. p.2078. Giacchè anche nell’etimologia del verbo adlicere s’inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio degl’incantamenti amorosi. La sua etimologia, dic’egli, di cui non trovo chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa. Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel Forcellini v. allicio, e v. lacio. Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è composto di ad e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec. ec. Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente dall’adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è differente nel significato e nell’origine, e uniforme nel suono, letto participio di leggere, da letto nome sostantivo. V. il passo di Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi. In luogo che adlectare venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere. Forcell. in Lectus i.

Non bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo continuativi, e che significano continuazione o maggior durata dell’azione espressa da’ loro verbi originari, con quello de’ verbi frequentativi, [1112]che importano frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi (lasciando i frequentativi coll’infinito in essere che non possono esser confusi co’ nostri continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d’itare, o itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.) Così da lectus participio di legere, lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare; da missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare; da esus di edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere, emptitare; da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal sup. ventum), ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus di ridere, risitare di Nevio. Eccetto però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione itare, o itari, fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere facevano venditare (non vendititare); da meritus di merere, meritare; (il quale par continuativo e talora denotante costume), da pavitus antico part. di pavere, pavitare; da solitus ec. solitare; da latitus, antico participio, o da latitum antico sup. di latere, fecero latitare; [1113]da monitus di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di liceri, licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus part. di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; da strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus o crepitum di crepare, strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire scitari, sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum antico sup. o part. di noscere, noscitare; da agitus antico particip. di agere, contratto poscia in agtus, e finalmente mutato in actus, agitare. La quale eccezione merita d’esser notata, giacchè in questi casi la formazione de’ frequentativi non differisce da quella de’ continuativi, e si potrebbero confonder tra loro. Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari, ma formato da un participio o sup. in itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta ai continuativi, (come p.e. agitare, domitare ec. e v. Forcellini in tinnito) vale a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal participio o supino. V. p.1338. principio. Minitari e minitare formati da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e troncamento non solo dell’us ma dell’atus del participio, affine di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell’a del participio in i, fatta allo stesso effetto. Similmente rogitare da rogatus di rogare, coenitare da coenatus di coenare. V. p.1154. V. p.1656. capoverso 1.

Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare distintamente tutte queste cose, perchè non mi paiono osservate dai Gramatici nè da’ vocabolaristi. Il Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo continuativi. E s’inganna, perchè [1114]la differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi. P.e. raptare, ch’egli chiama frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede che quest’azione non è frequente ma continuata. E se i latini avessero voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare, 9.6. nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com’egli pur nota) da’ participii de’ verbi originarii. E i verbi augere, salire, jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), v. p.2340. factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare, saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare, dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non derivati (certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il Forcellini) ma immediatamente da’ verbi originarii. V. p.1201. Il verbo videre, da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare), ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115]visus comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per anomalia. Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec. si crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de’ quali v. il Forcellini v. Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare e scriptitare, come dice esso Forcellini ib. e v. Scripto. Così pure del verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in Plauto victare (Captiv. 1.1.V.15.) Da prandere che ha il frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso agg. o partic. e sost. si trova nel Caro e in Dante. (Alberti) V. i Diz. spagnuoli. V. p.2194. V. p.1140. e 2021. Da mansus di manere si ha mantare (per mansare), e mansitare. V. p.2149. fine.

Anzi non solo i gramatici non distinguono ch’io sappia il frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch’io sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante, e che io chiamo continuativo con voce nuova, perchè nuova è l’osservazione.

Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e proprietà primitive de’ verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte confuse nell’uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da’ non antichissimi. E si adoperò p.e. il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo, e s’adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in questa significazione, e trasferito ad un’altra ec. ec. v. p.1162. e per lo latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta prese la forza del [1116]frequentativo, o qualche volta viceversa; o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato o no. Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi appoco appoco, danno luogo alla nascita de’ sinonimi, de’ quali v. p.1477. segg. E il Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell’esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente e originariamente. I verbi formati nuovamente da’ participi nelle lingue figlie della latina, non hanno ordinariamente se non la forza del positivo latino. V. p.2022.

Questa facoltà de’ continuativi, è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata, con cui la lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue parole, le adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e senza confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi, formandoli da’ verbi originarii con modificazioni di desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o da pungere ec. ora la sola diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare, albeggiare [1117](formato però non da altro verbo, ma da nome, come altri pure de’ precedenti; che così pure usa felicemente l’italiano), [2] arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi puramente diminutivi); ora l’una e l’altra insieme al modo de’ verbi latini in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec. (v. il Monti a questa voce, e alla v. frequentativo). E di altre tali formazioni di verbi e d’altre voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze delle cose, e moltiplicare l’uso delle radici, senza confondere i significati, abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la latina, e la stessa greca. Ma de’ continuativi manca affatto, se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. V. p.1155. Manca pure, cred’io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch’ebbe questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero pure de’ continuativi già formati e introdotti. [1118]Giacchè negli stessi antichi gramatici o filologi latini de’ migliori secoli, non trovo notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro lingua. V. p.1160.

Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell’infinito in tare o tari (dico tare, non itare) non sono altro che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua. E credo che l’infinito di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us o in um. Come optare, secondo me, dinota un participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare sia il continuativo. E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane. Per esempio il verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus. Io credo che questo participio anomalo in detto [1119]verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco, di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus. E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare, sarebbe stata poo, chè appunto da pñv verbo greco antico e disusato in questa e nella più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare. (Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è infatti continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come può sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est largius vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo. Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne’ due primi esempi del Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch’è di Seneca, vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di quello scrittore più moderno, e meno accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus participio del verbo perduto ch’io dico, significa azione poco continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120]subito illa in media potione exclamavit, (Cic.) cioè nell’atto di bere. Laddove potatio formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a dimostrare e confermare sì l’esistenza del detto verbo originario di potare, ed avente il participio potus, sì tutta la mia teoria de’ verbi continuativi.

Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali dinotanti l’esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto participio, è, al mio credere, il continuativo. Auctare, come vedemmo p.1114. è continuativo di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus. Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus (e lo dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis augere, di cui mactus è il participio, e mactare il continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli attribuisce. V. p.1938. capoverso 1. e p.2136. e 2341.

Il verbo stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo esse formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum, [1121]piuttosto da situs o situm, contratto in stus o stum. O forse da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p.1527. e voltare per volutare ec. L’analogia fra il verbo essere e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e nel franc. été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare. Del qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch’è participio appunto di ser essere. E forse sussiste ancora il detto participio nel situs dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere. È noto che presso Plauto (Curcul. 1.1.89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che l’antica congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova adoperato più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione diuturnitatis (v. sto), (e ne reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso verbo che è continuativo di esse. Adsentari che il Forcell. dice esser lo stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari. Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si trova: SENTITARE, in animo sensim diiudicare. V. p.2200. V. p.1155. e p.2145. fine e p.2324. fine.

A me par di poter asserire, 1. che tutti o quasi tutti i verbi latini radicali (intendo non composti, non derivati, non formati da nomi, come populo da [1122]populus, o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere radicali (al modo appunto de’ verbi ebraici); come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg, fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec. come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib, e la sillaba è nondimeno una sola. Talvolta di una sillaba parimente, e di sole due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così anche ponere, cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero piuttosto fra’ verbi anomali. Potranno dire che il g di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che l’a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c, essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel supino e participio in c per più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l’o di lego, e come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione de’ verbi. E così [1123]dite dell’a di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata e non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso che tegsi e tegtum. V. p.1153.

2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi ebraici nella terza persona del perfetto ch’è la loro radice) e tre nell’infinito.

3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona presente singolare indicativa, più di tre sillabe nell’infinito; non sono radicali, ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.

Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba radicale, non quanto a quella di due sole [1124]sillabe nella prima e terza persona indicativa, e di tre sole nell’infinito. Nell’infinito, audire, sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella terza persona indicativa è chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit. Nella prima persona audio, sentio pare che n’abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe, considerando e pronunziando per esempio l’io di audio, come dittongo. Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che somigli all’aurea latinità.

Così l’antica pronunzia de’ dittonghi greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una sola sillaba. De’ quali dittonghi parlerò poco appresso. V. p.1151. fine. e 2247.

Queste considerazioni indeboliscono assai anche l’eccezione che abbiamo riconosciuta ne’ verbi della 4. congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2. sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d’inflessione, che proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne’ luoghi specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.

Lo stesso dico de’ verbi della seconda congiugazione, dove doceo, secondo la prosodia latina conosciuta, è trisillabo. Lo stesso di facio, e simili. Lo stesso de’ verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano una sola sillaba.

Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare [1125]presente indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. V. p.1231. capoverso 2. Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch’io credo certissima, (essendo naturale all’orecchio rozzo il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa opinione, docui e docuit anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi regolari d’essa congiugazione, a molti de’ quali manca il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi. Audii ed audiit (che troverete spessissimo scritti all’antica audi ed audit, come altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E [1126]tanto sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una parte l’esempio dell’italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo proposito quello che ho detto p.1124. mezzo), (come anche udii), e del francese che dice j’aimai; per l’altra parte, e molto più, l’esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l’ancien Orient n’a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d’introduction à l’intelligence des divines Écritures. Lettre 6. à Paris 1751. t.1. p.167.) V. p.2069. principio. E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare la maggiore antichità de’ popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo comune l’origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p.554. ap. Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u nella mia ediz. del 400. sta p.16. fine) che anticamente la lettera u multis italiae populis in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice [1127]aspirazione, e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch’esso sta nel principio di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d’essa lettera hanno lo spirito lene o tenue, come öów ovis, vinum oänow, video eàdv, viscus o viscum Þjòw. (Talora anche in luogo di spirito denso come nßòw, onde gli Eoli ??uiòw, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. pag.214. col.2. sul principio, e in F. ec. E ch’elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ìpnow che presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. V. p.2196. Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e vedilo), e Prisciano (p.9. fine-11. e vedilo). Da’ quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè dagli eoli prese assai, com’è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era un’aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l’iato, come in amai, amplia ?it termina ?itque ha un’iscrizione presso il Grutero (V. Encyclop. Grammaire, art. F. Cellario, Orthograph. Patav. Comin. 1739. p.11-15.). E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta congiugazione. Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l’antico v latino fu (come oggi fra’ tedeschi) lo stesso che una f, non resta dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non fu da principio lettera, ma aspirazione, e lieve. E così viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga, forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr, hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec. V. p.1139. e 1806. In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de’ perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed [1128]ivi per capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare, che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. V. p.1155. capoverso ult. e p.2242. capov.1. e 2327.

Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive (balbettanti come fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non monosillabi; (come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola, accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d’ogni misura, in forza per altro della imitazione, e dell’esempio che hanno di chi le pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come bisogna discorrere.

Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non composti e non derivati da nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i metafisici moderni s’accordano, che tutte le lingue son cominciate e derivano da’ nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (Sulzer). È dunque indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d’ogni lingua furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni, [1129]non s’inventarono certo nuove radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè da’ nomi. Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno una sola sillaba radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta la lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i verbi pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e 3. sole lettere radicali, 3. sillabe all’infinito ec. E tuttavia non gli possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de’ nomi da cui sono formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente rex, e dux nella prima società. Così l’antico precare e lacere, che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi. Così sperare da spes. Così arcere da arx che significa luogo alto, cima, altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. V. p.1204. Così quiescere da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive. Lactare da lac. V. p.2106. principio. [1130]Se così discorressimo intorno agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi manifestamente dal greco, o d’altronde) che hanno una sola sillaba radicale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse più volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi. Legere lo fanno derivare da l¡gv; e lex Cicerone e Varrone a legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo. Oltre ch’è più facile, più conforme al meccanico dell’etimologia, ed al solito progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa. Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso da quello di legge, ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco, ed è tutt’altra parola da quella ch’io voglio dire. Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è composta di ars e fax, la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax, cambiato in fex per forza della composizione, come factus diviene fectus ne’ composti, adfectus, effectus, confectus ec. e facere [1131]nel perfetto ha feci, e così iacere ha ieci, e jactus fa adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps, auceps ec. Fra’ quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato dall’antica preposizione amphi rispondente alla greca ŽmfÜ, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad altri, fra’ quali il Forcellini. Giacchè mi pare che risponda letteralmente al greco Žmfilaf¯w composto appunto di amfÜ e di lamb‹nv capio, piuttosto che ad Žmfik‹rhnow, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io credo poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne’ di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps). La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei c.5.) ed io per lo contrario capere da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però io credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse da principio caput. Giacchè, lasciando che questo è nome, e quello è verbo, è ben più naturale, [1132]che prima sia stata nominata la parte principale del corpo umano, e poi l’azione del prendere. E non so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare), che significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè cosa per cosa, o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo cioè una cosa, nominando la parte principale pel tutto, o prendendo la metafora dall’essere il capo la parte principale dell’uomo: onde i latini, (ed anche oggi gl’italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque personne. Alberti) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano. V. ancora il §.6.7 e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec. V. chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§. della Crusca, e così anche i Lessici greci. V. p.1691.

La radice monosillaba dell’antico specere o spicere si troverebbe similmente ne’ composti auspex, haruspex, cioè spex o spax. Così di iungere in coniux o coniunx, cioè iux o iunx ec. V. p.1166. fine. 2367. principio.

E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti, che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e differenziandoli con variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle cose che da principio si confondevano e accumulavano [1133]in ciascuna delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla necessità quanto all’utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura) cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec. Così la Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di questi monosillabi, come p.e. dux, che somministrerebbe un’infinita figliuolanza, senza contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de’ verbi o nomi derivati o composti ec. ne’ loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per l’una parte quanto le vere radici sien poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e servire; per l’altra parte quanta sia l’immensa fecondità di una sola radice, e le diversissime cose, e differenze loro, ch’ella si adatta ad esprimere mediante i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.

Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è fatto finora, (della qual diligenza e profondità gl’inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l’esempio anche in questi particolari, massime negli [1134]ultimi tempi, come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la classificazione derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l’analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle lingue primitive; (v. Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol.4. p.61-64.) lo studio dell’etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec. e giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi; facendosi una strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni, i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco meno (per consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana; e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia delle nazioni. V. p.1263. capoverso 2.

Osservo che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la greca, contro quello che può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità vera o supposta.

1. L’infinità e l’immensa varietà delle modificazioni che la lingua greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de’ suoi scrittori, a poterlo ed a farlo, (principal causa della sua potenza e ricchezza), reca un grande impedimento a scoprire [1135]i primitivi elementi, e le vere ed ultime radici di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle innumerabili e differentissime diversificazioni di significato, di forma ec. che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono. Puoi vedere la p.1242. marg. fine.

2. Le diversissime relazioni ch’ebbero i popoli greci con popoli stranieri d’ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le spedizioni d’ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori a quei primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze per l’una parte, per l’altra mandate molte sue proprie ed antichissime radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (v. in questo proposito il luogo di Senofon. della lingua Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni. Il che 1° diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2° la lingua latina essendo già formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca, (dico quando incominciarono [1136]le grandi ed estese relazioni de’ latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro, nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che hanno cercato di provare l’affinità del sascrito colle lingue antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall’origine stessa che la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni, dicendo che la penisola d’Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio. n.13. p.38. fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime forme. L’H derivata dall’Heth dell’alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era un’aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des caractères) simile all’j spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove antichissimamente era pur segno d’aspirazione o spirito. La f e il v mancanti all’alfabeto Fenicio (Encyclop. l.c.) mancarono pure come vedemmo all’antico alfabeto latino V. p.2004-2329. (e la p.2371. fine)

3. E questa che son per dire è la ragione principale. Tutti sanno, e dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137]immensamente dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e perfezionata solo negli ultimi tempi dell’antichità. Giacchè l’epoca del suo perfezionamento è quella di Cicerone. Ed oltre parecchi monumenti rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se non altro, assai vicino ai principii della lingua latina.

Ora per lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua greca appartiene non solo alla più lontana epoca dell’antichità che noi conosciamo distintamente, ma anzi ad un’epoca ancora tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della scrittura greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura [1138]che si conosca: dico Omero. E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio in veruno de’ secoli susseguenti. Nè tale avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga serie di tempi e di scrittori ne’ quali la lingua di rozza e impotente divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i Plauti, i Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di loro. Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. V. dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati con quelli per la prima lingua latina. Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò un’antichità meno antica e più vicina a noi.

Io credo però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle origini greche. Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa. O se il latino è derivato dal greco, certo n’è derivato in antichissima età, e così verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest’antichissima età della lingua greca. V. p.1295.

Se è vera l’opinione del Lanzi che la lingua [1139]Etrusca non sia fuori che un misto dell’antichissimo latino e dell’antichissimo greco, detta lingua, e il suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l’altra parte altrettanto interessante.

(29. Maggio-5. Giugno 1821.)

Alla p.1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell’aspirazione, è svanito però del tutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. Similmente i francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli spagnuoli fuera dal lat. foras o foris, dicono hors, aspirando però l’h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose dileguato il v. Il f greco, non è, come si sa, che un p aspirato, come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostituzioni dell’una di tali lettere all’altra. Mancava, come si dice, al primitivo alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da Palamede (Plin. 7.56.) insieme col x e col J che sono un k ed un t aspirati (Servius ad Aen. 2. vers.81.) V. Fabric. B. G. I. 23. §.2. e il Lessico dell’Hofmanno, v. Literae. È anche probabile che mancasse all’Alfabeto ebraico e che il b non fosse che un p. lettera che oggi manca a detto alfabeto. V. p.1168. L’alfabeto chiamato Devanagari ossia quello della lingua sascrita, (dalla quale alcuni dotti inglesi fanno derivar la latina) sebbene composto di 50 lettere manca, della f, e invece la detta lingua adopera un b, o un p aspirati. (Annali di Scienze e lettere. Milano 1811, n.13, p.43.) ec. ec. (5. Giugno 1821.). Considera ancora il nome greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio ec.

 

[1140]Alla p.1115. E perchè meglio si veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni volta che questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor proprio, consideriamo quel passo di Virgilio (Aen. 2.458. seq.) dove dice Enea che salì alla sommità della reggia di Priamo assediata da’ Greci:

Evado ad summi fastigia culminis: unde

Tela manu miseri IACTABANT irrita Teucri.

 

Per poco che s’abbia l’orecchio avvezzo al latino, facilmente si vede come impropria e debole in questo luogo sarebbe la parola iaciebant invece di iactabant. Ma quanto male vi starebbe anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere, si vedrà ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed anche languidamente; laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano assiduamente, e a distesa senza veruna intermissione. E così questo verbo riesce proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno. E l’azione qui viene ad essere continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza ostinata quale Virgilio voleva esprimere. V. dunque la differenza fra il continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come dicono i gramatici. Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una resistenza debole e inutile, e però volle usare una parola che esprimesse certo languore di azione. Debole e inutile, [1141]rispetto alle forze superiori de’ greci, non già debole rispetto alle forze degli assediati, anzi tanta quanta più si poteva. E Virgilio vuol descrivere una resistenza quanto più vana, tanto più disperata. E così quel miseri e quell’irrita che esprimono l’inutilità della resistenza fanno un bello e vivo contrapposto collo iactabant che esprime lo sforzo, l’infaticabilità, l’affanno, l’ostinazione, la ferocia, la fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo sommamente espressivo in virtù della proprietà delle parole, al solito di Virgilio. La qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di questo verbo nel detto luogo e in altri simili, come ancora di altri tali verbi in tali usi, e le bellezze d’altri siffatti luoghi, non credo che sieno state mai sentite da nessun moderno, per non essersi mai posto mente alla vera proprietà, alla propria forza, natura, indole di questo genere di verbi che chiamo continuativi. Servio spiega, IACTABANT: Spargebant, quasi nihil profutura, senso che non ha che far niente con quello che abbiamo osservato, e che deriva dal credere iactare un verbo tra frequentativo e diminutivo, come iactitare o presso a poco; e che tuttavia credo essere il senso nel quale questo e mille altri luoghi simili ed analoghi sono stati e sono intesi da tutti.

(6. Giugno 1821.). V. p.2343.

[1142]Alla p.1109. Fra’ quali da depositus di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che continua quanto si può l’azione del deporre, significando il deporre una cosa che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla raccomandandola, e commettendola alla fede, o ponendo in cura e custodia altrui, che ognun vede essere azione più lunga del deporre, e quanto il deporre sia più semplice. Il Glossar. latino barbaro ha similmente assertare ec. da assertus ec. usitare frequentativo ec. da usus ec. conservato in italiano, come pure il suo participio in francese ec. V. il detto Glossar.

Molti di così fatti verbi che si stimano di origine o barbara o recente, e nati ne’ tempi della bassa latinità, o ne’ principii delle lingue nostre, io credo che sieno antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell’uso de’ buoni scrittori, e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare. Portiamone alcune prove.

Versare è continuativo di vertere dal suo participio versus. Il Forcellini lo chiama frequentativo. E io domando se in questi esempi ch’egli adduce (v. gli esempi del primo §.) versare importa frequenza o continuazione. E così quando Orazio disse

Vos exemplaria graeca

Nocturna versate manu, versate diurna

 

facilmente si vede che dicendo vertite avrebbe detto assai meno, e significata l’assiduità molto impropriamente. Così discorrete del passivo versari che [1143]significa un’azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura più continua. Così di conversari, adversari ec. Da versare o da transversus, participio di transvertere, deriva transversare, e da questo il traversare, l’attraversare, e l’intraversare italiano, il francese traverser, e lo spagnuolo travessar e atravessar. Ma il verbo transversare escluso dagli onori del Vocabolario sta relegato ne’ Glossari, come in quello del Du Cange che l’interpreta transire, trajicere; e il Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario nello spurgo delle voci trovate senza autorità competente ne vecchi Dizionari latini, e lo spiega transverse ponere. Nè la recente Appendice al Forcellini lo toglie di quel posto o lo ricorda in veruna guisa. Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo poemetto o idillio del secolo di Augusto o del susseguente, dico in quel poemetto che s’intitola Moretum, (attribuito da alcuni a Virgilio, da altri ad un A. Settimio Sereno o Severo, poeta Falisco del tempo de’ Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora, ch’io sappia, non osservata) il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove quasi traduce i primi versi del poemetto latino. Dice dunque l’autore d’esso poemetto

[1144]Contrahit admistos nunc fontes atque farinas:

TRANSVERSAT durata MANU, liquidoque coactos

Interdum grumos spargit sale.

(v.45. seqq.)

 

Cioè vi passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla mano. Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di origine antica, e latina pura.

Potrebbe darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè rivolgere e dimenare fra le mani. Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss. e il Forcell. a transversare, la prep. trans, e il significato della voce transversus ec. par che confermino la mia interpretazione. C’è anche il verbo transvertere di cui v. Forcell. e di cui transversare par che debba essere il continuativo.

Tiriamo innanzi con altro esempio. Da arctus o arcitus antico participio di arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale v. Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo arctare che significa stringere constringere, non già momentaneamente come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere continuatamente, ed in modo che l’azione dello stringere non sia un puro atto, ma un’azione. O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che significa ne’ buoni scrittori latini ristringere. Ma ne’ Glossari latino barbari questo verbo si trova in significato di costringere o forzare, e in questo senso l’adoperò Paolo giureconsulto l’esempio del quale è registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai più che in quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato) s’adopera in Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca non dia questo significato a coartare, [1145]e dandolo a coartazione, s’inganni credendo che nell’unico esempio che riporta, questa parola sia presa in detto senso, giacchè v’è presa nel senso di restrizione; conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce Coartazione. vol.1. par.2. p.166.). Il quale condanna come barbare le parole coartare e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento. Ora io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano, nè moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque non ammesso nelle buone scritture.

Primieramente osservo che coarctare è continuativo di coercere, e coercere, come ognun sa, ha ne’ buoni latini un significato metaforico (più comune forse del proprio) che somiglia molto a quello di forzare. Anzi alcuni gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra autorità incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae cohabitare COERCUIT, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli eruditi è creduto apocrifo, e dell’età mezzana, tuttavia non è forse d’autorità nè di tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario latino. Laonde, se coercere [1146]significava forzare, o cosa somigliante, è naturalissimo che il suo continuativo coarctare avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o simile significato.

In secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte le lingue che ne derivano. Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo monerem: deinde ut in posterum ipse AD EANDEM TEMPERANTIAM ADSTRINGERER, cum me hac epistola quasi pignore obligavissem, dice Plinio minore (l.7. ep.1.). Che altro vuol dire se non costringersi, forzarsi, obbligarsi (com’egli poi spiega) alla temperanza? Altri usi di adstringere (e parimente di obstringere, constringere, e del semplice stringere latino) similissimi a quelli di forzare sono noti ai gramatici. E cogere che in senso metaforico (più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in unum colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare. Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147]oltre i significati propri hanno anche il metaforico di sforzare. Presso i francesi astreindre e contraindre si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre manca del primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera questa significazione propria, come figurata. Il che avviene ancora al secondo e terzo dei detti verbi italiani. Presso gli spagnuoli apretar che significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere) non serba altro significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico. Il legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare [3] in italiano, in francese, [1148]in ispagnuolo ognuno sa che obligare, obliger, obligar si adopra continuamente nell’espresso significato di costringere. Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere), oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella bassa latinità, ma nell’antico volgare latino, il senso di forzare.

(6-8. Giu. 1821.). V. p.1155.

Alla p.1107. Quantunque il Forcellini chiama acceptare frequentativo di accipere, sed, aggiunge, eiusdem fere significationis. Ora la differenza della significazione la può sentire ne’ detti esempi ogni buon orecchio, sostituendovi il verbo accipere. E quanto al frequentativo, osservi ciascuno che differenza passi dal ricevere annualmente una tale o tale entrata, ch’è azione continua rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere frequentemente; azione che non importa ordine, nè regola, nè determina il come, nè il quando nè con quali intervalli si riceva.

Ed a questo proposito porterò un luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un debito [1149]del suo padrone, dice a Seudolo servo del creditore Tibi ego dem? Risponde Seudolo

Mihi hercle vero, qui res rationesque, heri

Ballionis curo, argentum adcepto, expenso, et cui debet,

dato. (Pseud. 2.2. v.31. seq.)

 

Ecco tre continuativi, e nella loro piena forza e proprietà: adceptare da adceptus di adcipere, expensare da expensus di expendere, e datare da datus di dare. Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso questi tre verbi in fila, tutti d’una forma, in cambio de’ loro positivi? Ma qui stanno e debbono stare i continuativi in luogo de’ positivi, perchè questi esprimono una semplice azione, laddove qui s’aveva a significare il costume di far quelle tali azioni. Datare alcuni dicono ch’è lo stesso che dare. (Indice a Plauto). Vedete come s’ingannino, e sbaglino la proprietà dell’idioma latino. Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e portando un passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non amplius drachmas (di elelboro) datavit, spiega dare consuevit. Ma il costume è cosa continua (quando anche l’azione non è continua) e non già frequente, e la frequenza viceversa non importa costume. E quando Plauto in altro luogo (Mostell. 3.1. v.73.) dice Tu solus, credo, foenore argentum datas; [1150]e Sidonio (lib.5. ep.13.), ne tum quidem domum laboriosos redire permittens, cum tributum annuum DATAVERE, usano il continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare non il semplice atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa nè semplice nè frequente, ma continua.

Da sputus o sputum di spuere, sputare. Iamdudum sputo sanguinem, dice Plauto, cioè soglio sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo. V. in tal proposit. Virgil. (Georg. 1.336.) receptet. Ricettare e raccettare in italiano non è azione venti volte più continua, o durevole ec. di ricevere? V. anche resultat Georg. 4. 50. ed osserva il risultare ital. franc. e spagn. Puoi vedere p.2349.

Da ostentus di ostendere, participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i latini il continuativo ostentare.

Altera manu fert lapidem, panem OSTENTAT altera

disse Plauto (Aulul. 2.2. v.18.), e non avrebbe potuto dir propriamente ostendit, volendo significar uno che quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu non solamente lo veda, ma lo guardi. E Cicerone metaforicamente (Agrar. 2. c.28.): Agrum Campanum quem vobis OSTENTANT, ipsi cuncupiverunt. Ponete ostendunt invece di ostentant, e vedrete come l’azione diventa più breve, e la sentenza snervata e inopportuna. Lo stesso dico delle altre metafore di ostentare per iactare, gloriari, venditare e simili, tutti significati continuati.

(8-9. Giu. 1821.). V. p.2355. principio.

Alla p.1166. Quello che dico de’ verbi in tare si deve anche estendere ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per anomalia de’ participi o supini da cui derivano; come pulsare (che anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si scrisse anche pultare) [1151]è continuativo di pellere dall’anomalo participio pulsus, e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto. Voglio però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s’egli sia propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in questo luogo di Cicerone (De Nat. Deor. 1. c.41.) cum SINE ULLA INTERMISSIONE PULSETUR. Così da responsus o responsum di respondere, viene responsare continuativo.

Num ancillae aut servi tibi

Responsant? eloquere: impune non erit.

 

(Plaut. Menaechm. 4.2. v.56. seq.)

Cioè ti sogliono rispondere arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente ovvero ti rispondono spesso. E nel significato metaforico di resistere il verbo responsare è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare, che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente, come ognun vede. (9. Giugno 1821.). Così da cessus di cedere viene cessare, il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia veder cosa più continuata di quella ch’esprime questo verbo. V. p.2076.

Alla p.1124. marg. E chiunque porrà mente ai versi de’ comici, e altresì di Fedro, e degli altri Giambici latini, o se n’abbiano opere intere (come Catullo, le tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche [1152]potrà di leggeri avvertire che dovunque s’incontrano due o più vocali alla fila, o nel principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più e quasi regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo, quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie della prosodia. Fuorchè se dette vocali si trovano appiè de’ versi, dove bene spesso (come ne’ versi italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come in questo verso di Fedro:

Repente vocem sancta misit Religio.

(lib.2. fab.11 al.10. vers.4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio, ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo e nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18. al.17. vers.1.)

O Colonia quae cupis ponte ludere ligneo

la penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma la sillaba li, s’è vera questa lezione di ligneo per longo come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto anche coreo). E quello che dico de’ latini, dico anche dei greci. Nel primo verso della Ricchezza di Aristofane

 

ƒÙw Žrgal¡on prgm„ ¤stÜn Î Zeè kaÜ YeoÜ,

 

[1153]la parola Žrgal¡on è trisillaba. E notate che scrivendo

 

ƒÙw Žrgal¡on prgm„ ¤stƒ Î Zeè kaÜ YeoÜ,

 

senza nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano, come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris cap.55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec. come dittonghi, e conseguentemente che l’uso quotidiano della favella (tenace dell’antichità molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe uniche, sì nella Grecia come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al 2. verso del prologo di Fedro, lib.1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda ad notas, p. LI. fine.

(10. Giugno, dì di Pentecoste. 1821.).V. p.2330.

Alla p.1123. Anzi, secondo me, da principio si diceva legitus, tegitus, agitus, quindi per contrazione, legtus, tegtus, agtus, e finalmente per più dolcezza, lectus, tectus, actus. E chi se ne vuol persuadere, ponga mente al verbo agitare, il quale, secondo quello che abbiamo osservato e dimostrato finora, è formato dal participio (o dal sup.) di agere. [1154]E quindi s’inferisce che l’antico e primo participio di agere non fu actus ma agitius da cui venne agitare, come poi da actus actitare. V. il Forcell. in Caveo, fine. e p.2368. Lo stesso dico di cogitare o venga da agitare, o dall’antico coagitus di cogere. V. p.2105. capoverso 1. E similmente come da lectus di legere derivarono lectare e lectitare, così dall’antico legitus, il verbo legitare mentovato da Prisciano.

(10. Giugno 1821.). V. p.1167.

Alla p.1113. marg. Se però rogitare non deriva da un antico participio rogitus di rogare (come domitus di domare, crepitus ovvero il sup. crepitum di crepare, e tali altri) del che mi dà forte sospetto la nostra voce rogito participio sostantivato da rogare, in vece di rogato. Da lactatus allattato, lactitare ec. Restitare non saprei se da restatus, o restitus, ambedue inusati, e se da resisto, o resto. V. p.2359. La bassa latinità diceva parimente rogitus us nello stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus in luogo appunto di rogatus, del che v. il Du Cange. Del resto anche da paratus di parare, da imperatus d’imperare, da volatus o volatum di volare, da vocatus di vocare (v. Forcell. circa vocitare che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i continuativi da’ participii in atus della prima congiugazione; di cambiare cioè l’a del participio in i, per isfuggire il cattivo suono p.e. di mussatare, o mussatitare. (Eccetto però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare fecero mutitare sincopato da mutuitare se crediamo a quelli che derivano questo verbo mutitare dal precedente mutuare. Altri lo derivano da mutare, e fa parimente al caso nostro.

(11. Giugno 1821.). V. p.2079. e 2192. fine. e 2199. principio.

[1155]Alla p.1148. Lo spagnuolo pintar, cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere, sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus, participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere, cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere ec. (e v. p.1153. capoverso ult. donde raccoglierai che il primo e vero participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino. (11. Giugno 1821.). Non diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il Rucellai nelle Api. I francesi peiNt ec.

Alla p.1121. Così dubitare deriva da dubitus o dubitum o dubiatum (v. p.1154.) di un antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell’antico italiano. Questo però terminando in itare può anche, secondo il detto alla p.1113. essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto di haesitare da haerere, che somiglia anche nel significato. V. p.1166. fine.

(11 Giu. 1821.)

Alla p.1117. Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’ gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un’azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un’azione meno perfetta. V. p.1212. capoverso 1. e p.2328.

(11. Giugno 1821.)

Alla p.1128. Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima persona attiva singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai, è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti secoli dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156]è succeduta. Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli (altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata dall’antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e, forse a cagione del commercio scambievole ch’ebbero i francesi e gli spagnuoli, e le lingue e poesie loro ne’ principii di queste e di quelle: commercio notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto dagli eruditi, (Andrès t.2. p.281. fine, e segg.) e che in ordine alla forma di molte parole e frasi è la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della nostra, quantunque in genere somigli e la lat. e la nostra assai più della francese. Così nel futuro amarè ec. ec. somiglia alla lingua francese pronunziata.

Quanto alla cagione per cui si trasmise col tempo alle lettere a ed i il digamma eolico, e poi il v, affine d’evitare, come dicono, l’iato, secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno anche a tutta questa parte del nostro discorso, e dalle quali potremo forse dedurre che il detto costume non venne veramente dal popolo, come ho detto p.1128. il quale anzi pare che conservasse la pronunzia antica fino a tramandarla ai nostri idiomi, [1157]ma venne piuttosto, o nella massima parte, dagli scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua latina antica.

Il concorso delle vocali suol essere accetto generalmente alle lingue (se non altro de’ popoli meridionali d’occidente) tanto più, quanto elle sono più vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e quanto più la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de’ costumi e de’ gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che da principio s’aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il concorso delle vocali, perch’ella fu polita e formata e scritta in tempi appunto politi e civili, e i più lontani forse dell’antichità dalla prima naturalezza; nell’ultima epoca dell’antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo conoscere, cioè la scritta, [1158]ama il concorso delle vocali, specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.

E siccome la prosodia greca era già formata ai tempi d’Omero, (sia ch’egli la trovasse, o la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così fra la poesia dell’una e dell’altra lingua si osserva una notabile differenza in questo proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un’altra che incominci per vocale, l’ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All’opposto nella poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.

Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de’ trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159]solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s’è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia. Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de’ due ultimi secoli, par ch’abbiano una somma paura che due o più vocali s’incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.

E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell’indole sua, e del ripulimento di esse lingue. E accadde, io penso, anche alla lingua greca. Giacchè, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci più recenti, i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un epigramma che porta il suo nome, dove alle parole naixÜ kalòw si fa che l’eco risponda llòw ¦xei (epig.30), la qual cosa dimostra che lo scrittore dell’epigramma pronunziava nechi ed echi come i greci moderni, per naichi ed echei. E come io non [1160]dubito che i latini anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i greci, così mi persuado facilmente che a’ tempi di Cicerone e di Virgilio li pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano.

(12. Giugno 1821.)

Alla p.1118. Perchè meglio s’intenda questa teoria de’ verbi continuativi, ne osserveremo e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo fatto finora. Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro. L’atto, largamente parlando, non ha parti, l’azione sì. L’atto non è continuato, l’azione sì. Questi due verbali actus ed actio, sì nel latino come nell’italiano, (ed anche nel francese ec.) e non solamente questi, ma anche gli altri di simile formazione, a considerarli esattamente, differiscono in questo, che il primo considera l’agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se considereremo le opere dell’uomo o di qualunque agente, vedremo che alcune ci si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo continuativo significa azione. [1161]P.e. vertere significa atto, versare azione. Il voltare non può farsi veramente in un punto solo, ma la lingua necessariamente considera l’atto del voltare come indivisibile e non continuato. Laddove quello che in latino si chiama versare, come il voltare per un certo tempo una ruota, si considera naturalmente come azione continuata, fatta non già nell’istante, ma nello spazio, e composta di parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest’azione è composta di molti di quegli atti. Spessissimo avviene che ciò che l’uomo o la lingua considera come atto sia più durevole di un’azione dello stesso genere. Come, per non dipartirci dall’esempio recato, l’azione del voltare una ruota per lo spazio, poniamo, di una mezz’ora, è più breve dell’atto di voltare sossopra una gran pietra, che non si possa rivolgere senza l’opera d’una o più ore. E tuttavia quell’azione in latino si esprimerebbe col verbo continuativo versare, quest’atto benchè più lungo dell’azione, non potrebbe mai dirsi versare, ma si esprimerebbe col positivo vertere. Perchè quest’atto, ancorchè lungo, rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un’idea unica, non [1162]continuata, semplice: laddove quell’azione ci si presenta come moltiplice, composta, e continuata. Similmente jacere significa atto, jactare, azione.

Quando poi il verbo positivo latino esprime esso stesso non atto, ma azione, come sequi, ec. il continuativo significa la stessa azione più lunga e durevole, o più continua o costante, come sectari ec.

E finalmente spesse volte il continuativo significa l’usanza, il costume di fare quella tale azione o atto significato dal verbo positivo, come acceptare, datare, captare (v. il Forcellini), secondo che abbiamo veduto, significano il costume di ricevere, dare, prendere. (Forse captare nel senso p.e. di captare aves o pisces appartiene piuttosto alla classe precedente de’ continuativi dall’atto all’azione.) Noi abbiamo appunto volgere, voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare ec. positivo, continuativo e frequentativo.

Queste osservazioni debbono sempre più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita perfezione della lingua latina, che forse non ha l’uguale in simili prerogative e facoltà.

(12. Giugno 1821.). V. p.2033. fine.

Alla p.1115. marg. in fine. Che se il verbo salire è stato usato dall’Ariosto, dall’Alamanni, dal Caro e da altri nel significato dell’italiano saltare, come afferma il Monti (Proposta ec. Esame di alcune voci, alla v. ascendere. vol.1. par.2. p.65.), e bene, ciò non prova che quel verbo abbia tale significazione in nostra lingua, ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in tal senso non è veramente italiano, ma latinismo, [1163]come tanti altri, e latinismo non lodevole, a differenza di molti altri, e non meritevole di passare in uso o nel discorso o nelle scritture. Il francese saillir ha conservato alcuni significati figurati del latino salire, e lo spagnuolo salir per uscire (nel qual senso anche l’italiano salire fu adoprato dall’Ariosto) si avvicina pure al metaforico latino di salire per celeriter emergere. E v. se lo spagnuolo salir ha altri significati.

(13. Giugno 1821.)

Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell’uomo la ragione e la riflessione, e l’uso e gli effetti loro.

(13. Giugno 1821.)

Domandato il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella ch’è di tutti, cioè il senso comune.

(13. Giugno 1821.)

Altra prova dell’antico odio nazionale. Presso gli antichi latini o romani, forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola hostis. V. Giordani nella lettera al Monti, in fine, (Proposta ec. vol.1. par.2. p.265. fine. alle voci Effemeride. Endica. Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero su questa voce, p.205. fin. dove si porta anche l’esempio simile, della lingua Celtica.

(13. Giugno 1821.)

[1164]I Toscani che dicono bi ci di, perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (v. la Crusca) e non effi, emmi ec.? anzi iffi, immi ec.?

(13. Giugno 1821.)

A quello che ho notato altrove dell’antichità della nostra frase gridare a testa, ec. aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa tête, delle quali v. l’Alberti v. Tête, e v. pure i Diz. spagnuoli.

(13. Giugno 1821.)

L’invidia, passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell’uomo, secondo la S. Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima. Giacchè s’invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s’invidia ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell’altrui supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall’odio verso gli altri, derivante dall’amor proprio, ma derivante, se m’è lecito di [1165]così spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v’è stato un momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse.

(13. Giugno 1821.)

La convenienza al suo fine, e quindi l’utilità ec. è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.

(13. Giugno 1821.)

Tutti quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all’entusiasmo, e ne provano. Ma l’entusiasmo de’ giovani oggidì, coll’uso del mondo e coll’esperienza delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la gioventù, e la potenza naturale dell’entusiasmo.

(13. Giugno 1821.)

Quante controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra vinta nella battaglia Aziaca: (Od.37. lib.1. v.23. seq.)

Nec latentes

Classe cita REPARAVIT oras!

 

[1166]V. il Forcellini e i comentatori. E nessuno l’ha bene inteso. Acrone: NEC LATENTES CLASSE CITA REPARAVIT ORAS: fines regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus. Porfirione altro antico Scoliaste: NEC LATENTES C. C. R. ORAS: hoc est: Nec fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet. Nè mai s’intenderà e spiegherà perfettamente senza l’antico italiano, il quale c’insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non si ricoverò, non rifuggi alle recondite, alle riposte parti d’Egitto. Come se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore.

(14. Giugno 1821.)

Alla p.1155. marg. Così nictare e nictari derivano dall’antico participio nictus o supino nictum dell’antico e inusitato nivere, o come altri vogliono, di niti. V. p.1150. fine.

(14. Giugno 1821.)

Alla p.1132. Così nelle parole simplex, duplex, [1167]triplex, multiplex e altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i greci dicono pl¡kein) del quale io credo che sia continuativo anomalo il verbo plectere ne’ significati di piegare, intrecciare e simili.

(14. Giugno 1821.). V. p.2225. capoverso 1.

Alla p.1154. principio. E lo stesso dico de’ verbi d’altre forme. Come l’antico participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da noscitus, come notare da notus. Così di pascere dal verbo pascitare formato da pascitus in luogo di pastus. E non solo di altre forme, anche d’altre congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere, verbo che non differisce materialmente da docere se non che d’una lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa congiugazione seconda, e da molti altri simili participii. Se doctus fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus. Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus, sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de’ quali sono più usitati partum e partus, deducesi però necessariamente da pariturus. E parturus, ch’io sappia, non si dice mai. V. p.2009. e 2200. capoverso 2.

Io stimo probabile che il verbo sollicitare intorno all’origine del quale vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto [1168]da quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere) che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente faceva, secondo me, adlicitus. E così penso che sollicitare sia lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere (altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio. Questa però non intendo di darla se non come congettura.

(15. Giugno 1821.)

Alla p.1139. Del che si potrebbono addurre molte prove che lascieremo agli eruditi, contentandoci di questa sola osservazione la quale dimostrerà che al più il b ebraico era un p, che talora si aspirava, e somigliante al f de’ greci ch’è un p aspirato, come abbiam detto. L’alfabeto Fenicio dal quale derivò l’alfabeto greco, e per conseguenza il latino, o derivato dal greco, o dalla medesima fonte del greco, era lo stesso che il Samaritano, e l’alfabeto Samaritano era l’antico alfabeto ebraico. Ora che l’alfabeto fenicio mancasse della lettera f, o al [1169]più si servisse in sua vece di un p aspirato si dimostra, fra le molte altre prove, ed oltre quello che abbiamo detto, che il f mancava all’antico alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com’è noto, i Cartaginesi originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici, gr. FoÛnikew, servendosi come vedete di un p semplice in luogo di un p aspirato che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi. E così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma anche poeniceum e puniceum senza aspirazione, quel colore che i greci chiamavano foinÛkeow e per contrazione foinikoèw. Il che anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere proprio ad esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa lettera. Ovvero che il f de’ greci da’ quali essi presero forse i detti nomi (specialmente quelli del detto colore che derivano da foÝnij palma), si pronunziava anche come un p semplice. V. Forcellini in H. Pontedera p.14. (leggi assolutamente le sue prime 2 lettere, necessarie a questo mio discorso). I greci stessi scrivevano anticamente PH per F V. Encyclop. in H. p.215.

(15. Giugno 1821.)

L’ardore giovanile è la maggior forza, l’apice, la perfezione, l’Žkm¯ della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi politici, nei quali l’Žkm¯ dell’uomo, cioè l’ardore e la [1170]forza giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo, come ho detto in altro pensiero.

(15. Giugno 1821.)

Si consideri per l’una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l’uso della moneta. Oltre ch’ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl’individui di ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de’ popoli selvaggi ec., l’esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi indietro.

Per l’altra parte si consideri l’immensa [1171]difficoltà, l’immenso spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a ridurre all’uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente modificate e cambiate alquanto di forma. Anzi prima di trovare i metalli. E dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de’ pezzi di materia per se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta, pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che a’ tempi d’Omero, o almeno a’ tempi troiani (benchè certo non incolti), o mancava, o era di poco e raro uso la moneta.

E qui torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172]perfezione e felicità del genere umano, cioè l’incivilimento; e dico al ritrovamento dell’uso della moneta.

Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie che son necessarie per proccurar la moneta alla società. Cominciate dal lavoro delle miniere, ed estrazion dei metalli, e discendete fino all’ultima opera del conio. Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a disastri, a miserie, a pene, a travagli d’ogni sorta, per proccurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di felicità. Ditemi quindi 1. se è credibile che la natura abbia posta da principio la perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo dell’infelicità regolare di una metà degli uomini. (e dico una metà, considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2. se queste miserie de’ nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono. È noto come la schiavitù sia [1173]difesa da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si hanno per necessarie alla perfezione della società. V. p.1182.

E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine. Sicchè la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in cui s’intende la detta perfezione); e tolta questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società.

Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè l’uomo.

[1174]E notate che l’uso della moneta quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella perfezione ch’io vo predicando; giacchè il detto uso è l’uno de’ principalissimi ostacoli alla conservazione dell’uguaglianza fra gli uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù ec. ec. e l’una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco costringono la società all’oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (16. Giugno 1821.). Quel che si è detto della moneta si può dire di mille altri usi ec. necessari alla società o civiltà, e pur d’invenzione ec. difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.

Ho detto più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene vedremo che i tempi moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d’ogni sorta, ma non hanno propriamente letteratura, e se l’hanno, non è moderna, ma di carattere antico, ed è quasi un innesto dell’antico sul moderno. L’immaginazione ch’è la base della letteratura strettamente considerata, [1175]sì poetica come prosaica, non è propria, anzi impropria de’ tempi moderni, e se anche oggi si trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente non deriva dalla natura de’ tempi, ma questa l’è sommamente contraria, anzi nemica e micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in tempi moderni, è la meno immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte le moderne letterature. E per questo appunto è letteratura pienamente moderna, cioè falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell’utile (così detto), tanto nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l’uccide, come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d’oggidì.

(16. Giugno 1821.)

Quanto più cresce il mondo rispetto all’individuo, tanto più l’individuo impiccolisce. I nostri antichi, conoscendo pochissima parte di mondo, [1176]ed essendo in relazione con molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria, erano grandissimi. Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto il mondo, siamo piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l’individuo s’è impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i sensi che l’uomo e le sue facoltà impiccoliscono a misura che il mondo cresce in riguardo loro.

(16. Giugno 1821.)

Ho detto altrove che il troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare alcun frutto determinato.

1. Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse loro facoltà mentali, lo stesso genio. La soverchia delicatezza de’ loro organi li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti. Testimonio Pascal, morto di 39 [1177]anni, ed era già soggetto a una specie di pazzia. Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e straordinario, sebbene il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a noi, durante quel poco di tempo che gli durò l’uso delle sue facoltà mentali. Testimonio quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era che un portento di memoria; ma quello ch’io dico dell’intelletto o della fantasia, dico pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano portenti di memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o ancor prima. V. il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec. S’io volessi qui noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico, non per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che paiono essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai. V. in proposito del Chatterton famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68. p.276. Parte straniera.

2. Questi geni straordinari, penetrano in certi [1178]misteri, in certe parti della natura così riposte; scuoprono e vedono tante cose, che la stessa copia e profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto riguardo a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l’ordine, insomma vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell’eccesso, di essere determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro mente soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la copia delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà dell’uomo. E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni, sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori assai del loro ingegno. Come quegli animali inetti alla generazione per l’eccesso della forza generativa (i muli). E la stupidità della vita è ordinariamente il carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come narrano che fosse detto a Pico Mirandolano. Quello che dico dell’intelletto e della filosofia, dico pure della immaginazione e delle arti che ne derivano. Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell’essere i suoi [1179]componimenti, quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi degli altri tre sommi italiani, a niuno de’ quali egli fu realmente minore. E lo stesso dico eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare.

(17. Giugno 1821.)

Non è verisimile che la lingua chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie di secoli, a differenza di tutte le altre lingue. Eppure i suoi più antichi scrittori s’intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad intendere i moderni. Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente quasi dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua chinese potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè meno. Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado l’immutabilità straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo alterata. Il che non si può conoscere, mancando monumenti dell’antica lingua, benchè restino monumenti dell’antica scrittura. La quale ha patito bensì anch’essa, e va soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua nel chinese) non essendo nelle mani e nell’uso del popolo, (massime nella China, [1180]dove l’arte di leggere e scrivere è sì difficile) conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro significazione, di quello che facciano le parole che sono nell’uso quotidiano e universale degl’idioti e de’ colti, della gente d’ogni costume, d’ogni opinione, d’ogni naturale, d’ogni mestiere, d’ogni vita, e accidenti di vita. (A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec. vol.2. par.1. p.159. Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento delle quali è difficile: il che ne’ vocaboli tecnici non accade, perchè più preciso e meno arbitrario è il loro significato.) E lo vediamo pur nel latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto alle forme essenziali, e al valore. Così nel greco ec. Ora nella China, conservato l’uso, la forma, e il significato de’ caratteri antichi, è conservata la piena intelligenza delle antiche scritture, quando anche oggi si leggessero con parole e in una lingua tutta diversa da quella in cui gli Antichi Chinesi le leggevano.

(17. Giugno 1821.)

Dell’antico significato di fabula onde favella, e di Jow v. le note Variorum al 1. lib. di Fedro, prologo, verso ult.

(18. Giugno 1821.)

Noi diciamo fuso sostantivo mascolino singolare, e fusa plurale femminino, secondo la proprietà della lingua nostra di dare a parecchie voci nel plurale, la desinenza del neutro plurale latino, del che vedi il Ciampi De usu linguae italicae saltem a saeculo sexto, dove mostra come molti di questi nostri plurali femminini in a derivino da un latino popolare [1181]ec. Queste tali desinenze italiane pare che indichino de’ neutri latini corrispondenti, e quel fusa dell’italiano pare che indichi un neutro latino fusum, o almeno il suo plurale fusa, come da brachia facciamo le braccia, da cornua, le corna, da genicula, diminutivo di genua (Forcellini), le ginocchia, da poma, le poma, da ossa, le ossa, da fila, le fila, da membra, le membra, da fundamenta, le fondamenta, da castella, le castella, da labia, le labbia, da labra, le labbra, da gesta, le gesta, da ligna, vestigia, le legna, le vestigia, da ova, le uova, da terga, le terga, da flagella, le flagella, le cervella, ec. le vestimenta, le ornamenta (v. la Crusca in vestimento), ec. le corna, le ciglia ec. da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo, Podere, capit.3. terz.2.) ec. Notate che quando gesto significa gestus us, non diciamo le gesta ma i gesti. E allora solo diciamo le gesta, quando gesto si piglia in senso neutro, e vuol dire cosa fatta, come in Corn. Nep. Obscuriora sunt eius gesta pleraque. (V. il Gloss. in Gesta.) Così diciamo interiori aggettivamente, ma le interiora (ed anche però gl’interiori) assolutamente per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones vocant, et interiorum incisiones. V. p.2340. fine. Ma nè fusumfusa non si trovano ne’ Vocabolari latini, ma solamente fusus che fa nel plurale fusi. Or ecco ne’ frammenti di Simmaco scoperti dal Mai (Q. Aurelii Summachi V. C. Octo Orationum ineditarum partes. Orat.3. scil. Laudes in Gratianum Augustum, cap.9. Mediol. 1815. p.35.): Et vere si fas est praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt FUSA Parcarum. Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà del sesto secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte dell’autore. E che non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e sollecito, e così perpetuo seguace, come può sapere ognuno che l’abbia [1182]letto, e come si può notare a prima giunta anche negli altri scrittori di quella età e delle circonvicine, e generalmente di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta e affettata eleganza e rettorica. Questa voce fusa è stata notata dal Mai nell’Indice rerum notabiliorum, e dal Furlanetto nell’Appendice al Forcellini. V. pure il Forcell. e il Gloss. in saccus, sextarius, poichè noi diciamo le sacca, le staia. Dal che si potrebbe dedurre che l’antico volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum, sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel plurale, (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura, pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili, quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine, come fino a pochi anni addietro non si aveva notizia della voce che abbiamo veduta e che restava pure nell’italiano. Fructa e mura neutri plurali si ritrovano anche nel latino barbaro. (Du Cange.) Lectum sostantivo neutro è usato da Ulpiano nel Digesto, e v. Forcellini. (18. Giugno 1821.). Risus us dicono i buoni latini. Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum i; e così altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è un puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i, per gustus us, ec. su di che v. p.2146. e 2010. se vuoi.

Alla p.1173. Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso, difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e disastri, ma che d’altra parte si considerano appresso a poco come necessari alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi della pretesa felicità del genere umano.

[1183]Il pensiero precedente intorno all’effettiva necessità di tanti oggetti di lusso ec. per mantenere e dar motivo al commercio, necessario alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perchè i detti oggetti costando infiniti travagli all’umanità, si vede come sia necessaria alla civiltà l’inciviltà, alla perfezione l’imperfezione (nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e delicatezza e raffinatezza ec. la barbarie della società.

(18. Giugno 1821.)

Quello che ho detto altrove intorno alla diversa impressione che fanno ne’ fanciulli i nomi propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee che loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze accidentali di quell’età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è puramente relativo, e come l’idea del bello determinato non derivi dalla bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto estrinseche al genere e alla sfera del bello.

Ed ampliando questa osservazione, se noi vorremo vedere come i fanciulli appoco appoco si formino [1184]l’idea delle proporzioni e delle convenienze determinate e speciali; e come senz’alcuna idea innata nè di proporzioni nè di convenienze particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella cosa bella e quell’altra brutta, e quella buona, e quell’altra cattiva; e ad accordarsi più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza, bontà o il suo contrario, senza però averne nell’intelletto o nella immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso delle idee de’ fanciulli circa le forme dell’uomo, e vediamo come appoco appoco arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca degl’individui umani.

Il fanciullo quando nasce non ha veruna idea del quali sieno e debbano essere le forme dell’uomo: (eccetto per quello ch’ei sente materialmente e può concepire delle sue proprie membra e parti, mediante l’esperienza de’ sensi.) (Ma se egli non ha l’idea di dette forme, e questo è costante presso tutti gl’ideologi, come potrà averla della loro bellezza? Come potrà aver l’idea della qualità, non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri oggetti suscettibili di bellezza, di nessuno de’ quali il fanciullo ha idea innata. Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma idea di quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto possibile, ma reale, e che noi pur sappiamo ch’esista, senza però conoscerlo in altro conto. Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza? Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che appartiene a forme ignote ec., dunque il bello non è assoluto.) L’acquista però ben presto col vedere, toccare ec. E vedendo p.e. in tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di quella tal misura che noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e naturalmente l’idea che quella tal parte dell’uomo sia e debba essere di quella tal misura. Ecco subito l’idea di una proporzione non assoluta, ma relativa; idea non innata, ma acquisita, non derivata [1185]dalla natura nè dall’essenza delle cose, nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto, nè da un ordine necessario, ma dall’assuefazione del senso della vista circa quel tale oggetto, e dall’arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior parte degli uomini in quel tal modo.

Acquistata così per solissima assuefazione l’idea delle proporzioni o convenienze, il fanciullo si forma facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che è sempre e necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l’idea del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello, (il che non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell’uomo, e appartenente all’essenza e natura della sua mente e della sua facoltà concettiva) e deriva non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son per dire. Seguendo l’esempio che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso molto più lungo o più corto di quello ch’è assuefatto a vedere, concepisce subito il senso della sproporzione e sconvenienza, cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine di vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia del brutto. Ed eccolo ben presto d’accordo col giudizio universale degli uomini circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186]senza averne portata nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun’idea.

Ma ecco prove più trionfanti di questa mia proposizione, cioè che l’idea d’ogni proporzione, d’ogni convenienza, d’ogni bello, d’ogni buono determinato e specifico, e di tutti i loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.

1. Se quel naso sarà poco più lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia tanto che basti ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della bruttezza, il fanciullo non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun modo. Che la cosa vada così, n’è testimonio l’esperienza di chiunque è stato fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva in quell’età. E qual è la ragione? La ragione è che il fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e debole idea delle proporzioni, perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha parimente una scarsa ed inesatta e non sottile nè minuta idea delle sproporzioni, e non se n’accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto si oppone vivamente e fortemente alla sua abitudine. Solamente col molto vedere, egli arriva a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento, un senso fino per distinguere il bello dal brutto. Alle volte per l’opposto pare al fanciullo notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri neppure osservano. E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano. La ragione è la poca assuefazione, l’aver poco veduto, il che gli fa trovare strano quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non è brutto, o poco. Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un fanciullo raccontava che una persona aveva due nasi, perchè aveva osservata sul suo naso una piccola differenza di colore, in parte più rosso, in parte meno. E di questa cosa nessun altro si avvedeva senz’apposita osservazione. Che vuol dir [1187]questo? Se l’idea del bello e del brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed innata, avrebbe mestieri il fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi sensi, e di esperienza, per acquistare un’idea, non dico perfetta, ma sufficiente, della bellezza o bruttezza determinata? Il vedere che ne ha bisogno, non dimostra evidentemente che il giudizio e il senso della bruttezza o bellezza deriva unicamente dall’assuefazione e dal confronto, e che nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo, se non ci fosse con che confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che nessuna cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi non esiste un bello nè un buono assoluto.

Il perfezionamento del gusto in ogni materia, sia nelle arti, sia riguardo alla bellezza umana, sia in letteratura ec. ec. si considera come una prova del bello assoluto, ed è tutto l’opposto. Come si raffina il gusto de’ pittori, degli scultori, de’ musici, degli architetti, de’ galanti, de’ poeti, degli scrittori? Col molto vedere o sentire di quei tali oggetti sui quali il detto gusto si deve esercitare; coll’esperienza, col confronto, coll’assuefazione. Come dunque questo gusto può dipendere da un tipo assoluto, universale, immutabile, necessario, naturale, preesistente? Quello ch’io [1188]dico de’ fanciulli, dico anche de’ villani, e di tutti quelli che si chiamano o di rozzo, o di cattivo, o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di cose: lo dico di chi non è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno sa e dice che non può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è accostumato alla lettura de’ buoni poeti, il quale non può mai giudicare del bello poetico, del bello dello stile ec. ec. ec. Come il giudizio e il senso del fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente grossolanissimo, cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda dall’assuefazione, così il giudizio e il senso della massima parte degli uomini circa il bello, resta sempre imperfettissimo non per altro, se non perchè la massima parte degli uomini non acquista mai una tal esperienza da poter formare quel giudizio minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto fino. Cioè 1. non considera bene le minute parti degli oggetti, per poterle confrontare, e formarsene quindi l’idea della proporzione determinata, idea ch’egli non ha. 2. non ha l’abito di confrontare minutamente, ch’è l’unico mezzo di giudicare minutamente della proporzione e sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o cattivo. Così andate discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le facoltà e cognizioni umane. E dal vedere che il senso [1189]del bello è suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne’ fanciulli, e sì negli uomini già formati, deducete ch’esso non è dunque innato nè assoluto, giacchè quello che ha bisogno di essere acquistato e formato non è ingenito; e quello che essendo suscettivo di accrescimento è per conseguenza suscettivo di cangiamento, non è nè può essere assoluto.

Dunque io non riconosco negli individui veruna differenza di naturale disposizione ed ingegno a riconoscere e sentire il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco, ma non l’attribuisco a quello a cui si suole attribuire: cioè ad un sognato magnetismo che trasporti gl’ingegni privilegiati verso il bello, e glielo faccia sentire, e scoprire senza veruna dipendenza dall’assuefazione, dall’esperienza, dal confronto; ad una simpatia dell’ingegno con un bello esistente nella natura astratta; ad un favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni privilegiati ec. ec. Tutti sogni. Il genio del bello, come il genio della verità e della filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi che rende l’uomo d’ingegno 1. facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190]a notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze: 2. a paragonare, e nel paragone ad essere diligente, minuto, e ritrovare le minime disparità, le minime somiglianze, le menome contrapposizioni, i menomi rapporti: 3. ad assuefarsi in poco tempo, e con poca esperienza, poco vedere ec. poco uso insomma de’ sensi, poco esercizio materiale delle sue facoltà, contrarre un’abitudine: 4. a potere, mediante quello che già conosce, indovinare in breve tempo anche quello che non conosce, in virtù della gran forza comparativa che gli viene dalla delicatezza de’ suoi organi; la qual forza fa ch’egli ne’ pochi dati che ha, scuopra tutti i possibili rapporti scambievoli, e ne deduca tutte le possibili conseguenze. Per esempio (non uscendo dalla materia che abbiamo scelta) un fanciullo provvisto di quello che si chiama genio, ha meno bisogno di vedere, di quello che n’abbia un altro d’ingegno ottuso e torpido, per formarsi un’idea della bellezza umana; perchè concepisce più presto l’idea delle proporzioni determinate, mediante una più minuta ed attenta considerazione degli oggetti che vede, ed una più esatta comparazione di questi oggetti fra loro. V.g. quel fanciullo d’ingegno [1191]torpido non si accorgerà della piccola differenza di struttura che è fra quella bocca o quella fronte che vede, e quelle ch’è accostumato a vedere. Un fanciullo d’ingegno fino, penetrante, arguto, riflessivo, cioè di organi delicati, mobili, rapidi, pieghevoli, pronti, si accorgerà o subito, o più presto, di detta differenza, e concepirà il senso e il giudizio della sproporzione, e della bruttezza; perchè gli oggetti che ha veduti gli ha osservati meglio, e osserva meglio questo che or vede, e gli uni e l’altro gli fanno o gli hanno fatto, più viva, più chiara e più costante impressione; dal che deriva la maggior facilità ed esattezza della comparazione ch’egli fa in questo punto; comparazione ch’è l’unica fonte dell’idea delle proporzioni e convenienze. Ecco tutto il genio. Così discorrete proporzionatamente di tutte le altre età, e di tutti gli altri oggetti e facoltà, e vedrete come il genio di qualunque sorta, non sia mai altro che una facoltà osservativa e comparativa, derivante dalla delicatezza, e più o meno perfetta struttura degli organi, che è quello che si chiama maggiore o minore ingegno.

2. Se un fanciullo ha dintorno a se persone o di forme notabilmente diverse, o di forme tutte brutte, e che tutte convengano in una certa specie di bruttezza, l’idea ch’egli si forma della bellezza, e della proporzione, è incertissima nel primo caso, e sta solamente sui generali (cioè su quelle sole proporzioni che sono comuni a tutte le persone che lo circondano): e nel secondo caso, egli concepisce espressamente per bello, quello [1192]ch’è brutto, e che poi col più e più vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto. Qui chiamo in testimonio l’esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi dicano quanto l’idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta cambiando secondo l’età, cioè a misura dell’esperienza della loro vista: e come quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone ec. che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche agli altri. Il che deriva 1. dalla ragione ora detta, 2. dalla poca pratica di vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l’idea che essi avevano delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla sola idea delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3. da circostanze affatto estrinseche al bello: p.e. la nostra balia ci par sempre bella, e così tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec. ec. Allora il giudizio della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del bello). E si giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste tali fisonomie, sulle quali ci eravamo formata l’idea del bello umano, ancorchè fossero bruttissime. E siccome le impressioni della fanciullezza sono vivissime, così per effetto loro, [1193]e delle così dette simpatie ed antipatie, che sono uno de’ loro effetti, accade che per lungo tempo e forse sempre, ci troviamo inclinati a giudicare favorevolmente di persone bruttissime, ma somiglianti a quelle che da piccoli ci parvero belle, e massime di queste medesime; le quali, ancorchè brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente; ma solo il nuovo abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto di giudicare della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte. E ci bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre nuove idee del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e senza considerazione, non ci parranno mai tali. Massime se il nostro ingegno è torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel caso contrario più facilmente ci riesce di formare intorno all’estrinseco di quelle persone un giudizio conforme alle nuove idee del bello che abbiamo acquistato colla maggiore esperienza de’ sensi. Prove più certe che l’idea del bello non sia nè assoluta, nè innata, nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano desiderare.

[1194]3. L’uomo, se ben considereremo, non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non comparativamente, e l’idea del bello è sempre comparativa e quindi relativa. Noi giudichiamo della bellezza estrinseca dell’uomo, sia reale, sia imitata, molto più finamente che di qualunque altro bello fisico. Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed abbiamo fatto maggiore attenzione alle forme de’ nostri simili, che di qualunque altro oggetto, e ne abbiamo notate le menome parti, le possiamo paragonare fra loro, e quelle di un individuo con quelle di un altro, o della generalità; e in questo modo, abbiamo distinta e minuta ed esatta l’idea acquisita delle proporzioni e convenienze relative alla figura dell’uomo, e delle sproporzioni e sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza umana. Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de’ suoi simili. Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun modo, quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato. Se però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme, alla sua fisonomia, specchiandosi p.e. nelle fontane ec. Ed allora il giudizio ch’egli porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur comparativo, cioè comparativo alla sua propria [1195]forma, e quindi non si accorderà col giudizio generale, o solamente a caso. E se egli avrà avuta molta pratica di qualche altra specie di animali, come cani o cavalli ec. egli sarà molto meglio a portata di giudicare della bellezza di questi, che di quella dell’uomo. E nel detto giudizio sarà meglio d’accordo col giudizio comune degli uomini. Dico degli uomini, e non già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini, ponendo maggiore attenzione alle forme de’ loro simili, ne giudicano molto diversamente, e più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione però della facoltà de’ loro organi molto meno disposti o meno esercitati ad osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell’uomo, e massime dell’uomo o del fanciullo incivilito più o meno. Bensì è vero che quel tal uomo che abbiamo supposto, si sentirà forse inclinato verso quel suo simile più di quello che fosse verso qualunque altra specie d’animali, con cui fosse addomesticato; e massimamente se quel suo simile è di diverso sesso. Ma questa è inclinazione materiale ed innata della natura sua, del tutto indipendente dall’idea del bello, e dal giudizio delle forme: è inclinazione e p‹Jow ossia passione, e non idea. E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili tutti in un tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme e fisonomie ec. quasi alcuna differenza, come è già noto che accade p.e. all’Europeo che vede per la prima volta degli Etiopi, o de’ Lapponi. Tutti gli paiono appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più bello nè più brutto [1196]degli altri. Questo appunto accade al fanciullo, nel primo veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco acquistando l’idea ed il senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione, cominciando a notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute differenze negl’individui. Questo è ciò che ci accade negli animali, i quali tutti ci paiono appresso a poco p.e. della stessa fisonomia (dentro i limiti di una stessa specie); e quando anche facendoci l’occhio appoco appoco, arriviamo a portare un giudizio comparativo circa la bellezza comparativa delle loro forme, 1. questo ci accade solamente negli animali che più si trattano e più si osservano, come cavalli, cani, buoi ec. chè della bellezza p.e. del lione individuo, nessun uomo ch’io sappia, nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2. questo giudizio è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella specie, ed è credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio degli stessi animali, perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee che abbiamo delle proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente piuttosto ad altre specie, e ad altri oggetti, che alla propria specie loro, del che dirò poco appresso. Un bambino e un animale confondono facilmente un pupazzo, una statua, una pittura ec. cogli oggetti che rappresentano, perchè sopra questi hanno fatta poca osservazione: meno facilmente però, o meno durevolmente, se l’oggetto rappresentato è della propria specie e forma, perchè nella forma della loro specie hanno posta naturalmente più attenzione.

Quell’uomo che io ho supposto, se non avesse [1197]bene osservato il suo proprio colore, e vedesse un Nero e un Bianco allo stesso tempo, non saprebbe punto decidere qual de’ due fosse più bello, nè qual de’ due colori meglio convenisse alla specie umana. E se non avesse bene osservate le sue proprie forme, e vedesse al tempo stesso un Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe decidere quale di queste tre forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza di bellezza o bruttezza in nessuno di loro. Il che dimostra ch’egli non ha veruna regola o norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure umano.

L’uomo non può mai formarsi l’idea di una bellezza isolata, vale a dire che il bello assoluto non esiste, nè altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell’intelletto naturale e primitivo dell’uomo. Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto forestiero, e che questo sia il primo e l’unico che noi vediamo nel suo genere. Noi o non giudichiamo in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la sentiamo; ovvero ne giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad altre proporzioni, e così per lo più andiamo errati, e probabilmente giudicheremo brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che lo è nel suo genere effettivamente; o viceversa. Figuratevi [1198]di vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta. Questa è specie e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie di uccelli che conoscete. Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio; voglio dire, p.e. vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti a vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani parranno sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai differenti dai loro, e ch’essi non sono accostumati a vedere. Così discorrete d’ogni sorta di oggetti o naturali o artifiziali.

E passando da queste osservazioni, al buono e al cattivo, vedrete come nessuna cosa possibile sia buona nè cattiva, nè più o meno perfetta ec. isolatamente, ma solo comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il cattivo assoluto, ma solo il relativo.

Voglio prevenire un’obbiezione. Diranno che l’uomo naturalmente, e senza osservazione ed esame preferisce un altro uomo, o una donna giovane a una vecchia, e che quindi l’idea della bellezza è assoluta.

1. Potrei dire che al fanciullo non accade così prima di avere acquistata coll’esperienza de’ sensi, [1199]la facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi ricordo di aver da fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora di altre persone ch’erano giovani. E ciò per le ragioni dette p.1191. fine-1193.

2. Ma la vera e piena risposta è che questo non appartiene alla sfera della bellezza.

Il metafisico non deve lasciarsi imporre dai nomi, ma distinguere le diverse cose che si denotano sotto uno stesso nome. V. in tal proposito p.1234-36. e specialmente p.1237. Un colore isolato e vivo, che piace, si chiama bello, e non è. Un suono isolato che diletta, senza gradazioni nè armonia, non appartiene al bello. Bellezza non è altro che armonia e convenienza. Bruttezza è sproporzione e sconvenienza. Queste sono proposizioni non contrastate da nessun filosofo, per poco che abbia osservato. Quali cose si convengano o disconvengano insieme, si crede che la natura dell’uomo l’insegni, e che dipenda dall’ordine primordiale e necessario delle cose, e questo io lo nego. La quistione è qui. Dove non entra armonia nè convenienza, la quistione non entra. Una cosa che piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera di altri piaceri. Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son così fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente. [1200]Questa è sensazione (dipendente dall’arbitrio della natura circa le quali cose sieno piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il detto piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza, più di quello che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle papille del nostro palato, o il piacere venereo ec. (Lascio che anche questi tali piaceri non sono assoluti neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi neppure di un solo individuo, e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall’assuefazione.) L’uomo è più inclinato al suo simile giovane, che al suo simile vecchio. Così anche gli altri animali. Questa non è idea, ma inclinazione, tendenza, e passione; ed è fuori della teoria del bello, perch’è fuori ancora della sfera dell’armonia. Le tendenze sono innate e comuni a tutti gli uomini; le idee no. Ma nel detto caso la mente non giudica; bensì il fisico dell’uomo si sente inclinato, e trasportato. Non tutti i piaceri che vengono per la vista appartengono alla bellezza, sebbene gli oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano ordinariamente belli; ma quelli soli che derivano dall’armonia e convenienza, sì delle parti fra loro, sì del tutto col suo fine.

Io credo poi ancora che la stessa idea dell’uomo che le cose debbano convenire fra loro, non sia innata ma acquisita, e derivi dall’assuefazione in questo modo. Io sono avvezzo a vedere p.e. negli uomini [1201]le tali e tali forme. Se ne vedo delle differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi producono un effetto contrario alla mia assuefazione. Sviluppate quest’idea.

(20. Giugno 1821.)

Perchè la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto, nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo? Per l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, inseparabile dall’amor proprio. E v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del Vangelo.

(21. Giugno, dì del Corpus Domini. 1821.). V. p.1205. fine.

Alla p.1114. verso il fine. Il Forcellini ora fa derivare i continuativi da’ frequentativi, (come ductare da ductitare) ora questi da quelli. I continuativi da’ frequentativi non derivano mai. Quanto ai frequentativi da’ continuativi, io non nego che talvolta non possano essere derivati dai participi o supini di questi ultimi, cangiata l’a di detti participii o supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p.1154. Nel qual caso i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente al frequentativo che se ne formava. P.e. saltitare può forse anche venire da saltatus di saltare, cambiata l’a in i, ed essere frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare, cioè ballare. Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare o ballonzolare. Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene di rado, e la massima parte de’ frequentativi derivano immediatamente da’ positivi, e sono affatto indipendenti da’ continuativi degli stessi verbi, o abbiano questi, o non abbiano continuativi. Ed è curioso che il Forcellini bene spesso chiama p.e. cursare frequentativo di currere, e cursitare che cosa? frequentativo di cursare. V. p.2011.

(21. Giugno 1821.)

[1202]Alla p.767. Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano di questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue finchè non sono estesamente applicate alla scrittura. Come convenire scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni di una stessa parola, stabilire l’uso e l’intelligenza comune di una metafora o traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di voci o di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee? Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa parola, ec. ec.? Tutte queste cose sono impossibili [1203]senza la scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende. Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che quegli che le fece, non può più parlare. Gl’individui di una nazione non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno. Ed un individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può mettere in uso una parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune e stabilirne l’intelligenza colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente e difficilissimamente. Ora le lingue le più estese sono sempre nate dall’individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò quella parola, quella frase, quel significato ec. In qualunque modo si sieno formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi della favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta, sinchè una lingua non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e difficilissima. Di più è certo che l’uso di tutte le lingue nel loro nascere fu ristretto [1204]a una piccolissima società, dove la convenzione era meno difficile, perchè fra un piccolo numero d’individui. Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare, perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da una nazione, dove la convenzione che deriva dall’uso è lentissima, difficilissima, e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l’unico mezzo di convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le scritture quella che 1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne’ suoi principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente considerata. Perchè la scrittura non letterata, o non importante in qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec. ec. è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue qualità. Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre, stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa la lingua.

(22. Giugno 1821.)

Alla p.1129. Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da’ verbi, come vedremo [1205]di lex da legere, e come rex da regere, laddove noi regere da rex, conforme porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso naturale delle idee. Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l’azione stessa del comandare. L’idea dell’azione la più materiale, e per conseguenza l’idea espressa da’ verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da’ nomi. V. in proposito la p.1388-91. Dico posteriore ad esser significata, non sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore nella concezione (come in questo esempio) l’uomo stabilì prima un segno per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un segno l’idea metafisica di ciò che questi faceva. Perchè questa idea benchè seconda nell’ordine, fu la prima idea ch’egli concepisse chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno. Così che ella è anteriore come idea chiara, benchè posteriore come idea semplicemente. E quello che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l’ordine e la successione non delle idee assolutamente ma delle idee chiare che l’uomo ha concepite, giacchè queste sole egli ha potuto e può significare. V. Sulzer p.53. Ma bisogna perdonare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose che ripugnano all’analisi e alla scienza dell’umano intelletto.

(22. Giugno 1821.)

Alla p.1201. Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava una cavalla pregna dicendo, [1206]Tu gravida, e io no? Io credo che un padre storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli, che facilmente si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi fosse una passione innata, e senza causa morale. Del che si potrebbero portare infinite prove di fatto, come dell’odio delle madri brutte verso le figlie belle, e delle persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani innocentissime, senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il perchè. Così de’ padri di poco ingegno o in qualunque modo sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati su di loro. Così (e questa è cosa generalissima) de’ vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che i vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani, ancorchè innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi. Così tra fratelli e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l’amor proprio inseparabile dai viventi, produce e quasi si trasforma nell’odio degli altri oggetti, anche di quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor proprio) e resi più cari.

(22. Giugno 1821.)

[1207]Quante cose si potrebbero dire circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell’orecchio sulla bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie ec. In un luogo parrà graziosa una pronunzia forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un’altra pur forestiera; secondo i differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti che ora producono il senso della grazia, ora l’opposto ec. ec. V. p.1263. Lascio le differentissime armonie de’ periodi della prosa parlata o scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d’una stessa lingua e nazione, e d’un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose relative all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia, nè li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima. La quale sarebbe sembrata spiacevolissima e barbara agli antichi greci e latini, ec. alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre, massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più facile, stante il maggior numero di consonanze che avevano, ed anche [1208]il maggior numero di parole, considerando se non altro (per non entrare adesso nel paragone della ricchezza) l’infinita copia e varietà delle inflessioni di ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il verso, l’armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E nondimeno la fuggivano tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all’armonia de’ loro versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la rima.

Se esistesse un’assoluta armonia, cioè a dire un’assoluta convenienza e relazione fra i suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della lingua, quanto l’italiano adulto nè più nè meno. E se quest’assoluta armonia, e questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all’italiano che allo straniero e al fanciullo.

Tutti coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non sentono armonia veruna ne’ versi latini o greci, se pur non sono assuefatti lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, [1209]ed allora notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e relazioni, e regolarità, non si formano l’orecchio a sentirne e gustarne l’armonia. Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.

Il nostro volgo trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici ec. e nessuna ne troverebbe in Virgilio. Perchè? perchè gl’inni ecclesiastici somigliano sì per la struttura, l’andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi, perch’egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini.

Un italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d’armonia quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato. Il qual metro somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d’epodo, ed ha un’armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch’egli non sentiva il diletto dell’armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de’ nostri metri che chiamiamo anacreontici. Notate ch’egli non aveva punto [1210]quell’orecchio che si chiama cattivo.

Domandate a un francese, ancorchè bene istruito dell’italiano o dell’inglese, s’egli sente verun’armonia ne’ versi sciolti più belli, o ne’ versi bianchi degl’inglesi.

Ciascuna nazione ha avuto ed ha i suoi metri particolari, tanto per la struttura di ciascun verso, quanto per la loro combinazione, disposizione e distribuzione, ossia per le strofe ec. E questi in proporzione della differenza maggiore o minore de’ climi, opinioni, assuefazioni, tempi (giacchè le stesse nazioni altri n’avevano anticamente, altri poi, altri oggi) ec. ec. sono diversissimi, e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici per gli stranieri, secondo la misura dell’essere straniero, come noi verso i francesi dall’una parte, dall’altra verso gli orientali ec. ec. È impossibile allo straniero il sentirvi armonia nè diletto, senza una di queste condizioni 1. lungo uso di quella lingua; ma non basta, anzi è nullo quest’uso, se non vi si aggiunge il lungo uso di quella poesia. 2. somiglianza o affinità di quei metri co’ metri della propria nazione; come fra quelli degl’italiani e degli spagnuoli. La difficoltà del sentire l’armonia de’ versi stranieri è maggiore o minore in proporzione ch’ella è più o meno diversa dall’armonia de’ nostrali, o da quella o quelle a cui siamo avvezzi. 3. abito fatto ad altre armonie forestiere affini a quella di cui si tratta. 4. orecchio esercitato a tante e sì diverse armonie, che mediante una forza riflessiva, osservativa, e comparativa straordinariamente accresciuta, sia in grado di avvertire e conoscere o subito o ben presto la natura di quelle combinazioni forestiere, gli elementi di quell’armonia, e il ritorno de’ loro regolati rapporti rispettivi; sia in grado di assuefar presto l’orecchio, ed abbia una facilità di contrarre abitudine, ch’è propria degli animi e degl’ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de’ grandi ingegni; ec. ec. e possa in poco tempo arrivare a [1211]scoprire e discernere in detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.

È impossibile al nazionale avvezzo, e formato l’orecchio all’armonia de’ suoi metri, per quanto sia chiamata barbara, dura, dissonante ec. dagli stranieri, il non sentirla meglio, e il non trovarla più dilettevole di qualunque altra armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima ec. Fuorchè formando (che è difficilissimo e forse non accade mai) un’assuefazione nuova che vinca la passata.

Chi di noi sente l’armonia de’ versi orientali, o delle strofe loro? Non parlo de’ versi tedeschi o inglesi, o della prosa tedesca misurata ec. in ordine agl’italiani. I quali molto più presto e facilmente riconoscono un’armonia ne’ versi francesi, perchè lingua ed armonia più affine alla loro.

Si pretende, ed è probabilissimo che parecchi libri scritturali sieno metrici. Ma in quali metri sieno composti nessuno l’ha trovato, benchè molti l’abbiano cercato. E non si potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c’insegni qual fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole. E ciò per qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se esistesse, la regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate quelle parole, che si pretendono aver formato un’armonia. [1212]

(23. Giugno 1821.). V. p.1233. fine.

Alla p.1155. Alle volte, anzi bene spesso dinotano l’appoco appoco, il corso il progresso dell’azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di esprimere appunto la lentezza dell’azione, e non si usano ad altro fine. Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell’azione, ed hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de’ verbi latini terminati in itare. Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili significati.

(24. Giugno 1821.). V. p.1233. capoverso 2.

Non è ella cosa notissima, comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza quasi di ciascuno, che certe persone che da principio, o vedendole a prima giunta, ci paion brutte, appoco appoco, assuefacendoci a vederle, e scemandosi coll’assuefazione il senso de’ loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle, e bellissime? E poi perdendo l’assuefazione di vederle, ci torneranno forse a parer brutte. Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no. Molti de’ quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero belli da principio, cioè prima di esserci formata un’idea distinta e fissa del bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi. Che vuol dir ciò? Se esistesse un bello assoluto, la sua idea sarebbe continua, indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini, nè si potrebbe o perdere o acquistare, o indebolire o rinforzare, o minorare o accrescere, [1213]o in qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto) coll’assuefazione, dalla quale non dipenderebbe.

(24. Giugno 1821.)

Da qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. Ma una grandissima parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell’uomo in questi ultimi tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch’esprimono precisamente un’idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera; grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue colte d’Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente universale, cioè non come è universale la lingua francese, ch’è lingua secondaria [1214]di tutto il mondo civile. Ma questo vocabolario ch’io dico, è parte della lingua primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all’uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta. Ora la massima parte di questo Vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch’è puro in tutta l’Europa, è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l’Italia fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni, ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l’Europa adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo, appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E siccome le scienze sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò la repubblica scientifica diffusa per tutta l’Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da per tutto egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il cui sistema semplicizzato e uniformato, è comune oggi [1215]più o meno a tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell’andamento del secolo. Quindi è ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente, tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il termometro de’ costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de’ tempi, e seguono per natura l’andamento di questi.

Diranno che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le lingue d’Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che ho detto) anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa, e non è già la Nuova Olanda, nè la terra di Jesso. E se hanno accettate, ed usano continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto che fare colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente, e con più naturalezza e vantaggio la nostra lingua, ch’è sorella carnale della francese? Le origini di dette parole, a noi [1216]riescono familiari e domestiche, perchè in gran parte derivano dal latino, benchè applicate ad altre significazioni che non avevano, nè potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee. Spessissimo vengono dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello che sia alle altre lingue colte moderne. Spesso sono interamente italiane cioè stanno già materialmente nel nostro linguaggio, benchè in significato diverso, e meno sottile, o meno preciso, perchè i nostri antichi non poterono aver quelle idee, che oggi abbiamo noi, non perciò meno italiani di loro, nè quelle idee sono meno italiane perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire, o solo confusamente, secondo la natura de’ tempi, e lo stato dello spirito umano.

Si condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà, come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d’Europa.

Osservate p.e. le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare, demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non potendo aver quelle idee, non poterono pronunziare nè scrivere quelle parole in quei sensi. Ma così accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non saper esprimere un’idea chiara per loro, e chiara per tutto [1217]il mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate e perfezionate le lingue. Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano, o dobbiamo esprimere delle idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusamente e indeterminatamente: e poi diciamo che l’italiano è copiosissimo, e basta a tutto, ed avanza. Sicchè bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi lagnarsi che l’italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo addietro a tutte le altre. E come no, senza la lingua?

Aggiungo che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee, bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell’idea che desteremmo non sarebbe nè potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l’effetto dovuto e preciso di tali parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.

1. Fu tempo dove agli uomini ed agli scrittori bastava di giovare, di farsi intendere, di rendersi famosi dentro i limiti della propria nazione. Ma oggi, nello stato d’Europa che ho detto di sopra, non acquista fama nè grande nè durevole quello scrittore il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218]proprio paese. Nè in questa presente condizione di cose può molto e immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a giovare più o meno anche al resto del mondo civile. Nel rimanente quella gloria o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche anticamente poco durevole, nella stessa nazione ancora. Fra mille esempi, basti nominare i Bardi; molti de’ quali si sa confusamente e genericamente che furono famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi p.e. nella Scozia appena resta il nome e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi. Quello che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec. ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco durano, e poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli scritti, sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta l’umanità; nè lo scrittore, massimamente in questo presente stato del mondo, si deve contentare della utilità della sua sola patria, potendo con quel medesimo che impiega per lei, proccurare il vantaggio di tutte le altre nazioni.

2. Ho detto che difficilmente ci faremmo intendere, e susciteremmo precisamente l’idea che vorremmo significare, e che è precisamente espressa dalle parole [1219]corrispondenti già usitate in Europa. La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami) è scienza. Tutte le scienze giunte ad un certo grado di formazione e di stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe cambiato faccia a quella tale scienza. Com’è avvenuto che la rinnovazione della Chimica, ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura, e di tutta quella parte di nomenclatura fisica o d’altre scienze, che apparteneva, o era influita dalle cognizioni chimiche vecchie o nuove. E la nomenclatura di qualunque scienza è stata sempre così legata con lei, che dovunque ell’è entrata, v’è anche entrata quella stessa nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse inesatta nell’etimologie ec. purchè fosse esatta nell’intendimento e nel senso che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch’è scienza nuova e diversa dall’antica. E così accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in tutto o in parte. Perdono l’antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che diviene però universale come la prima. E quando fra diverse e lontane nazioni poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle rispettive nazioni e lingue. V. p.1229. Quindi i termini di tutte le scienze, esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre universali, nè sarebbe mai possibile nel trattarle, l’adoperare altri termini da quelli universalmente conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e toglier via la precisione. La qual precisione non deriva propriamente e principalmente da altro se non dalla convenzione che applica a quella parola quel preciso significato, bene spesso metaforico, ma passato in proprissimo. Mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione, e quindi, benchè la nuova parola equivalga quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca ec. non equivale quanto all’effetto, perchè il [1220]lettore o uditore non concepisce più quell’idea precisa e netta che concepiva mediante la parola usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall’assuefazione di attribuirgli e d’intenderla in quel preciso significato. Converrebbe rinnovare appoco appoco l’assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il che porterebbe necessariamente un lungo intervallo di oscurità e confusione nella intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura non arrivasse a prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto dell’usitata, e a farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva già fatto. Nè questo sarebbe il solo danno, o difficoltà; ma converrebbe che questa nuova nomenclatura diventasse universale, altrimenti restringendosi a una sola nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho specificati all’articolo 1. e le nazioni non s’intenderebbero fra loro nelle idee che denno essere da per tutto egualmente precise, e precisamente intese. E se una sola fosse la nazione che in qualunque scienza avesse una nomenclatura diversa dalle altre nazioni, quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe come fuori del mondo e del secolo, tanto per l’effetto de’ suoi scrittori sugli stranieri, quanto (ch’è peggio) per l’effetto degli scrittori stranieri su di lei. [1221]Posto poi il caso ch’ella arrivasse a rendere quella nomenclatura universale, ognun vede che siamo da capo colla quistione, e che la universalità resterebbe, e solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e con danno temporaneo) da una ad altra nomenclatura: ed allora io dico che sarebbe pazzo quello scrittore o quel paese che non vi si volesse uniformare.

La filosofia dunque ha i suoi termini come tutte le altre scienze. E siccome l’odierna filosofia è così 1. raffinata, 2. dilatata nelle sue parti e influenze, così che si può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno è tutta soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade che i termini filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso familiare, e regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline, degli scritti presenti. E perchè questi termini, come ho detto, sono in gran parte uniformi per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta Europa nelle espressioni delle idee sottili o sottilmente considerate, è presso a poco uniforme, anche nella conversazione.

Ed è ben ragionevole che la filosofia divenuta scienza così profonda, sottile, accurata, ed appresso a poco uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche filosofie), e, quel ch’è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara e certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222]i suoi termini stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e stretto commercio d’Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure, incerte, mal determinate, e sciocche filosofie che s’insegnavano nelle scuole, ebbero la loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero state intese in nessuna parte d’Europa, benchè tanto meno uniforme ed unita fra se. Di questi termini dell’antica filosofia, di questi termini scolastici universalmente adoperati ne’ bassi tempi e fino agli ultimi secoli, abbonda la lingua italiana. E perchè ebbero la fortuna d’essere usati da’ nostri vecchi, perciò questi termini, quantunque derivati da barbare origini, e appartenenti a scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi in Italia; e i termini dell’odierna filosofia, derivati dalla massima civiltà d’Europa, appartenenti alla prima delle scienze, e questa condotta a sì alto grado, si chiamano impurissimi, perchè ignoti agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e il conservare, e non lo scusare per l’una parte, per l’altra discacciare l’ignoranza antica. E che l’ignoranza de’ passati dovesse esser la misura e la norma del sapere dei presenti.

[1223]Se dunque l’odierna filosofia, quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo secolo, tutte le cose e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi termini costanti, ed uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo adottarli ed usarli, e conformarci a quelli che tutto il mondo usa. E non è più tempo di cambiarli, e formarci una nomenclatura filosofica italiana, cioè cavata tutta dalle fonti della nostra lingua. Questo avrebbe potuto essere, se la massima parte dell’odierna filosofia fosse derivata dall’Italia. Ed allora le altre nazioni, senza veruna ripugnanza avrebbero usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in Italia. Ma avendo lasciato far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza a sì alto grado senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non curarla, ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare quella nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da’ nostri medesimi, come apparisce dalle sopraddette ragioni. Alle quali aggiungo come corollario, dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224]hanno espressa precisamente e sottilmente un’idea sottile e precisa, di qualunque genere, e in qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi sempre universali, ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno concepita e voluta significare quella stessa idea strettamente. E quella tale idea è passata dal primo individuo che la concepì chiaramente, agli altri individui, e alle altre nazioni, non altrimenti che in compagnia di quella tal parola. Appunto perchè questa fina precisione di significato, non deriva nè può derivare se non da una stretta e appositissima convenzione, difficilissima a rinnovare, e a moltiplicare secondo le lingue.

Per tutte queste ragioni, sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. E massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s’intende sotto il nome di filosofia, ed a tutte le cognizioni ch’ella abbraccia. Giacchè le scienze materiali, o le scienze esatte non hanno tanto bisogno di questo servigio, essendo bastantemente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le idee che queste significano non essendo così facili [1225]o a sfuggire, o ad oscurarsi e confondersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle della filosofia. Dovrebbe chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e recarne dalle diverse lingue dov’elle sono in uso, esempi giudiziosamente scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov’è contenuta una definizione filosofica dell’idea significata dalla parola; esempi che non sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori profondissimi e sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e anche del precedente. In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel Dizionario della lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda di scrittori di tal genere. Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano, ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de’ migliori italiani che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane perfettamente corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne’ nostri buoni scrittori qualunque, sia nell’uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte ec. con che verrebbe a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente da sospirarsi, e per conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze, se ne abbiamo.

Questo Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva, senz’averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll’adottarle, [1226]tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi che l’italiano non fosse Europeo, nè di questo secolo ec. E dovrebbe riconoscerle per voci nobilissime, perchè inseparabilmente spettanti e legate alla più nobile delle scienze umane ch’è la filosofia. V. p.1231. fine.

Con ciò non vengo mica a dire ch’ella debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno profondere siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v’è bontà dove non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci precise, alla bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo le parole dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle voci alla nudità e precisione. È proprio ufficio de’ poeti e degli scrittori ameni il coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli scienziati e de’ filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l’uno a l’altro. Allo scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti un’idea più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d’idee ec. Queste almeno gli denno esser le più care, e quelle altre che sono l’estremo opposto, le più odiose. V. p.1234. capoverso 1. e 1312. capoverso 2. Ho detto e ripeto che i termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e bruttissimo effetto. Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli. Ho detto che la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della poesia) si corrompe per la profusione de’ termini, ossia delle voci di nudo e secco significato, perch’ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227]dimenticare nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura e la poesia, riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch’io raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili, ma non sono eleganti. La bella letteratura alla quale è debito quello che si chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci aliene, e come si adoprano talvolta le voci forestiere, notando ch’elle son tali, e come gli ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per incidenza. I diversi stili domandano diverse parole, e come quello ch’è nobile per la prosa, è ignobile bene spesso per la poesia, così quello ch’è nobile ed ottimo per un genere di prosa, è ignobilissimo per un altro. I latini ai quali in prosa non era punto ignobile il dire p.e. tribunus militum o plebis, o centurio, o triumvir ec. non l’avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole d’un significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli convengano le parole proprie, e benchè l’idea rappresentata sia non solo non ignobile, ma anche nobilissima. I termini della filosofia scolastica, riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell’antica nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s’ella gli avesse adoperati come parole sue proprie. [1228]E se Dante le profuse nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire alla civiltà bambina di quella letteratura e di que’ secoli, ch’erano però purissimi quanto alla lingua. Ma altro è la purità, altro l’eleganza di una voce, e la sua convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse materie, o anche solo ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie filosofiche in uno stile elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir tali termini, perchè allora la natura dello stile domanda più l’eleganza e bellezza che la precisione, e questa va posposta. (Del resto in tal caso, la filosofia è l’uno de’ principali pregi della letteratura e poesia, sì antica che moderna, atteso però quello che ho detto p.1313. la quale vedi.) Io dico che l’Italia dee riconoscere i detti termini ec. per puri, cioè propri della sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti. La bella letteratura, e massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile, severa ed accurata; avendo per oggetto in bello, ch’è quanto dire il falso, perchè il vero (così volendo il tristo fato dell’uomo) non fu mai bello. Ora oggetto della filosofia qualunque, come di tutte le scienze, è il vero: e perciò dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia. La qual cosa [1229]molti famosi stranieri o non la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non la vedessero o non volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura fatta piuttosto alle scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più filosofica, tanto meno è poesia.

(26. Giugno 1821.). V. p.1231.

Alla p.1219. marg. La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono agli Arabi; e portarono nel latino e nell’Arabo le loro voci greche. Gli Arabi vi ggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi universalmente in Europa. Così sempre è accaduto negli antichi, ne’ mezzani, ne’ moderni tempi. La filosofia Chinese p.e. ha nomenclatura diversa dalla nostra, ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch’ella non può in nessun modo chiamarsi scienza esatta nè simile all’esatte, come la moderna nostra. Così dico delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che avendo altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un’idea di originalità, massime in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina, [1230](divenuti poi comuni in Europa ec.) nella qual lingua conosciamo i libri Ebraici. Oltre che l’Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato di sopra, e quindi tanto meno copiosa ne’ termini, e meno precisa ne’ loro significati. ec. ec. ec.

(26. Giugno 1821.)

Da repere che anche il Forcellini dice esser metatesi di §rpv, oltre l’inerpicare del quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire, voce italiana d’uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch’essa nel significato di inerpicarsi, Žn¡rpein, o di salire, montar su, come puoi vedere ne’ due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia della Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo, Firenze 1753. il quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di già RIPIVANO (p.37): e Videro... alcuni già avere appoggiate le scale, e far pruova di RIPIRE. (p.46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della Crusca, vol.2. par.1. Milano 1819. Appendice, p.284. Quindi ripido, cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due [1231]esempi del trecento. Il Du Cange non ha niente in proposito.

(27. Giugno 1821.)

Alla p.1229. E infatti gran parte, e forse la maggiore delle poesie straniere, riescono e sono piuttosto trattati profondissimi di psicologia, d’ideologia ec. che poesia. E quivi la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia guasta e pregiudica la filosofia. Tra questa e quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che non si può nè toglier di mezzo, e riconciliare, nè dissimulare. E così dico proporzionatamente del resto della bella letteratura propriamente e veramente considerata.

(27. Giugno 1821.)

Alla p.1125, marg. - ossia le radici de’ verbi ebraici chiamati perfetti, tutte composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl’imperfetti fuorchè i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione perdono la seconda radicale nella terza singolare del Preterito di Kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba nella radice. Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia comune e regolare anche nell’Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali.

(27. Giugno 1821.)

Alla p.1126. Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che non hanno, nè possono avere nell’italiano un preciso equivalente, cioè preciso nella significazione, e preciso nell’intelligenza e nell’effetto. [1232]Perchè se qualcuna di tali voci ha già nell’uso o dello scrivere o del parlare italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto, quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima incertezza, e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè in tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l’Europa.

(27. Giugno 1821.)

La trattabilità e facilità della lingua francese, ond’ella è così agevole a scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l’adopra o l’ascolta, sì pel nazionale, non deriva dall’esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall’essere un piccolo strumento, e quindi manuale, eémetaxeÛristow, maneggiabile, [1233]facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec.

(27. Giugno 1821.)

Quello che ho detto de’ termini filosofici comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è sempre accaduto. Quanto però al Vocabolario ch’io propongo, il comprendervi questi nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o materiali.

(28. Giugno 1821.)

Alla p.1212. Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare azione interrotta, e il di quando in quando, come p.e. dicendo il Tasso viene ornando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando in quando gli orna ec. e vogliamo significare minor continuità che se dicessimo orna i suoi versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse sempre o quasi sempre; o se dicessimo suole ornare ec.

(28. Giugno 1821.)

Alla p.1212. principio. Se esistesse un’armonia assoluta in ordine ai suoni articolati o alle parole, tutte le versificazioni in qualunque lingua e tempo, avrebbero [1234]avuto ed avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le stesse consonanze, che in un batter d’occhio si ravviserebbero dal forestiero, come dal nazionale, e dal contemporaneo ec. Quando per lo contrario il forestiero non solo non vi trova alcuna conformità coll’armonia della versificazione sua nazionale, ma bene spesso non si accorge nè si può accorgere che quella tale sia versificazione, se non se n’accorge per la materia, e per essere scritta in linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo, nè colla misura.

(28. Giugno 1821.)

Alla p.1226. marg. fine. L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o elementi d’idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che mancassero assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già stabilito dagl’ideologi [1235]che il progresso delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un’idea ne contiene un’altra (così Locke, Tracy ec.), e questa un’altra ec.; nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee, per iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali che le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni meccaniche ancora ec. gli elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in quanto non sono perfettamente semplici e primi); (v. in questo proposito la p.1287. fine) così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri, risolvendole nelle loro parti, elementari o no (che il giungere agli elementi delle idee è l’ultimo confine delle cognizioni); e distinguendo l’una parte dall’altra, con dare a ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne un’idea separata, laddove gli antichi confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono oggi altrettante distinte idee) in un’idea sola. Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata [1236]con molte idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co’ termini (sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella letteratura.

P.e. genio nel senso francese, esprime un’idea ch’era compresa nell’ingenium, o nell’ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell’idea espressa da ingenium. E tuttavia quest’idea suddivisa, espressa da genio, non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi. Non è idea semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire dalle parti, o dal’intima natura. Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin dove può; e l’uno e l’altra andranno certo più avanti, e scopriranno coll’analisi le parti dell’idea espressa da genio, ed applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte, nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch’è la qualità del secolo, e in italiano non si può significare.

Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non però era sconosciuta l’idea ec. ma non bene distinta da mente, animo ec. ec. ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per quella facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benchè da esse derivino. Ed altri nomi non avevano per dinotarla, sicchè anche queste parole (italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine.

(28. Giugno 1821.)

[1237]Nè solamente col progresso dello spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti componenti un’idea che gli antichi linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad altre idee, non si sapevano per l’addietro distinguer da queste, e si denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d’altra specie o genere. V. p.e. quello che ho detto p.1199-200. circa il bello, e quello ch’essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè appartiene alla sfera della bellezza, benchè ne’ linguaggi comuni, si chiami bello, e l’intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.

Da queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1. che quelli i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue, pretendono formalmente d’impedire l’andamento, e rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238]vicendevolmente senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non d’altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più, uniformi, perchè se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate.

2. Che tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll’essenza della poesia, e l’abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in filosofia, o discorso di scienze ec. la bella letteratura.

(29. Giugno, dì mio natalizio. 1821.)

Già non accade avvertire che tali parole universali in Europa, non riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani, di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne’ Vocabolari. E di questo è cagione 1. l’uso giornaliero [1239]del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di barbaro, che l’uso di siffatte parole. 2. l’uso di molti scrittori italiani moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro rimprovero fuorchè di avere adoperato tali voci. 3. l’intelligenza e l’uso del francese, familiare agl’italiani come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole. Circostanza notabile e favorevolissima all’introduzione di tali voci in nostra lingua, mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci familiarizzato l’orecchio mediante l’uso fattone da essa lingua 1° sì comune in Italia e per tutto, 2°. sì affine alla nostra.

(29. Giugno, dì di S. Pietro. 1821.)

Spesso è utilissimo il cercar la prova di una verità già certa, e riconosciuta, e non controversa. Una verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al filosofo, e al progresso dell’intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono i rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono pure [1240]bene spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o dei rapporti loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all’ignoto, o dal certo all’incerto, o dal chiaro all’oscuro, ch’è il processo del vero filosofo nella ricerca della verità. E perciò i geometri non si contentano di avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione. E Pitagora immolò un’Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell’ipotenusa, della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura. Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri, senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perchè i diversi ingegni prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e rapporti, benchè partendo da uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro ec.

(29. Giugno 1821.)

Una delle principali, vere, ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de’ verbi frequentativi o diminutivi. Colla desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241]da vezzo, da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare, vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec. e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare); in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto canticchiare; in ellare come da salto saltellare; in erellare, come pur da salto salterellare, e da canto canterellare; in olare, come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare, rinfocare, rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare, come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama V. A. non so perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare e imbiancare ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare; in onzare come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che neppur qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec. ovvero diminutivi de’ frequentativi o viceversa. E queste, e le altre formazioni sono di significato certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s’intende subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell’idea espressa dalla parola materna. La pazza idea per tanto (ch’è l’ultimo eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua. V. [1242]in questo proposito p.1116-17. Io non dubito (e l’esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita ch’ella ha dei derivati, e nell’uso che ne sa fare, e ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca. Alla quale però si rassomiglia assai anche per questa moltiplicità di forme nelle derivazioni che hanno un medesimo o simile significato, a differenza della latina, non già povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta in ciò, come nel resto. V. la p.1134. fine. (29. Giugno 1821.). Queste sono le vere cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua resterà sempre superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi vocaboli ec. particolari, ch’elle vanno tuttogiorno acquistando. V. p.1292. capoverso 1.

Alla p.302. principio. In prova di quello che ho detto della utilità che risulta ai governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno, come in quel paese dov’ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di più è la sua sede. (La Spagna, come finora non civile, e fuori del mondo colto, non fa eccezione). E proporzionatamente scendendo sì per le stesse province d’Italia più vicine o più commercianti ec. con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec. sino alla Germania e all’Inghilterra ec. si trova che dove la religion cattolica o le altre cristiane, sono più avvilite, più vicine e frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec. quivi appunto il loro culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero, efficace, e fermo.

(29. Giugno 1821.)

[1243]Osserviamo il grand’effetto prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella statura degli uomini. Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec. Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti, nè proporzionati a quelli delle stature umane. E quindi inferiamo quanto la continua osservazione ci renda sottili conoscitori, ed affini le nostre sensazioni circa le forme esteriori de’ nostri simili: e come per conseguenza l’idea delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di osservazione, e di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par grandissima in questi oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri. (30. Giugno 1821.).

Altre cagioni di fatto della ricchezza e varietà della lingua italiana, oltre la copia degli scrittori, come ho detto altrove sono

1.   Il non aver noi mai rinunziato alle nostre [1244]ricchezze di quantunque antico possesso, a differenza della lingua francese, a cui non gioverebbe neppure l’avere avuta altrettanta copia di scrittori e di secoli letterati, quanti noi. Neppure alla varietà, ed anche a quella ricchezza che serve precisamente all’esatta espressione delle cose, gioverebbe alla lingua francese l’avere avuto in questi due secoli dopo la sua rigenerazione, tanti e più scrittori quanti noi in cinque secoli. Non le gioverebbe dico, quanto giova alla nostra lingua la moltitudine dei secoli, e quindi la maggior varietà degli scrittori, delle opinioni, de’ gusti, degli stili, delle materie da loro trattate; varietà che non si può trovare nello stesso grado in due secoli soli, benchè fossero più copiosi di scrittori, che questi 5. insieme: e varietà che serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza del suo poter esprimere, giacch’è stata applicata ad esprimere tanto più diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più diversamente disposti; e in tanto più diversi modi. Neppure la lingua tedesca ha rinunziato alle sue antiche ricchezze e possedimenti, come si vede nel Verter, abbondante di studiati e begli ed espressivi arcaismi.

[1245]2. La gran vivacità, immaginosità, fecondità, e varietà degl’ingegni degli scrittori nostri, qualità proprie della nazione adattabile a ogni sorta di assunti, e di caratteri, e d’imprese, e di fini.

3.   Il moltissimo che la nostra lingua scritta, (giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e popolare. Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi, letterati? Ecco il come.

Ho detto, ed è vero, che la convenzione, sola cosa che può render parola una parola, cioè segno effettivo di un’idea, non può mai esser molto estesa, nè uniforme e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura. Ma un popolo, massimamente vivacissimo come l’italiano, e in particolare il toscano, e di più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l’italiano fra tutti i popoli Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri popoli (come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura, sì per le circostanze sue politiche, la sua libertà, e specialmente il suo commercio) [4] [1246]inventa naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite locuzioni, e infiniti generi e forme sì di queste che di quelle, l’uso però e l’intelligenza delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle nuove. V. p.1344. Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho specificato. Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente toscano: e da questo è venuto

1.   Che le parole modi ec. che sarebbero state proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed anche meno, ricevute e accarezzate e stabilite nell’uso letterario, prima dagli scrittori di quella provincia ec. poi da quelli che vi andavano per imparar la lingua, o a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori italiani, son divenute italiane, di toscane o altro che erano. Ed è avvenuto questo alle toscane più che alle altre, perchè i primi buoni scrittori italiani sono stati di quel paese, e ne hanno diffuso e stabilito nella letteratura italiana [1247]le parole ec. ed anche perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e modi ec.

2.   Non essendo mai cessato negli scrittori toscani e italiani lo studio e l’imitazione competente (gli abusi ora non si contano) della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch’è accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n’è seguito che la lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle parole, modi ec. venuti in uso in uno de’ suoi popoli più vivaci, immaginosi e inventivi, dal principio della lingua fino al di d’oggi: parole e modi ec. che non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se non fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e perpetue, e nazionali. E così la letteratura e non il popolo, anche riguardo alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente della ricchezza e perfezione di nostra lingua.

3.   Gridino a piacer loro i mezzi filosofi. Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio, grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l’avrà mai, non l’ebbe e non l’ha veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248]e non da principio soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al linguaggio popolare, non già scrivendo come il popolo parla, ma riducendo ciò ch’ella prende dal popolo, alle forme alle leggi universali della sua letteratura, e della lingua nazionale. La precisione filosofica non ha punto che fare con veruna delle dette qualità: e la ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec. e di modi geometrici ec. serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed è necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi serve loro di ostacolo, e bene spesso, com’è avvenuto al francese, ne spoglia quasi affatto quella lingua, che già le possedeva. Tutte le dette qualità sono principalissimamente proprie dell’idioma popolare; e se la lingua italiana scritta, si distingue in ordine ad esse qualità, fra tutte le altre moderne; se è ricca fra tutte le moderne, ed anche le antiche di quella ricchezza che produce e contiene le dette qualità; ciò proviene dall’aver la lingua italiana scritta (forse perchè poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco moderna), attinto più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio popolare. Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un popolo vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette qualità, più [1249]che qualunque altro linguaggio, sono abbastanza manifeste da se. Quella ricchezza proprissima della lingua italiana, e maggiore in lei che nella stessa greca e latina, della quale ho parlato p.1240-42. non da altro deriva che dall’idioma popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.

4.   Con questi vantaggi vennero anche dalla stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia, senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l’idioma popolare. Dico della bellezza, ec. la quale conviene alla vera poesia, ed alla bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene alle scienze ec. Negando questo, io non so com’essi ammirino tanto p.e. il Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze, sì nelle prose, come ne’ versi dell’Eneide, ognun può vedere a prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano volgare, (o anche degli altri volgari d’Italia, v. Monti, Proposta, vol.1. par.1. p. XXXV.) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi generi della letteratura, dai più bassi fino ai più alti, dalle lettere familiari, fino all’Epopea. Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d’Italia, e ciò [1250]per le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p.1246. fine-47. principio. Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e fuori, lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto, non la letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla letteratura, e quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello. E la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove la favella del volgo non le può servire, l’abbandona, o in parte o in tutto. In somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del linguaggio popolare, più e meglio forse [1251]di qualunque altra lingua moderna, e perchè non l’ha mai licenziato da’ suoi servigi, come hanno fatto si può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe anche l’italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già perch’ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di una sola provincia o città, che nè essa l’ha fatto o potuto fare, nè facendolo sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, nè noi l’avremmo lodata ma sommamente biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana scritta, può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca, anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre da questi volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.

Parimente soggiungo. Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole ec. da per tutto, che convenisse all’indole e alle forme della lingua italiana regolata e scritta, che potesse comunicarsi [1252]alla nazione, e di toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma formata. Han fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori vernacoli, certo però non s’hanno da tenere per italiani ma per toscani o fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero anche, se così posso dire, oppidani.

Così discorro di tutti simili abusi, e negli scrittori e nel Vocabolario ec.

Nessuno è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo. E pur questo è il desiderio ec. de’ filosofastri, anzi della maggior parte de’ filosofi presenti e passati.

Così i nostri mezzi filosofi italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il legislatore della favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione, distinzione e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che qualunque lingua scritta, e qualunque stile debba appartarsi affatto dal volgare, ed escludono affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante filosofia per distinguere il bello dal vero, e quindi la letteratura e la poesia dalle scienze; e vedere che prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini parla sì vivamente, immediatamente, [1253]e frequentemente, e da nessuno è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal volgo. La precisione toglietela dai filosofi. La proprietà, e quindi l’energia, la concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che derivano dalla proprietà, non d’altronde le potrete maggiormente attingere che dalla favella popolare. E il Lipsio (Epistolica Institutio, cap.11.) consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità, la copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio, come unici o principali mezzi d’imparare la proprietà d’esso sermone. Puoi vedere p.1481-84.

Da quanto abbiamo detto sulla differenza essenziale della lingua poetica e letterata dalla scientifica, risulta che la lingua francese, che nei suoi modi quasi geometrici si accosta alla qualità di quelle voci che noi chiamiamo termini, e di più, massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di veramente bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non può non essere sostanzialmente segregato da quello delle scienze. Termini o quasi termini, chiamo io anche le voci di conversazione, e d’altri tali generi, di cui la lingua francese, è sì ricca, e che esprimono in qualsivoglia materia, un’idea nuda, o quasi nuda, secca, precisa, e precisamente.

(30. Giugno 1821.)

[1254]La facilità di contrarre abitudine, qualità ed effetto essenziale de’ grandi ingegni, porta seco per naturale conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già contratte, mediante nuove abitudini opposte che facilmente si contraggono; e quindi la potenza sì della durevolezza, come della brevità delle abitudini.

Osservate quegli abiti o discipline che hanno bisogno di un esercizio materiale, p.e. di mano, per essere imparate. Chi vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare quell’abilità in più breve tempo degli altri. Ecco tutto l’ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè pieghevoli, e adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è la universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un certo modo, e questa è la disposizione dell’ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di riuscire principalmente in quella.

Ma siccome altri sono gli organi interiori, altri gli esteriori, così un uomo di grande ingegno, sarà bene spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche, cioè assuefazioni materiali; e viceversa.

Io nel povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl’ingegni volgari, che una facilità [1255]di assuefarlo a quello ch’io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore, acquistar subito l’abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben presto imitare ec.; una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l’abitudine in poco d’ora ec. ec. V. p.1312. Il volgo che spesso indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell’intenzione, chiama fra noi, (e s’usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche scrivendo) testa o cervello duro (cioè organi non pieghevoli, e quindi non facili ad assuefarsi) chi non è facile ad imparare. L’imparare non è altro che assuefarsi.

Io credo che la memoria non sia altro che un’abitudine contratta o da contrarsi da organi ec. Il bambino che non può aver contratto abitudine, non ha memoria, come non ha quasi intelletto, nè ragione ec. E notate. Non solo non ha memoria, perchè poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed assuefarsi a richiamarla colla mente. Ma manca formalmente della facoltà della memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell’infanzia, quantunque le impressioni d’allora sieno più vive che mai, e quantunque nell’infanzia possa essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte ancora di quello che bisogna all’uomo fatto perchè un’impressione o concezione qualunque gli resti nella memoria. Questa idea, merita di essere largamente sviluppata e distinta.

(1 Luglio 1821).

[1256]Se intorno alla bellezza umana, molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono, questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non ha che fare col discorso astratto e metafisico della bellezza. Le donne che Omero chiama baJækolpoi. (Il. s. (18.) v.122. 339. v. (24.) v.215. Hymn. in Vener. 4. v.258. quivi delle ninfe montane.) parranno a tutto il mondo più belle delle contrarie. La cagione è manifesta, e non accade dirla. Certo non è questa nè il tipo della bellezza, nè un’idea innata, nè un giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto tempo ad avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far distinzione di beltà fra una donna che l’abbia, e un’altra che ne sia priva. Nè solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco istruiti di certe cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente educati ec.; del che interrogo la testimonianza di molti. Le donne tarderanno assai più ad avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè senso di bellezza differente, fra due donne ec. V. p.1315.fine.

E tuttavia questa qualità ch’io dico, passa [1257]ben tosto nel bello ideale, e il poeta, (come appunto Omero), o il pittore che tira dalla sua mente (come dice Raffaello ch’egli faceva) l’idea di una bellezza da rappresentare, non mancherà certo di concepire l’idea di una donna o donzella baJækolpow. E pur l’origine di questa idea sarà tutt’altra che il tipo della bellezza, ed un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella mente dell’uomo. Così facile è l’ingannarsi nel giudicare delle idee che l’uomo ha circa il bello preteso assoluto. V. p.1339. Similmente discorro di altre simili qualità esteriori dell’uomo o della donna.

Così della vivacità degli occhi, o di qualunque espressione dell’anima che apparisca nel volto, il che però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non tutti però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla melensaggine ec. Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai silfi, e si giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec. appartengano al numero di quelle significate da Omero ne’ citati luoghi.

Ed osservo, cosa manifesta per l’esperienza, che la donna (ancor prima di essere suscettibile d’invidia per cagione della bellezza) tarda molto più degli uomini a poter formare un giudizio fino e distinto circa le forme esteriori del suo sesso, e non giunge mai a quella perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli uomini arrivano. Così viceversa discorrete degli uomini rispetto al sesso loro. Intendo già in parità di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna molto riflessiva ec. ec. a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec. Giacchè in tal caso, ognuno intende che quella tal [1258]donna ben facilmente sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal uomo.

(1. Luglio 1821.)

Osservate i differentissimi, e spesso contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o province, e de’ diversi tempi, e di una stessa nazione o provincia in diverso tempo, circa la bellezza e grazia del portamento delle diverse classi di persone, delle maniere di stare di andare di sedere di gestire di presentarsi ec. e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte dalla ragione, e dal senso comune. Intorno alle quali cose possiamo dire che non c’è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un luogo o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non sia per esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che intorno alla bellezza del portamento dell’uomo, nessuno può stabilire veruna regola, veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle mode del vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto ad esso, varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259]universale.

(1 Luglio 1821.).V. p.1318. fine.

Spesso nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d’arte qualunque, siamo colpiti a prima giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza, da un disordine o irregolarità di simmetria ec. ed appena che abbiamo saputo o capito la ragione di questo disordine, e com’esso è fatto a bella posta, o non a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ec. non solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell’oggetto veruna sproporzione, come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è dunque relativa e mutabile l’idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo istante il giudizio della sproporzione o sconvenienza? Per l’assuefazione, la quale in noi ha questa proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un’altra, di un individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una convenienza sopra un’altra. Dal che deriva l’errore universale, non solo del bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti i nostri simili da noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d’ogni altro [1260]genere di esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori dello stesso genere, ma solamente fra gl’individui ec.

(1 Luglio 1821.)

Si può però ammettere una perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro il sistema di questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una perfezione comparativa assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello che l’uomo e il vivente qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta, perchè assoluta non potrebb’essere se non in ordine al sistema intiero ed universale di tutte le possibilità. Questo pensiero ha bisogno di esser ponderato, svolto, dilatato, e rischiarato.

(1 Luglio 1821.)

A quello che altrove ho detto circa l’impossibilità di far bene quello che si fa con troppa cura, si può aggiungere quello che dice l’Alfieri nella sua Vita della matta attenzione ch’egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e studi de’ Classici: e quello che ci avviene p.e. nello studio delle lingue. Nel quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre (più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261]voi abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l’abito di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l’interrompimento dell’esercizio, vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno, rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua, quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c’impediscono e trattengono più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l’intenzione di studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262]si trovano sempre intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa perizia, ma con diversa intenzione. Così non si trova piacere, nè facilità, nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo studio ec.

(1-2. Luglio 1821.)

A quello che ho detto altrove della impossibilità di formarsi idea veruna al di là della materia, e del nome materiale imposto allo stesso spirito e all’anima, aggiungete che noi non possiamo concepire verun affetto dell’animo nostro se non sotto forme o simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via di traslati presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo il significato proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come infiammare, confortare, muovere, toccare, inasprire, addolcire, intenerire, addolorare, innalzar l’animo ec. ec. Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti o siano prodotti da cose interiori, o dall’azione immediata degli oggetti esteriori, come costringere, ed altri de’ sopraddetti ec.

(2. Luglio 1821.). V. p.1388. princip.

Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l’ignoranza. Vero è che così viceversa accade del dolore.

(2. Luglio 1821.)

[1263]Alla p.1207. marg. Queste differenze s’incontrano a ogni passo dentro una medesima nazione, secondo i dialetti ec. Ed osserviamo ancora come l’assuefazione e l’uso ci renda naturale, bella ec. una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa ci parrà bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla lingua, mostruosa, durissima, asprissima e barbara. Per es. se io dicessi precisazione moverei le risa: perchè? non già per la natura della parola, ma perchè non siamo assuefatti ad udirla. E così le parole barbare divengono buone coll’uso; e così le lingue si cambiano, e i presenti italiani parlano in maniera che avrebbe stomacato i nostri antenati; e così l’uso è riconosciuto per sovrano signore delle favelle ec.

(2. Luglio 1821.)

Alla p.1134. Lo studio dell’etimologie fatto coi lumi profondi dell’archeologia, per l’una parte, e della filosofia per l’altra, porta a credere che tutte o quasi tutte le antiche lingue del mondo, (e per mezzo loro le moderne) sieno derivate antichissimamente e nella caligine, anzi nel buio de’ tempi immediatamente, o mediatamente da una sola, o da pochissime lingue assolutamente primitive, madri di tante e sì diverse figlie. Questa primissima lingua, a quello che pare, quando si diffuse per le diverse parti del globo, mediante le trasmigrazioni degli uomini, era ancora rozzissima, scarsissima, priva d’ogni sorta d’inflessioni, inesattissima, costretta a significar cento cose con [1264]un segno solo, priva di regole, e d’ogni barlume di gramatica ec. e verisimilissimamente non applicata ancora in nessun modo alla scrittura. (Se mai fosse già stata in uso la così detta scrittura geroglifica, o le antecedenti, queste non rappresentando la parola ma la cosa, non hanno a far colla lingua, e sono un altro ordine di segni, anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me, anteriore a qualunque favella alquanto formata e maturata.) Nè dee far maraviglia che la grand’opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa, e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani a un ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto lentissimi progressi, e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto giungere a una certa maturità; non ostante che l’uomo fosse già da gran tempo ridotto allo stato sociale. Quanto all’alfabeto o scrittura par certo ch’egli fosse ben posteriore alla dispersione del genere umano, sapendosi che molte nazioni già formate presero il loro alfabeto da altre straniere, come i greci dai Fenici, i latini ec. Dunque non era noto prima ch’elle si disperdessero, e dividessero, giacch’elle da principio non ebbero alcun alfabeto. E i Fenici l’ebbero pel loro gran commercio ec. Dunque esistendo il commercio, le nazioni erano, e da gran tempo, divise.

Diffondendosi dunque pel globo il genere umano, e portando con se per ogni parte quelle scarsissime e debolissime convenzioni di suono significante, che formavano allora la lingua; si venne stabilendo nelle diverse parti, e la società cominciò lentissimamente a crescere e camminare verso la perfezione. Primo e necessario mezzo per l’una parte, e per l’altra effetto di questa, è la sufficienza e l’organizzazione della favella. Venne dunque lentamente [1265]a paro della società, crescendo e formandosi la favella, sempre sul fondamento o radice di quelle prime convenzioni, cioè di quelle prime parole che la componevano. Queste erano dappertutto uniformi, ma le favelle formate non poterono essere uniformi, nè conservarsi l’unità della lingua fra gli uomini. Primieramente dipendendo la formazione della favella in massima parte dall’arbitrio, o dal caso, e da convenzione o arbitraria o accidentale, gli arbitri e gli accidenti, non poterono essergli stessi nelle diversissime società stabilitesi nelle diversissime parti del globo, quando anche esse avessero tutte conservato gli stessi costumi, le stesse opinioni, le stesse qualità che aveva la primitiva e ristrettissima società da cui derivavano; e quando anche tutte le parti del globo avessero lo stesso clima e influissero per ogni conto sopra i loro abitatori in un modo affatto uniforme.

Secondariamente il genere umano diviso, e diffuso pel mondo, si diversificò nelle sue parti infinitamente, non solo quanto a tutte le altre appartenenze della vita umana, e de’ caratteri ec. ma anche quanto alle pronunzie, alle qualità de’ suoni articolati, e degli alfabeti parlati, diversissimi secondo i climi ec. ec. come vediamo. Queste infinite [1266]differenze sopravvenute al genere umano, già diviso in nazioni, e distribuito nelle diverse parti della terra, fecero sì che la formazione delle lingue presso le nazioni primitive, differisse sommamente, quantunque tutte derivassero da una sola e stessa radice, e conservassero nel loro seno i pochi e rozzi elementi della loro prima madre, diversamente alterati collo scambio delle lettere, secondo le inclinazioni degli organi di ciascun popolo, colle inflessioni, colle significazioni massimamente, colle composizioni, e derivazioni, e metafore infinite e diversissime di cui l’uomo naturalmente si serve a significare le cose nuove o non ancora denominate ec. ec.

Nel terzo luogo, la lingua primitiva, dovette immancabilmente servirsi delle stesse parole per significare diversissime cose, scarseggiando di radici, e mancando o scarseggiando d’inflessioni, di derivati, di composti ec. La lingua ebraica, l’una delle lingue scritte più rozze, e lingua antichissima, serve di prova di fatto a questo ch’io dico, e che è chiaro abbastanza per la natura delle cose. Ora i diversi popoli nella formazione progressiva delle lingue, trovando qual per un verso, qual per un altro, il modo di significar le cose più distintamente, conservarono alle loro prime parole radicali dove uno [1267]dove un altro de’ sensi che ebbero da principio, o fossero propri, o traslati. Così che non è da far maraviglia se bene spesso in diversissime lingue si trovano tali e tali radici uniformi o somiglianti nel suono, ma disparatissime nel significato. Nè la disparità del significato è ragion sufficiente per decidere che non hanno fra loro alcuna affinità. Ci vuole il senno e la sottigliezza del filosofo, e la vasta erudizione e perizia del filologo, dell’archeologo, del poliglotto, per esaminare se e come quella tal radice potesse da principio riunire quei due o più significati diversi. Chi non vede p.e. che wolf, voce che in inglese e in tedesco significa lupo, è la stessa che volpes o vulpes, che significa un altro quadrupede pur selvatico, e dannoso agli uomini? Frattanto la detta osservazione dimostra la immensa differenza che appoco appoco dovette nascere fra le varie lingue, e l’infinita oscurazione che ne dovette seguire del linguaggio primitivo e comune una volta, ma già non più intelligibile nè riconoscibile. (V. la p.2007. principio.)

Nel quarto luogo che dirò della scrittura?

1.   O della sua mancanza (giacchè è più che verisimile che quando gli uomini e le lingue si divisero e sparsero, non si avesse ancora nessuna notizia della scrittura alfabetica, nè di segno alcuno de’ suoni, trattandosi che la lingua stessa allora parlata, era così bambina come abbiamo probabilmente conghietturato dagli effetti); mancanza che toglieva ogni [1268]stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alle significazioni; e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza nè freno, nè guida, nè norma. Dal che quante variazioni derivino, lo può vedere chiunque osservi i dialetti ne’ quali sempre o quasi sempre si divide una stessa lingua parlata, quantunque già formata e applicata alla scrittura; e insomma le infinite diversità che a seconda de’ tempi e de’ luoghi patisce quella lingua che il popolo parla, ancorchè ella stessa sia pure scritta ec. Che se da questo che noi vediamo, rimonteremo a quello che doveva essere in quei tempi, dove l’ignoranza dell’uomo era somma, somma l’incertezza e l’ondeggiamento di tutta la vita, ec. ec. potremo facilmente vedere, che cosa dovessero divenire, e quante forme prendere o la lingua primitiva o le sottoprimitive, mancanti dell’appoggio, e dell’asilo non pur della letteratura, ma della stessa scrittura alfabetica.

2.   Che dovrò dire dell’invenzione della scrittura? Pensate voi stesso, nella prima imperfezione di quest’arte prodigiosa e difficilissima; nella differenza degli alfabeti, o nella inadattabilità dell’alfabeto scritto di un popolo, all’alfabeto parlato di un altro; [1269]nella imperizia de’ lettori, e degli scrittori, e de’ primi copisti ec. ec. pensate voi quali incalcolabili e inclassificabili alterazioni dovessero ricevere le prime lingue, sì come scritte, sì come parlate, cominciando a influir la scrittura sulla favella.

Notate cosa notabilissima. Tutte le lingue antiche non ci possono essere pervenute se non per mezzo della scrittura, giacchè quando anche non sieno interamente morte, il corso de’ secoli porta sì enormi variazioni alle lingue, che dal modo in cui ora si parli una lingua antichissima, chi può sicuramente argomentare delle sue antiche proprietà, ancor dopo formata? Ora egli è certo che le lingue scritte differirono sommamente dalle parlate, stante la difficoltà che nel principio si dovè provare per rappresentare esattamente ciascun suono ec. Difficoltà che produsse infallibilmente eccessive differenze fra le antiche parole scritte e le pronunziate. Differenze che appoco appoco si stabilirono; e malgrado le cure che si posero per una parte ad uniformare più esattamente i segni scritti ai suoni inventando nuovi segni ec. ec.; malgrado l’influenza che acquistarono le scritture sulle modificazioni del parlare ec. certo è che tali differenze dove più dove meno dovettero perpetuarsi e sempre conservarsi.

[1270]Quindi considerate i pericoli che si corrono nell’argomentare le proprietà di un’antica parola, e la sua prima forma, dal modo in cui solamente ella ci può esser nota, dal modo cioè nel quale è scritta. Come chi argomentasse della lingua inglese o francese ec. dal modo in cui sono scritte. Non c’è regola per sapere precisamente qual fosse il valore e la pronunzia di un tal carattere in una lingua antica, e massime antichissima, e massime antichissimamente ec. ec. Quindi è ben verisimile che moltissime parole d’antiche lingue, che vedendole scritte ci paiono diversissime e disparate, ci dovessero parere del tutto affini, se sapessimo qual vera e primitiva pronunzia si volle antichissimamente rappresentare con quei tali segni che vediamo. V. p.1283.

Aggiungete un’osservazione che cresce forza all’argomento. L’invenzione dell’alfabeto è sì maravigliosa e difficile, che è ben verisimile, che quel primo alfabeto che fu inventato passasse dalla nazione e dalla lingua che l’inventò, a tutte o quasi tutte le altre; e quindi o tutti o quasi tutti gli alfabeti derivino da un solo alfabeto primitivo. Quello ch’è certo e costante si è che l’alfabeto Fenicio, il Samaritano, l’Ebraico, il Greco, l’arcadico, il pelasgo, l’Etrusco, il latino, il Copto, senza [1271]parlare di non pochi altri (come il Mesogotico, il Gotico, e il tedesco, l’Anglosassone, il russo) dimostrano evidentemente l’unità della loro comune origine. Or quali lingue più disparate che p.e. l’ebraica e la latina? (Pur ebbero, come vediamo, lo stesso alfabeto in principio.) Tanto che Sir W. Jones, il quale fa derivare da una stessa origine le lingue, e le religioni popolari della prima razza de’ Persiani e degli Indiani, dei Romani, dei Greci, dei Goti, degli antichi Egizi o Etiopi, tiene per fermo che gli EBREI, gli Arabi, gli Assirii, ossia la seconda razza Persiana, i popoli che adoperavano il Siriaco, ed una numerosa tribù d’Abissinii, parlassero tutti un altro dialetto primitivo, diverso affatto dall’idioma pocanzi menzionato, cioè di quegli altri popoli. Così che, eccetto quella prima nazione, dove fu ritrovato l’alfabeto, in qualunque modo ciò fosse, tutte le altre, o tutte quelle che immediatamente o mediatamente lo ricevettero da lei, scrissero con alfabeto forestiero. Ed essendo infinita in tante nazioni la varietà de’ suoni ec. ec. vedete che immense alterazioni dovè ricevere ciascuna lingua nell’essere applicata a un solo alfabeto, per lei più o meno, e bene spesso estremamente forestiero. V. p.2012. 2619.

A tutte le sopraddette cose aggiungete le alterazioni molto maggiori che ricevettero le lingue sottoprimitive nel suddividersi, e risuddividersi secondo le vicende infinite delle nazioni, e del genere umano; aggiungete le alterazioni che ricevettero e quelle e queste lingue appoco appoco, non solo col corso de’ secoli e indipendentemente ancora da ogni altra circostanza, ma coll’esser finalmente ridotte più o meno a lingue gramaticali, col raddolcimento delle parole prodotto e dalla civiltà crescente, e dai letterati, secondo i diversi geni degli orecchi nazionali ec.; coll’essere applicate non più solamente alla scrittura, ma alla letteratura, della cui estrema influenza sul modificare e formare le lingue, che accade ora ripetere quello che s’è tante volte ripetuto? Bensì osservo che le lingue antiche non ci sono pervenute se non per mezzo, non già della semplice scrittura, ma della letteratura. Delle alterazioni che le parole soffrono nel significato v. p.1505. fine. e 1501.-2.

[1272]E dopo tutto ciò non vi farà maraviglia se tanto deve stentarsi, e se bene spesso è impossibile a riconoscere nelle diversissime e quasi innumerevoli lingue del mondo l’unità dell’origine; e se la lingua o le lingue assolutamente primitive, o piuttosto quella o quelle prime poverissime e rozzissime nomenclature, che furono la base delle lingue tutte, e che formano ancora le radici delle loro parole; annegate nelle derivazioni, inflessioni, composizioni diversissime secondo i casuali accidenti delle formazioni delle lingue, i caratteri, i geni, i climi, le letterature che formarono esse lingue, le opinioni, i costumi, le circostanze diversissime della vita che v’influirono, le cognizioni, le disposizioni della terra, del cielo ec. ec. e modificate e svisate secondo le differenze degli organi nelle diverse nazioni, secondo l’ignoranza de’ parlatori primitivi, la corruzione che inevitabilmente soffrono le parole anche nelle lingue le più stabilite e perfette; non vi maraviglierete, dico, se tali primitive radici benchè comuni a tutte le lingue, si nascondono per la più parte agli occhi degli osservatori più fini, fanno disperare l’etimologista, e considerare come un frivolo sogno l’investigazione delle origini delle lingue, e lo studio delle etimologie, e dell’analogia delle parole di tutte le favelle (intrapresa però a svolgere da parecchi, ed ultimamente, secondo che odo, da non so qual francese); insomma la primitiva unità di origine e analogia di tutte le lingue. (Riferite tutte queste osservazioni a quello che altrove ho detto della necessaria varietà delle lingue, e vicendevolmente riferite quei pensieri a questi.)

[1273]Malgrado tutto ciò, ella è cosa certissima che tali investigazioni (per quanto elle possono avvicinarsi al vero) sono delle più utili che mai si possano concepire sì alla storia come alla filosofia. Le origini delle nazioni (oltre ai progressi dello spirito umano, e la storia de’ popoli, cose tutte fedelmente rappresentate nelle lingue), le remotissime epoche loro, le loro provenienze, la diffusione del genere umano, e la sua distribuzione pel mondo, in somma la storia de’ primi ed oscurissimi incunaboli della società, e de’ suoi primi passi, non d’altronde si può maggiormente attingere che dalle etimologie, le quali rimontando di lingua in lingua fino alle prime origini di una parola, danno le maggiori idee che noi possiamo avere circa le prime relazioni, i primi pensieri, cognizioni ec. degli uomini.

Certo è parimente che in lingue disparatissime parlate antichissimamente da popoli lontanissimi fra loro, si trovano bene spesso tali conformità nelle forme esteriori e nel significato di certe voci, e queste voci sono in gran parte così necessarie alla vita, esprimono cose così necessarie, e nel tempo stesso così facili e prime e naturali ad esprimersi, che queste conformità, non volendo attribuirle al caso, ch’è inverisimile, non potendo attribuirle alla natura, giacchè si tratta di voci d’espressione e di forma quasi al tutto arbitraria; [1274]e neppure potendo attribuirle a relazioni posteriori di detti popoli fra loro, sì perchè ciò s’oppone molte volte a tutte le storie conosciute, sì perchè si tratta di parole necessarie e prime in tutte le lingue; resta che si attribuisca ad una comune origine di tali lingue e di tali popoli, ancorchè ora e sin da remotissimo tempo disparatissimi, e lontanissimi, e ignoti gli uni agli altri.

A scoprir dunque tal comune origine delle lingue e quindi delle nazioni (o sia una sola origine, o sieno alcune pochissime); a ritrovare quanta maggior parte si possa della prima lingua degli uomini; a soddisfare al filosofico desiderio di quel metafisico tedesco (v. p.1134.) ec. ec. non v’è altro mezzo che lo studio etimologico. E questo non ha altra via, se non che giovandosi de’ lumi comparativi d’una estesa poliglottia, de’ lumi profondamente archeologici e filologici, fisiologici e psicologici ec. prendere a considerar le parole delle lingue meglio conosciute fra le più antiche (come più vicine alla comune origine delle lingue); e denudandole d’ogni inflessione, composizione, derivazione gramaticale ec. ec. cavarne la radice più semplice che si possa; e quindi coi detti lumi comparativi ec. ridurre questa radice dalle diversissime alterazioni di forma, e di suoni che può avere ricevute, (anche prima di divenire radice d’altra parola, e nel suo semplice stato, ovvero dopo) alla sua forma primitiva. Quando questa non si possa trovare e stabilire precisamente, l’Etimologo avrà fatto abbastanza, e l’utilità sarà pur molta, se avrà dimostrato che una tal parola dimostrata radicale, quantunque diversa nelle diverse lingue, è però una sola in origine, e che fra quelle diverse forme, significati ec. di essa radice, si trova la forma, il significato ec. primitivo, quantunque non si possa definitamente stabilire se questo sia il tale o il tale fra i detti sensi e forme che ha nelle differenti favelle. Come [1275]questo si possa fare nella lingua latina che è una delle antichissime, delle meglio conosciute, e delle meglio accomodate a tali ricerche, abbiamo cercato di indicarlo colla scorta della filologia e dell’archeologia, mostrando come dalle parole latine si possa trarre la radice monosillaba, e colla scorta della filosofia la quale insegna che le prime lingue dovettero essere per la più parte monosillabe, e composte quasi di soli nomi; mostrando molti accidenti delle parole latine, considerati finora come qualità essenziali, il che nuoce, come è chiaro, infinitamente alla invenzione delle estreme radici, ed arresta il corso delle ricerche etimologiche lungi dalla sua meta, e in un punto dove elle non debbono arrestarsi, come se già fossero giunte alle ultime origini, ed agli ultimi elementi delle parole. Abbiamo insomma cercato di ridurre l’analisi e la decomposizione delle parole latine, ad elementi più semplici: cosa giovevolissima alla cognizione delle loro origini e radici; come infiniti progressi ha fatto la chimica quando ha scoperto che quei quattro che si credevano primi elementi, erano composti, ed è giunta a trovar sostanze, se non del tutto elementari ed ultime esse stesse, certo molto più semplici delle prima conosciute.

[1276]Voglio portare in conferma di ciò un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi archeologici alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice in latino, cioè non nasce da verun’altra parola latina conosciuta. Osservate però quanto ella sia mutata dalla sua vecchia e forse prima forma. †Ulh è lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi. Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove, vedi Iul. Pontedera Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes atque Emendatt. Epist. 2. Patav. Typis Seminar. 1740. p.18. (le due prime epistole meritano di esser lette in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già nota agli eruditi. Nelle stesse antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell’aspirazione. Anzi questa scrittura s’è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come nelle latine): p.e. sèkon pronunziavasi da principio ðkon o ïkon coll’aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne fecero ?èkon e i latini ficus. V. l’Encyclop. in S. Quanto al v ecco com’io la discorro.

L’antico H greco derivato dall’Heth Fenicio, Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune anche il nome ·ta  (giacchè il taè greco deriva dal thau degli Ebrei), oltre alla figura, ec., non fu da principio altro segno che di un’aspirazione, (v. p.1136. marg.) come lo fu sempre nel latino, e come lo era nell’alfabeto da cui venne il greco. (V. Cellar. Orthograph. Patav. ap. Comin. 1739. p.40. fine. e l’Encyclop. méthodique. Grammaire. art. H. specialmente p.215. e se vuoi, il Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l’antico v latino non era altro che [1277]il digamma eolico, e questo non altro che un carattere che gli Eoli ponevano in luogo dell’aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso stesso, e in somma fratello carnale dell’antico H greco. Antichissimamente pertanto la parola ìlh, pronunziavasi hulh con due aspirazioni l’una in capo, e l’altra da piè. (voglio dire insomma che l’h di ìlh non era da principio lettera mobile, e puro carattere di desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v che i latini hanno per lettera radicale in questa parola, cioè in silva.) Ovvero pronunziavasi hilh giacchè non si può bene accertare qual fosse l’antichissima pronunzia dell’u greco; se u simile al francese, come lo pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i greci moderni, come si pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle di voci greche, e come pronunziano i tedeschi il loro u. Certo è che gli antichi latini pronunziarono e scrissero le parole che in greco si scrivevano per Y, ora per I, ora per u, e quindi corrottamente talvolta anche per o, come da sumnus somnus ec. V. Pontedera loc. cit. nella pagina precedente. Per y non mai, carattere greco, il quale graecorum caussa nominum adscivimus dice Prisciano (lib.1 p.543. ap. Putsch.), ed è carattere non antico, come dice Cicerone, e pronunziavasi alla greca, come una u francese, secondo che apparisce da Marziano Capella. (V. Forcellini, l’Encyclop. e Cellar. Orthograph. p.6 fine-7 principio). Quindi nel nostro caso, gli antichi marmi e manoscritti, e gli eruditi, rigettano la scrittura di sylva sylvestris ec. per silva; scrittura [1278]corrotta e più moderna, introdottasi presso gli scrittori latino-barbari, come si può vedere nel Ducange. Il che per altro serve anch’esso a mostrare la derivazione o cognazione del latino silva col greco ìlh, non essendoci altra ragione perchè l’uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano nulla d’etimologie nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca y in una parola che gli antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi fino a’ nostri tempi presso molti che scrivono ancora sylva e così ne’ derivati. E forse a quel tempo in cui, secondo che dice Cicerone, si cominciò a scrivere e pronunziare (cioè per u gallico) Pyrrhus e Pryhges ec. in luogo di Purrus e Phruges che gli antichi scrivevano (v. Forcellini in Y); si cominciò anche a scrivere e pronunziare sylva: o certo in qualunque tempo questo accadesse, ebbe origine e causa dal vizio di volere in tutto conformare la scrittura e la pronunzia agli stranieri, nelle parole venute da loro, vizio che Cicerone riprende nello stesso luogo. (osservazione molto applicabile ai francesi.) E ciò mostra che dunque silva si considerò per tutt’una parola con ìlh, quantunque la scrittura sylva sia viziosa. Presso gli stessi greci de’ buoni tempi le parole che hanno la u, quando subiscono le solite affezioni delle parole greche, cambiano spesso l’u in i, come da dæo si fa dÜw, e ne’ composti (come diploèw, dillòw, dÛstomow, difu¯w ec.) sempre di.

Tornando al proposito, ed oggi, e da lungo tempo, questa medesima lettera greca y, non per altro introdotta nell’alfabeto latino che per rappresentare l’u greco, ed esprimere il suono della u francese, [1279]non si pronunzia in esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice. Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella nostra lingua. E notate che in dette due lingue l’y si pronunzia i anche in parole e nomi propri ec. non derivati dal latino, o che in latino non avevano detta lettera, o anche avevano l’i in sua vece. E l’y e l’i si scambiano a ogni tratto nella scrittura spagnuola e francese, massime in quelle non affatto moderne, giacchè oggi l’ortografia è più determinata. (I francesi scrivono Sylvain pronunziando Silvain. V. anche il Diz. Spagnuolo in Syl.) Notate ancora che i francesi conservano l’u gallico, e pure pronunziano l’y per i. Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè affatto e universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l’u presso i greci. Ed è naturale l’affinità scambievole dell’i e dell’u, le più esili delle nostre vocali. V. p.2152. fine. Infatti il suono della u francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca) partecipa della i come della u. E quegli stessi greci che pronunziavano il loro u come i francesi la u, lo consideravano come una i piuttosto che come una u; voglio dire come una specie o inflessione ec. della i. Giacchè nel loro alfabeto lo chiamavano êcilòn (come noi diciamo pure alla greca ipsilon) cioè u tenue. Ora questo aggiunto di tenue non gli è dato ad altro oggetto che di distinzione, come l’e si chiama parimente ¤cilòn per distinguerlo dall’·ta. Ma i greci non hanno nel loro alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere questo u; bensì hanno un’altra i cioè l’ÞÇta.

Da hulh dunque pronunziato alla francese, e doppiamente aspirato, ovvero da hilh, fecesi hulf o hilf all’eolica, il che in latino (e in molte altre lingue per la somiglianza delle labiali f e v) pronunziossi, come abbiamo veduto, o da principio [1280]o col tempo hilv. Anzi il digamma eolico non doveva esser altro che una cosa di mezzo tra f e v, ed un’aspirazione che tenea della consonante, e tale divenne pienamente nel seguito. (Aspirazioni considerate per consonanti formali, ne ha pure lo spagnuolo ec.) Da hilv i latini, secondo il loro costume, fecero silv. E finalmente come presso i greci l’aspirazione H perdendosi affatto, passò ad esser lettera, e desinenza di ìlh e cessò di esser carattere radicale; così presso i latini la parola silv, raddolcendosi e formandosi la lingua, venne a ricevere la sua vocale terminativa a.

Ecco quanti cangiamenti dovè subire la radice hulh o hilh (seppur questa fu la primissima parola) secondo le differenze de’ popoli e de’ tempi, prima ancora di passare dal suo semplice stato di radice a parola derivativa o composta, anzi prima pur di subire alcuna inflessione, giacchè ìlh e silva essendo nominativi non hanno inflessione veruna. Ed aggiungete ancora, prima di divenir selva in italiano, giacchè la radice di questa parola italiana è parimente quell’hulh, e così tutte le più moderne parole che giornalmente oggi si parlano, hanno la loro antichissima, e per lo più irreconoscibilissima radice nelle lingue primitive.

Queste non sono etimologie stiracchiate, nè sogni, benchè etimologie lontanissime. E non volendoci prestar fede, perciò solo che sono lontane, e che a prima vista non si scorge somiglianza fra hulh e silva, non si creda di mostrarsi spirito forte, ma ignorante d’archeologia, di filologia, e della storia naturale degli organi umani, de’ climi ec. come pur della storia certa e chiara di tante altre parole e lingue, similissima a questa; [1281]come di quelle stesse parole italiane che si sa di certo esser derivate dall’Arabo, dal greco, e dallo stesso latino, e che pur tanto hanno perduto della loro prima fisonomia, (in tanto minor tempo e varietà di casi) ed appena si possono ridurre alla loro origine. Giacchè ci sono due generi d’incredulità, l’uno che viene dalla scienza, e l’altro (ben più comune) dall’ignoranza, e dal non saper vedere come possa essere quello che è, conoscer pochi possibili ec. poche verità e quindi poche verisimiglianze ec. non saper quanto si stenda la possibilità. (V. p.1391. fine.)

Se dunque non m’inganno, abbiamo trovato una radice primitiva, o prossima alla forma primitiva, dico hulh o hilh. Sarebbe tanto curioso quanto utile il ricercare questa parola, se esistesse, o altra che le somigliasse, nelle lingue straniere, principalmente orientali, da cui pare che derivassero antichissimamente le lingue occidentali, come pure le nazioni, le opinioni, i costumi, e che in somma l’oriente fosse abitato prima dell’occidente. Gli studi e le scoperte che i moderni negli ultimi tempi hanno fatte, e vanno facendo anche oggi nelle antichità orientali, pare che sempre più confermino questa proposizione (già conforme al Cristianesimo, e alle antiche tradizioni pagane) della maggiore antichità dell’oriente rispetto all’occidente, o almeno della società e civiltà orientale, generalmente parlando. Converrebbe consultare specialmente le lingue indiane.

Le lingue selvagge sarebbero anche adattate a queste ricerche, essendo verisimilmente le meno lontane dallo stato primitivo, come lo sono quelli che le parlano.

Ma prima d’istituire tali ricerche bisogna fare un’ultima osservazione in questo proposito. Finora non abbiamo considerato che le variazioni nella forma esteriore di detta radice. Bisogna osservare anche quelle del significato. †Ulh non significa solamente [1282]selva, ma anche materia, materiale sostantivo ec. v. i Lessici. Anzi questo si pone per significato proprio d’essa parola. Quindi ylgnh, hiuli presso i Rabbini significa materia o materia prima, termine filosofico. V. Johannis Buxtorfii Lex;. Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum alla radice (fittizia) ]yh, Basileae 1640. col.605 fine-606. Dove è notabile il modo nel quale è imitato il suono dell’u greco, o u francese; cioè con due i ed una u; dal che 1. si conferma quello che ho detto p.1279. che i greci consideravano detta lettera più come una i che come una u, 2. apparisce che l’antica pronunzia dell’u greco durava ancor dopo trasformata quella dell’e lunga h, in i; giacchè l’h di ìlh è espresso in questa parola rabbinica per la i lunga. Del resto la radice ]yh è mal formata dal Lessicografo, giacchè manca del lamed, lettera radicalissima nella voce surriferita. Si vede pure che conservavasi ancora l’aspirazione nella voce ìlh, giacchè la He non ad altro oggetto che di rappresentar l’aspirazione, fu posta dai rabbini in detta voce. †Ulh significa anche particolarmente legna o legname, o legno in genere. Così pure silva (v. Forcellini), altra prova dell’affinità di questo vocabolo col vocabolo greco. Non saprei dire, nè monta per ora assai, il ricercare quale dei detti significati fosse il primitivo, se quello di selva, o di legna, o di materia o materiale ec. Anche negli Scrittori latino-barbari si trova Silva per Lignum, Materia. V. il Glossar. del Ducange. Vedilo anche in Hyle, e quivi pure il Forc.

Bensì è curioso l’osservare che presso gli spagnuoli madera, lo stesso che materia, che i nostri antichi italiani dissero anche matera, non significa oggi altro che legno generalmente o legname. E presso i francesi è noto che bois significa tanto bosco o selva quanto legno in genere. V. i Diz. francesi, e la Crusca in selva, bosco, foresta, materia ec. se ha nulla in proposito. Anche fra noi poeticamente si direbbe molto bene selva ec. per legna ec. come presso a’ poeti latini.

Si potrebbe dunque e dovrebbe ricercare nelle lingue orientali ec. la radice hulh o hilh, non solo in [1283]senso di selva, ma anche di materia, di legno, o legname ec. e in qualsivoglia di questi si ritrovasse, servirebbe ugualmente di conferma al nostro ragionamento.

(2-5. Luglio 1821.). V. p.2306.

Alla p.1270. Anche dopo fatta la meravigliosa analisi de’ suoni articolati pronunziabili in una intera favella, e concepito il portentoso disegno di esprimergli ad uno ad uno e rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato l’alfabeto; si dovè provare tanta difficoltà nell’applicazione, quanta se ne prova sempre passando dalla teorica alla pratica. Anzi si può dire in genere che lo scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la teorica alla pratica. Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero comparire nelle prime scritture. Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti. Cioè l’analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo lunghe serie di esperienze e riflessioni. Non potè detta analisi arrivar subito ai suoni intieramente elementari. Quindi segni inutili e soprabbondanti per una parte, mancanze di segni necessarii per l’altra. Quindi sistema peccante di poca semplicità e di troppa semplicità. Gli archeologi possono facilmente vedere e notare, e notano i progressi dell’alfabeto sì presso una medesima nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece. Certo è però che i primissimi alfabeto dovettero essere molto più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi e primi che conosciamo, e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o simile imperfezione, e quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua scritta, la lingua comunicata alle altre nazioni e tempi ec. Quante parole che si distinguevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella scrittura. O si cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle parole si [1284]vennero a poco a poco a confondere. Nell’uno e nell’altro caso vedete quanto la necessaria imperfezione delle prime scritture (e per prime intendo quelle di parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta conservazione delle primitive radici, averle svisate di forma, confusine i significati ec. ec. Così discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni degli alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle parole.

Ma anche senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione, ripeto che l’applicare le parole pronunziate ai segni allora inventati, dovè necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono nel discendere dalla teorica alla pratica. Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere, ancorchè sappiano ben leggere; ovvero gl’ignoranti che sanno però ben formare tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti spropositi derivati dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di analizzare la parola che odono, risolvendola ne’ suoni elementari, per applicare a ciascun suono elementare il suo segno. (Notate ch’essi adoprano un alfabeto proprio fatto della lingua in cui scrivono, ed i segni propri e distinti di quei suoni precisi che debbono rappresentare). Appena riescono essi a copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno. Così i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano. Così anche gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a scrivere o leggere, ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere, fanno la loro parola scritta così diversa dalla parlata, ch’essi stessi si vergognerebbero di pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace. Ma essi credono che corrisponda alla pronunzia. V. p.1659. Lo scrittore che scrive [1285]traslatando nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la sua propria dettatura. Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare con segni ciascun suono che concepiva! E gl’infiniti errori prodotti dalla necessaria imperizia de’ primi scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le loro forme, i loro significati, ec. (E ricordiamoci che le lingue antiche ci sono pervenute per mezzo della sola scrittura.) Lascio il noto costume antico di scrivere tutte le parole a distesa senza nè intervalli nè distinzioni, punteggiature (di cui l’Ebraico manca quasi affatto) ec. il che ognun vede quante confusioni e sbagli dovesse produrre. Così dite degli altri inconvenienti della paleografia, gli effetti de’ quali nelle lingue colte ec. furono maggiori che non si pensa. Lo vediamo anche nei Codici scritti in tempi dove l’arte della scrittura era già di gran lunga completa. Vediamo dico quanti errori, quante sviste perpetuate in un’opera ec. dove suda la critica, e molte volte non arriva a correggerle, e molte altre neppur se n’accorge ec. ec. V. p.1318. Da tutte le quali cose apparisce che le lingue primitive dalla sola applicazione alla semplice scrittura, senza ancor punto di letteratura, dovettero inevitabilmente ricevere una somma alterazione e sfigurazione, e travisamento.

Incorporiamo queste osservazioni coi fatti. Pare che le lingue orientali fossero le prime del mondo. Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall’oriente, e quindi orientali furono i primi alfabeti, e orientale dovette essere il primo inventore dell’alfabeto. Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de’ segni delle vocali. Questo pare strano. Nell’analisi de’ suoni articolati pare a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi e più facili a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali ne’ primitivi alfabeti d’Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e vediamo quanto il giudizio nostro [1286]che siamo sì avvezzi e pratici dell’analisi de’ suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo, differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e soccorso concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.

Benchè le vocali sieno i primi suoni che l’uomo pronunzia, (anzi pure la bestia) e il fondamento di tutta e di tutte le favelle, certo è peraltro, chi le considera acutamente, ch’elle sono suoni più sottili; dirò così, più spirituali, più difficili a separarsi dal resto de’ suoni, di quello che sieno le consonanti. Noi chiamiamo così queste ultime, perch’elle non si reggono da se, ed hanno bisogno delle vocali, ed i greci le chiamavano similmente sæmfvnoi quasi convocali. Questo ci par che dovesse menare per mano al ritrovamento immediato de’ suoni vocali, nella ricerca de’ suoni elementari; e questo per lo contrario fu quello che impedì e dovette naturalmente impedire la prima analisi della favella, di arrivare sino a questo punto. Le vocali furono considerate come suoni inseparabili dagli altri suoni articolati; come suoni quasi inarticolati; come parti inesprimibili della favella, parti sfuggevoli, e incapaci d’esser fissate nella scrittura, e rappresentate separatamente col loro segno individuale. Insomma l’analisi degli elementi delle parole, la decomposizione della voce umana articolata non arrivò fino a questi sottili elementi, cioè fino alle vocali, e non si conobbe che i suoni vocali fossero elementari, e [1287]divisibili dagli altri; e si considerarono come sostanze semplici le consonanti il cui stesso nome presso noi dimostra ch’elle sono sostanze composte, o bisognose della composizione, e più composte insomma o meno semplici che le vocali. V. p.2404.

Le prime scritture pertanto mancando delle vocali, somigliarono appunto a quelle che si fanno in parecchi metodi di stenografia: e l’oriente continuò per lunga serie di secoli, a scriver così, quasi stenograficamente. (E così credo che ancora continui in più lingue.)

Notate che i primi alfabeti abbondarono de’ segni delle aspirazioni (frequentissime, e di suono marcatissimo nelle lingue orientali come nello spagnuolo) i quali segni passarono poi ad esser vocali negli alfabeti d’occidente, presi dallo stesso oriente. E ciò per la naturale analogia delle aspirazioni colle vocali, che pronunziate da se, non sono quasi altro che aspirazioni. Abbondarono pure de’ segni delle consonanti aspirate, distinti da’ segni delle non aspirate: abbondanza non necessaria quando v’erano i segni delle aspirazioni che potevano congiungersi a quelli delle consonanti non aspirate dette tenui, e così denotare le consonanti aspirate, come poi fecero i latini, ed anticamente i greci che scrivevano THEOS, CUKHH o PSUKHE ec. Ma questo è il naturale andamento dello spirito umano, tutto il cui progresso tanto in genere come in ispecie, vale a dire in qualsivoglia scienza o arte, consiste nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose e delle idee, e nel conoscere che una cosa o un’idea fin allora dell’ultima semplicità conosciuta, ne contiene un’altra più semplice. V. in questo proposito la p.1235. principio.

[1288]Osserviamo ora le conseguenze di questa scrittura quasi stenografica, cioè senza vocali, scrittura per sì lungo tempo comune all’oriente, anche dopo l’intero perfezionamento della loro arte di scrivere; e scrittura primitiva fra gli uomini. Osserviamo, dico, le conseguenze che appartengono al nostro proposito, cioè alle alterazioni portate dalla scrittura alle prime radici, ed alla perdita che ci ha cagionata della perfetta cognizione di molte di loro ec.

Tutti gli eruditi sanno che delle vocali non bisogna far molto calcolo nelle lingue e parole orientali, sia nello studiarle, sia nel confrontarle con altre lingue e parole, nel cercarne le radici, le origini, le proprietà, le regole ec. E che le vocali in dette lingue sono per lo più variabilissime incertissime, e bisogna impazzire per ridurre sotto regole (suddivise in infinito) quello che loro appartiene. Or come ciò? Questo è pur contrario alla natura universale della favella umana, la cui anima, la cui parte principale e sostanziale sono le vocali. E ben dovrebbero queste naturalmente esser meno variabili, e più regolate che le consonanti. Ciò non si deve attribuire se non a quella imperfetta maniera di scrivere che abbiamo accennata; (imperfezione derivata dall’esser quella scrittura la prima del mondo ec.) e serve anche a dimostrare contro l’opinione di alcuni critici, che i più antichi e primitivi alfabeti orientali mancarono effettivamente de’ segni delle vocali. Non è già che le vocali [1289]non formassero e non formino la sostanza delle lingue orientali, come di tutte le altre più o meno. Formano la sostanza di quelle lingue, ma non della loro gramatica, e ciò per la detta ragione. Anzi molte lingue orientali, p.e. l’ebraica (e credo generalmente quasi tutte) abbondano di vocali più che le nostre. La lingua ebraica ha 14. differenze di vocali, nessuna delle quali è dittongo. Questa è la prima conseguenza ed effetto della imperfezione di detta scrittura, sulla favella, e sull’indole delle lingue che adoperavano detta scrittura.

Altro notabile e inevitabile effetto, si è la confusione de’ significati, delle origini, delle proprietà ec. delle voci, scritte senza le vocali, nel qual proposito v. quello che ho detto p.1283. fine-84. principio. A tutti è noto quante parole della Scrittura ebraica di diversissimo significato, e secondo che si stima, di diversissima origine e radice, o che sono esse medesime, radici differentissime, scritte senza vocali, sono perfettamente uguali fra loro, nè si possono distinguere se non dal senso. Immaginate voi quanta confusione ciò debba aver prodotto e produrre, quanti equivoci, quanti dubbi; quante parole che si credono bene spiegate, e ben distinte coi punti vocali introdotti posteriormente, debbano in realtà aver significato tutt’altra cosa, ed avere avuto nella pronunzia tutt’altre vocali. Onde nel [1290]testo Ebraico l’Ermeneutica trova bivi e trivi e quadrivi a ogni passo; e nella semplice interpretazione letterale gli stessi odierni Giudei, gli stessi antichi Dottori della nazione andarono e vanno le mille miglia lontani l’uno dall’altro. Vedete quanti danni recati alla conservazione dell’antica lingua, e alla cognizione delle forme del senso ec. delle antiche parole, dalla maniera di scrivere che abbiam detto.

Ciò non basta. Avendo gli Orientali scritto per sì lungo tempo senza vocali, ne deve seguire che la vera antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine ai suoni vocali, cioè alla parte primaria e sostanziale della pronunzia, sia in grandissima parte perduta. La qual naturale opinione si conferma dal vedere che molte, anzi quasi tutte le voci o i nomi propri Ebraici passati anticamente ad altre lingue, si pronunziarono e si pronunziano in ordine alle vocali, tutt’altrimenti da quello che si leggono nella Scrittura Ebrea Masoretica, cioè fornita de’ punti vocali, inventati (secondo i migliori Critici) in bassissima età, come gli accenti e gli spiriti che furono aggiunti in bassi secoli alla scrittura greca. (Morery conchiude sulla fede del Calmet, del Prideaux, del Vossio, e degli altri più dotti, che detta invenzione fu verso il nono secolo, e che per l’avanti nella scrittura Ebrea non v’era segno alcuno di vocali.) E notate primieramente, ch’io dico in ordine alle vocali, giacchè [1291]quanto alle consonanti la scrittura e la pronunzia delle parole e nomi Ebraici in altre lingue, concorda generalmente con quella della Bibbia masoretica: il che serve di prova al mio discorso, mostrando che detta diversità di pronunzia nelle vocali, non deriva da corruzione sofferta da dette parole o nomi nel passare ad altre lingue, ma dal differire effettivamente la pronunzia masoretica cioè la moderna pronunzia ebraica, dalla pronunzia antica rispetto alle vocali. E che tal differenza si deve attribuire alla imperfezione dell’antica scrittura ebraica senza vocali ec. Secondariamente notate che trattasi per lo più di nomi propri, i quali nel passare ad altre lingue, sogliono naturalmente conservare la loro forma e pronunzia nazionale, meglio che qualunque altro genere di voci.

(7. Luglio 1821.)

L’aspetto dell’uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco inclinate alla letizia per atto o [1292]per abito, ma anche alle persone d’animo indifferentemente disposto, e non danneggiate punto, nè soverchiate ec. da quella prosperità. Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più stretti ec. E bisogna che l’uomo il quale ha cagione di allegria, o la dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito, altrimenti la sua presenza, e la sua conversazione riuscirà sempre odiosa e grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno materia alcuna di dolersene. Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi, padroni di se, e ben creati. Che vuol dir questo, se non che il nostro amor proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all’odio altrui? Certo è che nel detto caso, anche all’uomo il più buono, è mestieri un certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio nè danno, o solamente per non gravarsene.

(8. Luglio 1821.)

Alla p.1242. Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia tenuta la più ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte della ricchezza delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei derivati e de’ composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di qualsivoglia lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai ricca. La lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de’ composti (colpa più nostra che sua), abbiamo veduto [1293]e si potrebe dimostrare con mille considerazioni, che nella facoltà dei derivati, e nell’uso che finora ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince dette lingue, di quello che ne sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua italiana sia la più ricca delle moderne, e questa superiorità sua, che una volta fu effettiva (e per le dette ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi non la spoglieremo di quelle facoltà che la producono, e sole la possono principalmente produrre; e che per l’altra parte sono proprie della sua indole. Cioè se non la spoglieremo della facoltà di crear nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i nostri antichi. Giacchè l’impedire alla lingua (e ciò per legge costante) che non segua ad esercitare le facoltà generative datele da quelli che la formarono, è lo stesso che spogliarnela, e quindi si chiama disfare e non conservare l’opera dei nostri maggiori.

Dilatate quest’ultimo pensiero, dimostrando come il voler togliere alla lingua l’esercizio delle sue facoltà creatrici, proprie della sua indole, sia appunto l’opposto di quello che si crede, cioè allontanarla dalla sua indole, e dalla sua condizione primitiva in luogo di mantenercela. La condizione primitiva della lingua era di esser viva: ora il ridurla allo stato [1294]assoluto di morta, si chiamerà conservarla qual ella era, e quale ce la trasmisero i suoi formatori? Dunque conservare una parola, una forma, un significato, un suono antico, ec. e sbandire una voce o modo barbaro, una cattiva ortografia, un significato male applicato ec. tutte cose particolari ed accidentali, e quel ch’è più mutabili, tutto questo si chiamerà conservare la lingua. E lo spogliarla delle sue facoltà generali, ed essenziali, e immutabili, non si chiamerà guastarla o alterarla, ma anzi conservarla? Dico immutabili, fin tanto ch’ella non muti affatto qualità, e di viva diventi morta. Il solo immutabile nella lingua sono le facoltà che costituiscono il suo carattere, parimente immutabile. Le parole, i modi, i significati, le ortografie, le inflessioni ec. niente di questo è immutabile, ma tutto soggetto all’uso per propria natura. Così che i nostri bravi puristi vogliono eternare nella lingua la parte mortale, e distruggere l’immortale, o quella che tale dev’essere, se non si vuol mutare la lingua. E l’uso di tali facoltà creatrici, ch’io dico immortali, deve essere perpetuo finchè una lingua vive, appunto perchè la novità delle cose e delle idee (alle quali serve la lingua) [1295]è perpetua. Che se non fosse perpetua, la lingua potrebbe allora perdere dette facoltà, e vivere nello stato delle lingue morte. Ma essendo la novità delle cose perpetua, ripeto che non si può conservare la lingua senza mantenerle intieramente le sue primitive facoltà creatrici, e che lo spogliarla di queste è lo stesso che ridurla necessariamente alla barbarie; giacch’ella barbara o no, finch’è parlata e scritta non può morire; e non potendo vivere nella sua prima condizione, cioè durando la novità delle cose senza ch’ella possa più esprimerle del suo proprio prodotto, vivrà nella barbarie.

(8. Luglio 1821.)

Alla p.1138. fine, aggiungi - 4. La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec. dal principio loro fino al dì d’oggi, si conoscono o si possono ottimamente o sempre meglio conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor vive. E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può portare e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori latini; e ciò stante l’infinita tenacità del [1296]volgo che mediante il parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì d’oggi, e conserva tuttavia nell’uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come dimostrerò discorrendo dell’antico latino volgare. Sicchè lo studio comparativo delle tre lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora sia stato, e con maggiore intenzione all’effetto di scoprire le antichità della favella materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e primitive, o quasi primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla lingua greca parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che vive la latina. Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il greco moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della lingua greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che noi possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla sua formazione e letteratura fino al dì d’oggi, come dirò poi.

Da queste considerazioni segue in primo luogo che la lingua latina, non ci è solamente nota [1297]per via della scrittura e letteratura, cose che sfigurano sommamente le origini di qualunque lingua, come ho detto poche pagine dietro, discorrendo delle cause di alterazione nelle lingue; ma eziandio per mezzo della viva favella, la quale è sempre influita dall’uso degli antichi parlatori, assai più che degli antichi scrittori; e di una favella che si parla tuttodì nel mezzo d’Europa, e in gran parte d’Europa, ed è conosciuta per tutto, e massime a noi stessi che la parliamo e scriviamo. Cosa che non si può dire di nessun’altra lingua antica.

In secondo luogo segue dalle dette considerazioni che noi possiamo conoscere quasi perfettamente (massime rispetto a qualunque altra lingua) le vicende della lingua latina e delle sue parole, e condurre una storia della lingua e delle voci latine, (generalmente parlando) quasi perfetta, quasi completa, e senz’alcuna laguna, dai primi principii della sua letteratura fino al dì d’oggi, cioè per venti secoli interi. (Plauto morì nel 184. av. G. C.) Il che non si può dire di verun’altra lingua occidentale, fuor della greca, la cui notizia e storia è soggetta però alle difficoltà dette p.1296. E molto più, ed a molto maggiori difficoltà sono soggette quelle delle lingue orientali, ancorchè possano rimontare ad epoca [1298]più remota. L’antica lingua teutonica ha veramente prodotto più lingue che la latina; inglese, tedesca, olandese, danese, svedese, svizzera ec. (Staël): ma essa medesima è quasi ignota. Così l’antica illirica, madre della russa, della Polacca, e di altre. La lingua Celtica è poco nota essa, e non vive in nessuna moderna.

In somma la lingua latina è di tutte le lingue antiche quella la cui storia si può meglio e per più lungo spazio conoscere, e le cui primitive proprietà per conseguenza si ponno meglio indagare. Giacchè spetta all’archeologo il rimontare dalla storia ch’egli può conoscere ec. de’ venti secoli sopraddetti, a quella de’ secoli antecedenti; nè gli mancano copiose notizie di fatto, le quali basterebbero già per se stesse a potere spingere la detta storia molto più in là di detta epoca, sebbene meno perfettamente e completamente sino ad essa epoca, cioè al secondo secolo av. Cristo, ch’è il secolo di Plauto.

Aggiungete quella lingua Valacca, derivata pure dalla latina, e che per essersi mantenuta sempre rozza, è proprissima a darci grandi notizie dell’antico volgare latino, il qual volgare, come tutti gli altri, è [1299]il precipuo conservatore delle antichità di una lingua. Aggiungete i dialetti vernacoli derivati dal latino, come i vari dialetti ne’ quali è divisa la lingua italiana. I quali ancor essi si sono mantenuti qual più qual meno rozzi, com’è naturale ad una lingua non applicata alla letteratura, o non sufficientemente; e com’è naturale a una lingua popolarissima: e quindi tanto più son vicini al loro stato primitivo. E trovasi effettivamente di molte loro parole, frasi ec. che derivano da antichissime origini. Quello che s’è perduto p.e. nella lingua italiana comune, o in questo o quel vernacolo italiano, o s’è alterato ec., s’è conservato in quell’altro vernacolo ec. E il loro esame comparativo deve infinitamente servire all’esame delle lingue latino-moderne, diretto a scoprire le ignote e primitive proprietà del latino antico. Aggiungete ancora la lingua Portoghese, dialetto considerabilissimo della spagnuola.

5.   La lingua latina colta è incontrastabilmente meno varia, più regolare, più ordinata, più perfetta della greca pur colta. Facilmente si può vedere quanto ciò giovi e favorisca la ricerca della lingua latina incolta. Più facilmente si vede, si trova, si cammina nell’ordine, che nel disordine. Aperta che vi siate nella lingua latina una strada, questa sola vi mena, e dirittamente, alla scoperta d’infinite sue voci antiche. Le formazioni delle parole nella lingua latina; la fabbrica dei derivati e dei composti, è per lo più regolatissima, ordinatissima, e uniforme [1300]dentro ai limiti di ciascun genere. Trovato che abbiate e ben conosciuto un genere di derivati nel latino, tutti o quasi tutti in quel genere sono formati nello stesso preciso modo, e secondo la stessa regola; da tutti si può rimontare egualmente alle radici. Vedete quello che abbiamo osservato dei continuativi e frequentativi; due generi di voci derivate, regolarissimamente ed uniformemente formate, da ciascuna delle quali si può egualmente salire alla voce originaria. Bene stabilito che sia il preciso modo di quella tal formazione, come abbiamo fatto, questa sola strada ci mena senza fatica, a un larghissimo e ubertosissimo campo; anzi è quasi una porta che vi c’introduce immediatamente.

Non così accade per lo più nella lingua greca, tanto più varia, difforme da se stessa nelle sue formazioni, ed in ogni altro genere di cose, e senza pregiudizio (anzi con vantaggio) della bellezza, tanto meno regolare e corrispondente. Giacchè sì la moltiplicità, come la scarsezza delle regole, non sono altro che irregolarità. L’una e l’altra dimostrano la copia e soprabbondanza delle eccezioni, le quali chi vuol ridurre a regola, moltiplica necessariamente le regole fuor di misura; chi non vuol dare in questo intoppo, è necessario che stabilisca [1301]poche e larghe regole, acciò possano lasciar luogo a molte differenze, e comprenderle: e in somma conviene che si tenga sugli universali, perchè i particolari discordano troppo frequentemente. E così accade nella gramatica greca, dove altri soprabbondano di regole, e la fanno parere complicatissima, altri scarseggiano, e la fanno parere semplicissima. La lingua latina è proprio nel mezzo di questi due estremi, riguardo alle regole d’ogni genere. (Intendo già fra le lingue del genere antico, e non del moderno, tanto più filosoficamente costituito, com’è naturale.) Vale a dire per tanto ch’ella è la più facile a sviscerare, e considerare parte per parte. Ma nella lingua greca bisogna aprirsi ad ogni tratto una nuova strada, e quella regola e maniera di formazioni ec. che avrete scoperta, non vi servirà se non per poche voci ec. ec.

(8 9. Luglio 1821.)

Alla p.936-8. Osservate ancora qualunque persona, rozza, o non assuefatta al bel parlare, ed alla lingua della polita conversazione, o poco pratica e ricca di lingua, o poco esercitata e felice nel trovar le parole favellando, (cioè la massima parte degli uomini), ovvero anche quelli che parlano bene, quando si trovano in circostanza dove non abbiano bisogno di star molto sopra se stessi nel parlare, o quando parlano rozzamente a bella posta o in qualunque modo, o talvolta anche fuori di dette circostanze, e nella stessa polita conversazione; o finalmente quelli che hanno una certa forza, e vivacità, e prontezza ec. o insubordinazione di fantasia; e facilmente potrete notare [1302]che tutti o quasi tutti gli uomini, qual più qual meno secondo le suddette differenze, hanno delle parole affatto proprie loro, e particolari, (non già derivate nè composte, ma nuove di pianta) che sogliono abitualmente usare quando hanno ad esprimere certe determinate cose, e che non s’intendono se non dal senso del discorso, e son prese per lo più da una somiglianza ed una imitazione della cosa che vogliono significare. Così che si può dire che il linguaggio di ciascun uomo differisce in qualche parte da quello degli altri. Anzi il linguaggio di un medesimo uomo differisce bene spesso da se medesimo, non essendoci uomo che talvolta non usi qualche parola della sopraddetta qualità, non abitualmente, ma per quella volta sola, (qualunque motivo ce lo porti, che possono esser diversissimi) quantunque abbiano nella stessa lingua che conoscono ed usano, la parola equivalente da potere adoperare.

(9. Luglio 1821.)

Un ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi specialmente in tal caso) non solo ci suol fare più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla sorpresa che deriva dall’imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa), ma, per così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che [1303]reale, e la troviamo più bella se è bella, o al contrario. ec. Non per altro se non perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e vedendo il ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che incredibilmente accresce l’acutezza de’ nostri organi nell’osservare e nel riflettere, e l’attenzione e la forza della nostra mente e facoltà, e dà generalmente sommo risalto alle nostre sensazioni. ec. (Osservate in tal proposizione ciò che dice uno stenografo francese, del maggior gusto ch’egli provava leggendo i classici da lui scritti in istenografia.) Così osserva il Gravina intorno al diletto partorito dall’imitazione poetica.

(9. Luglio 1821.)

Diletto ordinarissimo ci produce un ritratto ancorchè somigliantissimo, se non conosciamo la persona; straordinario se la conosciamo. Applicate questa osservazione alla scelta degli oggetti d’imitazione pel poeta e l’artefice, condannando i romantici e il più de’ poeti stranieri che scelgono di preferenza oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.

(9. Luglio 1821.)

Altra prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che noi per lo più crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello che desideriamo, anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali una tema, e l’altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più credere quello che prima non sapevamo non credere, [1304]come mi è accaduto più volte. E poste due cose, o contrarie o disparate, l’una desiderata, e l’altra temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per questa e fugge da quella. Nell’esaminare i fondamenti di alcune proposizioni ch’io da principio temeva che fossero vere, e poi lo desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi insufficientissimi.

(10. Luglio 1821.)

A quello che ho detto del linguaggio popolare, pochi pensieri addietro, soggiungi. Il linguaggio popolare è ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi, non veramente alla lingua scritta, ma propriamente allo scrittore. Vale a dire, bisogna che questo nell’attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le componga in maniera che non dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l’arte ha introdotto nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla natura dello scrivere artifizioso ed elegante. Non già le deve trasferir di peso dalla bocca del popolo alla scrittura, se già non fossero interamente adattate per se medesime, o se la scrittura non è di un genere triviale o scherzoso o molto familiare ec. Così che io [1305]dico che il linguaggio popolare è una gran fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in cui lo sono le lingue madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l’adattarla al bisogno, non già solamente trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.

(10. Luglio 1821.)

L’uomo isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto per lui solo. E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono. Ma non potendo ugualmente vivere nella società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono. Ho veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre egoisti, credere in buona fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per loro, la qual credenza appariva da’ loro fatti d’ogni genere, ed anche dai detti implicitamente. E non [1306]potevano non solo patire o mancar di nulla, ma appena concepire come gli uomini e le cose non si prestassero sempre e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro indignazione in maniere singolarissime, e talvolta incredibili in persone avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose conservavano pur molta pretensione. Ma non si accorgevano, così facendo, di mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che loro convenisse ec.

(10. Luglio 1821.)

Dovunque ha luogo l’utilità quivi noi non consideriamo e concepiamo e sentiamo la proporzione e convenienza, se non in ragione dell’utile. Poniamo una spada con una grande impugnatura a comodo e difesa della mano. Che proporzione ha quella grossa testa con un corpo sottile? E pure a noi pare convenientissima e proporzionatissima. Perchè? primo per l’assuefazione principal causa e norma del sentimento delle proporzioni, convenienze, bellezza, bruttezza. Secondo perchè ne conosciamo il fine e l’utilità, e questa cognizione determina la nostra idea circa la proporzione ec. dell’oggetto che vediamo. Chi non avesse mai veduto una spada, e non conoscesse l’uffizio [1307]suo, o dell’elsa ec. potrebbe giudicarla sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza, relativo agli altri oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in mente. Così dite delle forme umane ec. Non è dunque vero che la proporzione è relativa? Qual tipo, qual forma universale può aver quell’idea, ch’è determinata individualmente dalla cognizione di quel tale oggetto delle sue parti, de’ loro fini ec.? che è determinata dall’assuefazione di vederlo ec.? che varia non solo secondo le infinite differenze degli oggetti, ma secondo le differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec.? E quell’idea che deriva da cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da speciale assuefazione, come può essere innata, avere una norma comune, stabile, determinata primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del tutto?

(10. Luglio 1821.)

Mi si permetta un’osservazione intorno ad una minuzia, la cui specificazione potrà parere ridicola, e poco degna della scrittura. Alcune minute parti del corpo umano che l’uomo osserva difficilmente, e assai di rado, e per solo caso negli altri, le suole osservare solamente in se stesso. In se stesso, e da ciò che elle sono in lui, egli concepisce l’idea del [1308]quali debbano essere, e della convenienza delle loro forme, e proporzione ec. e di tutti i loro accidenti. Così le unghie della mano. Le quali ben di rado si possono osservare negli altri, bensì sovente in se stesso. Or che ne segue? Ne segue che tutti noi ci formiamo l’idea della bellezza di questa parte del nostro corpo, dalla forma ch’ella ha in ciascheduno di noi; e perchè quest’idea è formata sopra un solo individuo della specie, e l’assuefazione è del tutto individuale nel suo soggetto, perciò se talvolta ci accade di osservare o di porre qualche passeggera attenzione a quella medesima parte in altrui, rare volte sarà ch’ella non ci paia di forma strana, e non ci produca un certo senso di deformità o informità ec. di bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll’assuefazione che noi abbiamo contratta su di noi. E se accadrà che noi osserviamo quella parte nella persona più ben fatta del mondo, ma che in questa differisca notabilmente da noi, quella parte in detta persona ci parrà notabilmente difettosa, quando anche ad altri o generalmente paia l’opposto per differente circostanza. Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o bruttezza di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o minore conformità ch’ella ha non col generale che non conosciamo, ma colla nostra particolare.

Aggiungete che le altre idee della bellezza umana, siccome sono formate sulla cognizione, ed assuefazione, ed osservazione da noi fatta sopra [1309]molti individui, così non sono mai uniche, e ci parrà bello questi, e bello quegli, benchè molto diversi. (Questa moltiplicità medesima delle idee della bellezza umana, va in proporzione del vedere e dell’osservare che si è fatto ec. ec. ec.) Ma nel nostro caso, perchè l’idea è formata sopra un soggetto solo, ed un’assuefazione ed osservazione individuale, perciò è unica, e ci par brutto o men bello proporzionatamente, non solo ciò che non è simile, ma ciò pure che non è uniforme al detto soggetto. V. p.1311. capoverso 2.

Bisogna modificare queste osservazioni secondo i casi e circostanze che ciascuno può facilmente pensare. P.e. se una malattia o altro accidente vi ha deformato le unghie, voi sentite quella deformità, perchè contrasta colla vostra assuefazione precedente, ed allora (almeno fintanto che non arriviate ad assuefarvi a quella nuova forma) non misurerete gli altri da quello che voi siete, ma piuttosto da quello ch’eravate precedentemente. Se un’unghia vostra è deforme, anche sin dalla nascita ec. voi facilmente ve ne accorgerete paragonandola colle altre pur vostre. Se in questa parte del corpo umano voi siete sempre stato assolutamente deforme, cioè grandemente diverso dagli [1310]altri, allora quel poco che voi potrete accidentalmente osservare delle forme comuni, benchè in grosso e non minutamente, potrà bastare a farvi accorgere della vostra deformità, perchè la differenza essendo grande, sarà facilmente notabile, e vi daranno anche nell’occhio quelle parti in altrui, più di quello che farebbero in altro caso, e così l’assuefazione che formerete, contrasterà con quello che vedete in voi stesso. Vi accorgerete però di essa deformità molto più difficilmente, e la sentirete assai meno di quello che fareste in un altro. Così accade di molto maggiori deformità o nostre proprie, o di persone con cui conviviamo ec. e v. la p.1212. capoverso 2.

Queste osservazioni sono menome. Ma non altrimenti il filosofo arriva alle grandi verità che sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti. Ed io da un lato non credo che forse si possa addurre prova più certa di queste osservazioni, per dimostrare come il giudizio, il senso, l’idea della bellezza o bruttezza delle forme degli stessi nostri simili (giudizio, e senso influito dalla natura universale più che qualunque altro) dipende dall’assuefazione ed osservazione, ed eccetto in certe inclinazioni naturali, non ha assolutamente altra ragione, altra regola, altro esemplare. [1311]Dall’altro lato non vedo qual altra più vera e incontrastabile proposizione possa venir dimostrata in maniera più palpabile di questa.

Discorrete allo stesso modo delle altre parti del corpo umano, o egualmente minute, o egualmente poco facili ad osservarsi o vedersi negli altri, o in più che tanti.

(10. Luglio 1821.). V. qui sotto.

Alla p.1309. Tanto più che l’osservazione che noi abbiam fatta in noi stessi delle dette parti è minutissima, e quindi l’idea che abbiamo della loro conveniente figura ec. è bene esatta e determinata, forse più di qualunque altra simile idea. E questo pure perch’ella è formata sopra noi stessi, vale a dire sopra un esemplare che da noi è naturalmente meglio conosciuto, più precisamente osservato, e più frequentemente anzi continuamente veduto che qualunque altro oggetto materiale.

(10. Luglio 1821.)

Al pensiero superiore. Non voglio spingere il discorso all’indecente, e forse di necessità e contro voglia, l’ho portato già troppo innanzi. Dirò brevemente. Di quelle parti umane che taluno non conosce, o in quel tempo in cui nessuno le conosce, non solo non ne ha veruna idea di bello o di brutto, e volendola formare, verisimilissimamente s’inganna, ma [1312]volendo congetturare le loro proprietà, forme e proporzioni universali, non indovina, se non forse a caso. E il fanciullo distingue già il bello e il brutto fra gli uomini, e ancora non conosce intieramente la bellezza non solo, ma neppure la forma umana, e quello che ne conosce non gli dà veruna idea sufficiente, nè delle proprietà nè delle proporzioni e convenienze di quello che non conosce. E v. in questo proposito p.1184. marg.

(12. Luglio 1821.)

Alla p.1255. marg. - e divenir maturo, pratico ec. p.e. in uno stile, con una sola lettura, cioè con pochissimo esercizio ec. La qual facilità di assuefazione, segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell’assuefarmi ai diversi metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione ec. ec. In somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me più nuova.

(12. Luglio 1821.)

Alla p.1226. marg. fine. Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi sempre ella consista nell’indeterminato, (v. in tal proposito quello che altrove ho detto circa un passo di Orazio) v. p.1337. principio o in qualcosa d’irregolare, cioè nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già che questo non sia pur suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l’eleganza non fa danno alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di questa associazione [1313]della precisione coll’eleganza, è splendido esempio lo stile di Celso, e fra’ nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza, perch’è naturalezza. Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che sono opera umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed alla poesia, che sono opera della natura, di quello che viceversa. E perciò ho detto che dove regna la filosofia, quivi non è poesia. La poesia, dovunque ella è, conviene che regni, e non si adatta, perchè la natura ch’è sua fonte non varia secondo i tempi, nè secondo i costumi o le cognizioni degli uomini, come varia il regno della ragione.

(13. Luglio 1821.)

Chi vuol persuadersi dell’immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse, rinchiuse nella lingua italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli, meglio del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra lingua. (Monti, Proposta, vol.1 par.1. p. XIII.) [1314]Un uomo consumato negli studi della nostra favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo scrittore, resta attonito e spaventato, e laddove stimava d’essere alla fine del cammino negli studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala pena al mezzo. Ed io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli, fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d’ogni sorta e d’ogni stile, fa disperare di conoscer mai pienamente la forza, e la infinita varietà delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere. Vi trovate in una lingua nuova: locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime: efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso Dante, e vince non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o moderno, di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze della favella. E tutta questa novità non è già novità che non s’intenda, che questo non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo scrittore. Tutto s’intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto: [1315]ella è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt’altra lingua e stile: e il lettore si maraviglia d’intender bene, e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua, che si esprime in quel modo a lui sconosciuto, e però ben inteso. Tale è l’immensità e la varietà della lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare.

(13. Luglio 1821.)

Il successivo cambiamento delle disposizioni dell’animo di ciascun uomo secondo l’età, è una fedele e costante immagine del cambiamento delle generazioni umane nel processo de’ secoli. (E così viceversa). Eccetto che è sproporzionatamente rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione, inclinazione antica, come l’immaginazione, la virtù ec. ec. ec.

(13. Luglio 1821.)

Alla p.1256. fine. E tanto è vero che l’idea di questa tal bellezza non venga da tipo ec. ma da inclinazione naturale, e da senso affatto indipendente dalla sfera del bello e del conveniente; [1316]che la inclinazione chiamata da Aristofane pròw kr¡aw m¡ga (v. assolutamente il Menagio, ad Laert. Polemon., 4. 19.), fa parer bella e desiderare ai libidinosi una baJukolpÛa eccessiva e maggiore assai delle proporzioni generali, e seguite comunemente dalla natura, e quindi non bella. Applicate questa osservazione a tutte le altre idee che ha della bellezza femminile il lÛxuow pñrnhw ¤pagallñmenow pug»sin. (Crate Tebano, Cinico, ap. Laert. in Crat. Theb. 6.85. v. quivi il Menag.) Idee diverse da quelle più stabilite e comuni, e non per tanto radicatissime e sensibilissime in loro, che altrove non riconoscono e non sentono la bellezza femminile.

(13. Luglio 1821.)

La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti gli stili, e del modo nel quale può essere applicata a tutti i generi di scrittura: fuorchè al genere filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi ch’ella manchi e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch’è di essere adattata anche a questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque l’esito sia certo, non s’è fatta mai la prova di applicare la buona lingua italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317]negli scritti del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti del Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni d’allora. Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile, ec. non è stata mai applicata la buona lingua italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì.

(13. Luglio 1821.)

I termini della filosofia scolastica possono in gran parte servire assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato (quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe danno alla precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un poco senz’alcun danno della chiarezza ec. E questi termini si confarebbero benissimo all’indole della lingua italiana, la quale ne ha già tanti, e i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec. oltre che derivano tutti o quasi tutti dal latino, [1318]o dal greco mediante il latino ec. Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo studio del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti termini, andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della filosofia moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere precisamente intesi da tutti nel senso de’ detti termini recenti: e così quanti altri ve ne sarebbero adattatissimi, e utilissimi, ancorchè non abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. anzi tanto più. Aggiungete che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran parte di detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.

(13. Luglio 1821.). V. p.1402.

Alla p.1285. Osserviamo inoltre quanti vocaboli derivati da soli antichi errori di scrittura, si scoprano mediante la critica, essersi introdotti e ne’ Vocabolari, e nell’uso stesso degli scrittori antichi o moderni, che sogliono formarsi sopra i più antichi, ed attingerne la lingua ec.

(14. Luglio 1821.)

Alla p.1259. principio. Nel che, intorno al giudizio del bello, non opera tanto l’assuefazione, quanto l’opinione. Giacchè di momento in momento varia il giudizio, e se noi [1319]vediamo una foggia di vestire novissima, e diversissima dall’usitata, noi subito o quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza, se sappiamo che quella foggia è d’ultima moda, e se al contrario, il contrario ci accade, perchè quella nuova foggia contrasta sì all’assuefazione nostra, come all’opinione. Aggiungete che noi giudichiamo bella quella nuova foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme ricevute del bello, eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il giudizio del bello, vi vorrà però proporzionatamente qualche poco di tempo per concepirne il senso istantaneo, vale a dire, acquistarne l’assuefazione, la quale conserva pur sempre i suoi dritti; e disfare l’assuefazione passata.

Del resto quanto la pura opinione indipendente dall’assuefazione stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite. Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par grande, s’ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la [1320]beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o meno famosa? Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec. Così dico degli uomini rispetto alle donne ec. ec. Così negli scrittori: il senso del bello è molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo p.e. un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di molti altri che sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in grandissima parte non è altro che il contrarre un’opinione. Se il tal gusto, il tal genere ec. è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi, quell’opera di quel tal gusto o genere ec. non piace. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi. Questo caso è frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano, durante l’ultima metà del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, anzi noia ec., oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l’opinione in Italia è cambiata. Fra questi così cambiati, sono ancor io.

[1321]Potrei condurre questo discorso a cento altri particolari. Lo stile dei trecentisti ci piace sommamente perchè sappiamo ch’era proprio di quell’età. Se lo vediamo fedelissimamente ritratto in uno scrittore moderno, ancorchè non differisca punto dall’antico, non ci piace, anzi ci disgusta, e ci pare affettatissimo, perchè sappiamo che non è naturale allo scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla. Questa è dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non è assoluto, perchè la stessissima cosa, in diversa circostanza, ci par bella e brutta, e se noi non sapessimo p.e. la circostanza che quel tale scrittore sia moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo. Così dite delle imitazioni le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti ec. ragguagliate cogli originali, ancorchè non ne differiscano d’un capello, del che ho detto in altro pensiero. Così dite della simmetria ec. del che v. la p.1259. Così dite degli arcaismi i quali non ci offendono punto, nè ci producono verun senso di mostruosità in uno scrittore antico, perchè sappiamo che allora si usavano; e ci fanno nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all’antico, che quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più che negli antichi scrittori.

(14. Luglio 1821.)

[1322]Ho detto altrove che la grazia deriva bene spesso (e forse sempre) dallo straordinario nel bello, e da uno straordinario che non distrugga il bello. Ora aggiungo la cagione di questo effetto. Ed è, non solamente che lo straordinario ci suol dare sorpresa, e quindi piacere, il che non appartiene al discorso della grazia; ma che ci dà maggior sorpresa e piacere il veder che quello straordinario non nuoce al bello, non distrugge il conveniente e il regolare, nel mentre che è pure straordinario, e per se stesso irregolare; nel mentre che per essere irregolare e straordinario, dà risalto a quella bellezza e convenienza: e insomma il vedere una bellezza e una convenienza non ordinaria, e di cose che non paiono poter convenire; una bellezza e convenienza diversa dalle altre e comuni. Esempio. Un naso affatto mostruoso, è tanto irregolare, che distrugge la regola, e quindi la convenienza e la bellezza. Un naso come quello della Roxolane di Marmontel, è irregolare, e tuttavia non distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se stesso sia sconveniente; ed ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa grazia, descritti festivamente da [1323]Marmontel, e soverchianti quelli d’ogni bellezza perfetta. V. p.1327. fine. Se osserveremo bene in che cosa consista l’eleganza delle scritture, l’eleganza di una parola, di un modo ec., vedremo ch’ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo straordinario o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente dello stile o della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci sorprende che risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non disconvenga; e questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell’eleganza e della grazia delle scritture. (Qui discorrete degl’idiotismi ec. ec.) Il pellegrino delle voci o dei modi, se è eccessivamente pellegrino, o eccessivo per frequenza ec. distrugge l’ordine, la regola, la convenienza, ed è fonte di bruttezza. Nel caso contrario è fonte di eleganza in modo che se osserverete lo stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti secoli, vedrete che l’eleganza loro principalissimamente e generalmente consiste nel pellegrino dei modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo, significazione, nel pellegrino delle metafore ec. Cominciando [1324]dal primo verso sino all’ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.

E ciò è tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e. quella voce, frase, metafora, diventa usuale e comune, non è più elegante. Quanti esempi di fatto si potrebbero addurre in questo particolare, mediante l’attenta considerazione delle lingue. Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini, presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec. nè come troppo frequenti latinismi. Ora infinite parole latine e modi, de’ quali gli antichi scrittori arricchirono la nostra lingua, introducendo il pellegrino ne’ loro scritti, essendo divenuti usuali, e propri della lingua, o scritta o parlata, non producono più verun senso di eleganza, benchè sieno della stessa origine, forma, natura di quelle voci ec. che lo producono oggi. Quanti latinismi di Dante, da che divennero italianismi, (e lo divennero da gran tempo, e in grandissimo numero) sono buoni e puri, ma non hanno che far più niente coll’eleganza e grazia.

[1325]Se quella cosa straordinaria o irregolare nel bello, e dentro i limiti del bello, diventa ordinaria e regolare, non produce più il senso della grazia. Perduto il senso dello straordinario si perde quello del grazioso. Una stessa cosa è graziosa in un tempo o in un luogo, non graziosa in un altro. E ciò può essere per due cagioni. 1. Se quella tal cosa per alcuni riesce straordinaria per altri no. Il parlar toscano riesce più grazioso a noi che a’ Toscani. Così le Fiorentinerie giudiziosamente introdotte nelle scritture ec. Così l’eleganza e la grazia de’ Trecentisti la sentiamo noi molto più che quel tempo che li produceva; molto più di quegli stessi scrittori, i quali forse non vollero nè cercarono d’esser graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che dovevano; nè s’accorsero della loro grazia: e lo stesso dico de’ parlatori di quel tempo. Lo stesso delle pronunzie o dialetti forestieri ec. i quali riescono graziosi fuor della patria, non già in patria. 2. Se quel tale straordinario o irregolare ec. ad altri riesce compatibile col conveniente, col bello ec. ad altri incompatibile, eccessivo, e distruttivo della regola, del conveniente, del bello ec. Una stessa pronunzia ec. [1326]forestiera, riesce graziosa in un luogo dove la differenza è leggiera ec. e sgraziatissima in un altro, dove ella contrasta troppo vivamente e bruscamente colla pronunzia, coll’assuefazione indigena ec. ec. Così dico dell’eccesso delle Toscanerie popolari nelle scritture, che a noi riesce affettato, ec. ec.

Ma anche questo giudizio è soggetto a variare, e quella stessa pronunzia o dialetto ec. che riusciva insopportabile a quella tal persona, coll’assuefarvisi ec. arriverà a parergli anche graziosa. Così dico d’ogni altro genere, e l’esperienza n’è frequente.

Da tutto ciò si deduce ancora che siccome il senso e l’idea della convenienza, regola, e bellezza è relativa, così quella della grazia che risulta dall’idea di ciò ch’è straordinario, irregolare ec. nel conveniente e nel bello ec., è interamente relativa. Sicchè il grazioso è relativo nè più nè meno, come il bello, dalla cui idea dipende ec.

Del resto quello straordinario o irregolare ec. che non appartiene, ed è al tutto fuori d’ogni sistema d’ordine, di regola, d’armonia di convenienza, cioè che non è nel bello, non è punto grazioso, nè spetta al discorso della grazia; come p.e. un animale straordinario, un fenomeno ec. ec.

(14. Luglio 1821.)

Molte cose si trovano, molte particolarità nelle forme umane (così dico del resto), che sono sul confine della grazia e della deformità, o del difettoso, [1327]e ad altri paiono graziose, ad altri paiono difetti, ad altri piacciono, ad altri formalmente dispiacciono, o anche arrivano a piacere e dispiacere alla stessa persona in diverse circostanze. La qualcosa conferma come il grazioso derivi dallo straordinario, cioè da quello ch’è fuor dell’ordine sino a un certo punto. Certo è che l’uomo o la donna può fare in modo, che, s’ella ha difetti anche notabili, anche gravi, quegli stessi le servano a farsi maggiormente amare, a rendersi piacevole e desiderata, e più delle altre, appunto nel mentre che si conosce la sua imperfezione. (Questo dico sì dei difetti fisici come morali ec.) E ciò per mezzo di giudiziosi contrapposti nella convenienza, garbo, brio del portamento ec. ec. ec. in maniera che quel difetto venga piuttosto a dare risalto al bello e al conveniente, che a distruggerlo, ancorchè sia gravissimo. Di ciò son frequenti gli esempi, e spesso ridicoli ec.

(15. Luglio 1821.)

Alla p.1323. principio. Questo accade ancora perchè quella tale particolarità di forma descritta da Marmontel, è bensì fuor dell’uso comune, ma è tuttavia frequente a vedersi, il che produce l’assuefazione; e questa fa che quella tal forma non si giudichi difettosa più che tanto, nè sembri irregolare e sconveniente in modo che distrugga la convenienza, la regola, l’armonia ed il bello delle [1328]altre parti. Se quello stesso difettuzzo, senza esser niente maggiore in se stesso, fosse unico o straordinarissimo, non sarebbe mai cagione di grazia. Dallo straordinario sibbene; ma dall’unico o straordinarissimo, non nasce mai grazia, ma deformità; perchè lo straordinario è allora eccessivo, non in quanto alla sua propria natura e forma, ma in quanto straordinario, cioè fuori dell’assuefazione affatto ec. ec. il che fa che contrastando eccessivamente coll’assuefazione, distrugga l’idea della convenienza, idea che dipende dall’assuefazione ec. Se quella tale particolarità riuscirà nuovissima ed unica ad una persona, ancorch’ella sia frequente, questa persona concepirà il senso della deformità (v. p.1186. marg.), mentre gli altri potranno concepir quello della grazia. E lo concepirà poi anche questa persona, assuefacendosi a quel soggetto, o a quella stessa particolarità in altri soggetti. E ciò gli potrà accadere ancora quando quel difetto sia realmente grave.

(15. Luglio 1821.)

L’azione viva e straordinaria, è sempre, o bene spesso, cagione d’allegria, purchè non abbatta il corpo.

(15. Luglio 1821.)

[1329]Perocchè l’arte militare fu coltivata in Italia prima che altrove, o più che altrove nel principio (come quasi tutte le discipline), perciò quest’arte conserva presso i forestieri e nelle lingue loro, molte parole o termini italiani, cioè venuti dall’italiano, e applicati a quell’arte o scienza in Italia, e da’ nostri scrittori. V. la lettera del Lancetti al Monti nella Proposta ec. vol.2. par.1. nell’appendice.

(15. Luglio 1821.)

Si suol dire; se il tale incomodo ec. ec. fosse durevole, non sarebbe sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante l’assuefazione e il tempo. All’opposto diciamo frequentemente; il tal piacere ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi durando, non sarebbe stato più piacere.

(15 Luglio 1821.)

Non è mai sgraziato un fanciullino che si vergogna, e parlando arrossisce, e non sa stare nè operare nè discorrere in presenza altrui. Bensì un giovane poco pratico del buon tratto, e desideroso di esserlo, o di comparirlo. Non è mai sgraziata una pastorella che non sa levar gli occhi, trovandosi fra persone nuove, nè ha la maniera di contenersi, [1330]di portarsi ec. Bensì una donna, egualmente o anche meno timida, e più istruita, ma che volendo figurare, o essere come le altre in una conversazione, non sappia esserlo o non abbia ancora imparato. Così lo sgraziato non deriva mai dalla natura (anzi le dette qualità naturali, sono graziose sempre ec. ec.), ma bensì frequentemente dall’arte, e questa non è mai fonte di grazia nè di convenienza, se non quando ha ricondotto l’uomo alla natura, o all’imitazione di essa, cioè alla disinvoltura, all’inaffettato, alla naturalezza ec. E l’andamento necessario dell’arte, è quasi sempre questo. Farci disimparare quello che già sapevamo senza fatica, e toglierci quelle qualità che possedevamo naturalmente. Poi con grande stento, esercizio, tempo, tornarci a insegnare le stesse cose, e restituirci le stesse qualità, o poco differenti. Giacchè quella modestia, quella timidezza, quella vergogna naturale ec. si trova bene spesso in molti, non più naturale, chè l’hanno perduta, ma artifiziale, chè mediante l’arte appoco appoco e stentatamente l’hanno ricuperata.

(15. Luglio 1821.)

Ho detto altrove che nell’antico sistema delle nazioni la vitalità era molto maggiore e la mortalità minore che nel moderno. Non intendo con [1331]ciò di fondarmi principalmente sopra la maggior durata possibile della vita umana in quei tempi che adesso. Le storie provano che fra la più lunga vita degli antichi e la più lunga de’ moderni (almeno fin da quei tempi de’ quali si hanno notizie precise) non v’è divario, o poco; e smentiscono in questo i sogni di alcuni. Ed è ben simile al vero che la natura abbia stabilito appresso a poco i confini possibili della vita umana, oltre a’ quali non si possa per nessuna cagione passare, come gli ha stabiliti agli altri animali, nella cui longevità presente non credo che si trovi differenza coi tempi antichi. Almeno ciò si può dire in ordine a quel sistema terrestre, a quell’epoca del globo terraqueo che ci è nota; potendo però il detto sistema avere avuto altre epoche e grandi rivoluzioni. Ed anche ci può essere (o esserci stata) qualche razza umana più longeva o meno, come vediamo differenze notabili di longevità nelle razze p.e. de’ cavalli.

Ma io suppongo, e bisogna generalmente supporre, che l’antichità nota a noi non potesse viver più di quello che si possa vivere oggidì. La maggior vitalità del tempo antico, non è quanto alla potenza, ma quanto all’effetto, vale a dire, la realizzazione della potenza. [1332]Vale a dire che, non potendo gli antichi vivere più lungamente di quello che possano i moderni, vivevano però, generalmente parlando, più di quello che i moderni vivano, cioè si accostavano più di loro ai confini stabiliti dalla natura, secondo le differenze proporzionate delle complessioni, delle circostanze ec.; le morti naturali immature erano più rare, o meno immature (e le non naturali se anche erano più frequenti d’oggidì, non bastavano in nessun modo a pareggiar le partite); conservavano il vigore, la sanità, ec. ec. in età dove oggi non si conservano; in ciascheduna età erano proporzionatamente più gagliardi, più sani, insomma più pieni di vitalità che i moderni, e meglio adattati alle funzioni del corpo, e più potenti fisicamente; le malattie erano meno numerose, sì ne’ loro generi, come individualmente; meno violente ec. o più curabili per rispetto al malato ec. ec. ec. Sicchè la somma della vita era maggiore nel tempo antico, quantunque nessuno in particolare potesse vivere più lungamente di quello che possa viversi oggidì, e che taluni vivano.

(16. Luglio 1821.)

Altra gran fonte della ricchezza e varietà [1333]della lingua italiana, si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata. Non considero qui l’immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz’affatto travisarla), e naturale a spiriti così vivaci ed immaginosi come i nostri nazionali. Parlo solamente del potere usare p.e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co’ gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in somma alla bellezza del discorso, [1334]ma anche sommamente all’utilità, moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la significazione, e modificarla; potendo l’italiano esprimere facilissimamente e chiaramente, mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l’hanno e l’ebbero qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede forse e senza forse nè alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E l’è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà, che forma uno de’ principali ed essenziali caratteri della lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell’utilità che ne risulta? Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a servirsene? Se essa fu data alla lingua da’ suoi fondatori e formatori ec. E se del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia perfettamente d’accordo colla detta facoltà della lingua, e colla sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in lei [1335]sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta pedanteria si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll’orecchio nè coll’indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll’orecchio proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè gli è mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da’ Vocabolaristi. Ma non è caso ch’essi abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla ec. e che quella voce, forma ec. convenga o non convenga colle proprietà della lingua da loro formata, e col suo costume. ec. E questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll’orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma de’ Classici, e pieno e pratico, e fedele interprete e testimonio dell’indole della lingua, sola solissima norma per giudicare di una voce o modo dal lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l’unica guida di tutti quanti i Classici scrittori [1336]sì di tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.

Io qui non intendo solamente difendere i nuovi usi delle parole (nel rispetto soprannotato) che si fa per sola utilità, ma quello pure che si fa per mera eleganza, senza necessità veruna, ma serve colla sua novità, a dare alla locuzione ec. ec. quell’aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente inusitato, e diviso dall’ordinario costume, da cui deriva l’eleganza ec.

(17. Luglio 1821.)

In proposito e in prova di quanto ho detto p.1322.-28. che la grazia deriva dallo straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o per un altro, cagiona l’effetto opposto; osservate che l’inusitato nelle scritture nella lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di sconvenienza, di barbarie, d’ineleganza, e di bruttezza; e l’inusitato è pur l’unica fonte dell’eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol.1. par.1. Append. p.215. sotto il mezzo [1337]- seg. e la p.1312. capoverso ult.

(17. Luglio 1821.)

Alla p.1312. marg. Per l’indeterminato può servir di esempio Virg. En. 1.465. Sunt lacrimae rerum: et mentem mortalia tangunt. Quanto all’irregolare, abbiamo veduto p.1322-28. e nel pensiero superiore, che l’eleganza propriamente detta deriva sempre dal pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso o per un altro è sempre qualcosa d’irregolare, sia perchè quella parola è forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle regole l’usarla; sia perchè quel modo è nuovamente fabbricato comunque si voglia ec. Ed osservate che, escluso sempre l’eccesso, il quale produce il contrario dell’eleganza, dentro i limiti di quella irregolarità che può essere elegante, la eleganza maggiore o minore, è bene spesso e si sente, in proporzione della maggiore o minore irregolarità. Ciò non solo quanto alla lingua, ma allo stile ec. Nell’ordine non v’è mai eleganza propriamente detta. Vi sarà armonia, simmetria ec. ma l’eleganza nel puro e rigoroso ordine non può stare. Nè vi può star la natura, ma la ragione, che l’ordine è sempre segno di ragione in qualunque cosa.

(17. Luglio 1821.)

[1338]Alla p.1113. mezzo. Habitare che nel suo significato metaforico, (divenuto da gran tempo proprio) di abitare (notate che si usa spesso attivamente coll’accusativo e passivamente) è manifestamente continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere. V. il Forcellini.

(17. Luglio 1821.)

Perchè la medicina ha fatto da Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno cangiamenti essenziali che, possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari spazio di tempo; e quindi conservasi forse più vicina di ogni altra alla condizione e misura ec. in cui venne dalla Grecia; perciò quella parte della sua nomenclatura che si compone di vocaboli greci, è forse maggiore che in qualsivoglia altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e proporzionatamente parlando. Non dico niente della Rettorica ec.

(17. Luglio 1821.). V. p.1403.

Gli Ebrei pongono o suppongono uno sceva semplice (cioè una e muta che non fa sillaba) espresso o sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non hanno altra vocale, sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci. Ragionevolmente perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e, non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per consonante, e non seguita [1339]subito da parola cominciante per vocale, ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una stessa parola, come TRAvaglio ec. quella o quelle consonanti che non hanno altra vocale, s’appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e non possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue. Eccetto quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che benchè rappresentato con più caratteri, è però effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola lettera; (lettera non rappresentata nell’alfabeto distintamente; e ve ne sono parecchie; del che v. gli altri pensieri sulla ricchezza dell’alfabeto naturale pronunziato) come le consonanti doppie (tuTTo), come nella suddetta voce travaglio, le consonanti g ed l ec. Non così nell’x benchè rappresentato con un solo carattere. ec.

(17. Luglio 1821.)

Alla p.1257. Insomma questa idea benchè entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca provare si è, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c’insegnano che le cose stanno così, perchè così stanno, e [1340]non perchè così debbano assolutamente stare, cioè perch’esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v’è altra possibile [1341]ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.

(17. Luglio 1821.)

In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.

Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè potendo avere il menomo [1342]dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec. nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.

(18. Luglio 1821.)

Il nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo con caratteri particolari e distinti. Giacchè il gli, benchè partecipi del suono di g e di l ne partecipa come [1343]suono affine, alla maniera di tanti altri, che pur si distinguono da’ loro affini, con caratteri propri; ma in realtà non è nè g, nè l, e non contiene precisamente nessuno dei due, ed è una consonante distinta, ed unica, quando anche si voglia chiamare composta, come la z. La quale sarebbe male espressa con ts o ds ec. Così la f è differente dal p, quantunque sia composta di questo suono, e di un’aspirazione o soffio, e i greci anticamente l’esprimessero col carattere del p, e con quello dell’aspirazione cioè H. Quel suono che contiene veramente il g e la l, è quello della nostra parola Inglese, o del francese aigle, anzi generalmente del francese gl, ben diverso dal nostro gli. Tuttavia si può lodare, l’avere (per maggior semplicità dell’alfabeto) rappresentato questo suono, co’ due caratteri, del suono de’ quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza con cui s’è analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non equivalgono precisamente a verun altro. Questa lode però spetta particolarmente alla lingua italiana, giacchè i francesi esprimono il detto suono con due ll, e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male appropriato, e che dimostra minor sottigliezza di analisi. V. p.1345. capoverso 2. Nel qual proposito mi piace di riferire quello che dice M. Beauzée (Encycl. méthod. in H.), parlando di un altro carattere, cioè dell’h. Il semble qu’il auroit été plus raisonnable de supprimer de [1344]notre orthographe tout caractere muet: et celle des Italiens doit par-là meme arriver plutôt que la nôtre à son point de perfection, parce qu ‘ils ont la liberté de supprimer les H muetes. La mia osservazione ancora può molto servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro. Puoi vedere la p.1339. (17. Luglio 1821.). Il gl, il gn ec. hanno parte di g e parte di l, ec. ma non contengono queste due lettere intere, e non sono nè l’una nè l’altra. Sono dunque vere lettere proprie, e non doppie, perchè non è doppio quello che ha due metà. Così dico della z. Non così l’x, che contiene due lettere intere, e non è che una cifra, ossia un carattere (e non lettera) doppio.

Alla p.1246. marg. Ho detto altrove che la lingua francese è universale, anche perchè lo scritto differisce poco dal parlato, a differenza dell’italiano. Questo non si oppone alle presenti osservazioni: 1. perchè ciò s’intende, ed è vero, massimamente nel gusto, nella costruzione nella forma, e nel corpo intero della lingua e dello stile francese scritto, che pochissimo varia dal parlato: ma non s’intende delle particolari parole e locuzioni e costruzioni volgari. 2. perchè la lingua francese polita differisce dalla popolare assai meno dell’italiana. E ciò, primo, per le circostanze politiche e sociali ec. diverse assai nell’una nazione rispetto all’altra: secondo, [1345]perchè la lingua italiana essendo divisa in tanti dialetti popolari, ha un dialetto comune e polito necessariamente diviso assai da tutte le favelle popolari; dico un dialetto comune, non solo scritto, ma parlato da tutte le colte persone d’Italia, in ogni circostanza conveniente ec. Ora la singolarità della lingua italiana scritta consiste appunto nell’aver preso più di qualunque altra, dalla favella popolare sì divisa dalla colta, e massime da un particolare dialetto vernacolo, ch’è il toscano; e nell’aver saputo servirsene, e nobilitare, e accomodare alla letteratura quanto n’ha preso. Ma la lingua francese scritta, poco si differenzia da quella della conversazione ec.: dove però questa si differenzia da quella del volgo, quella del volgo non influisce e non somministra nulla alla lingua letterata francese. 3. Ho già detto che da principio, cioè quando la lingua italiana scritta seguiva principalmente questo costume di attingere dalla favella popolare, costume che ora ha quasi, e malamente, abbandonato, allora anch’ella era effettivamente assai simile alla parlata. ec. Anche ora ella si accosta al [1346]parlar polito, e vi si accosta più di quello che mai facesse il latino scritto ec. ma non si accosta al parlar popolare, che tanto fra noi differisce dal polito.

(19. Luglio 1821.)

Molte qualità che ad altri riescono dispettose e sguaiate, ad altri riescono graziose. Come il parlar flemmatico degli uomini, piace spesso alle donne, a noi pare accidioso. Viceversa accadrà circa il parlar delle donne. Così certe pronunzie o dialetti languidi, cascanti, strascinati, delicati, smorfiosi, come fra noi il maceratese ec.

(19. Luglio 1821.)

Alla p.1343. marg. Anche questo però serve a dimostrare che il detto suono, non è quello di g ed l: il quale è rappresentato appunto da’ francesi ec. con gl, ed anche da noi, come ho detto. Del resto il suono del nostro gli e dell’ill francese, ed ll spagnuolo, mancava alla lingua latina ed alla greca, le quali però aveano il suono del gl come in Aegle (Virg. Ecl. 6. 20-21.), glukçw ec.

(19. Luglio 1821.)

Dalle lettere consonanti che cadono necessariamente in e, bisogna eccettuare il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali [1347]lettere non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e ciò perchè l’i è la vocale più esile e stretta. Esce dico in un i ma poi termina veramente in un e (quasi ie), qualunque volta le dette lettere, e i suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una parola, o insomma senz’altro appoggio di vocale. Così accade anche ai suoni che partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non iscriviamo mai senza l’i, o lo pronunziamo in altro modo) e gn. V. p.1363. Del resto il nostro c e g chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e, quantunque questa insieme coll’i sia la sola vocale a cui la preponiamo. Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha escluso l’i.

(19. Luglio 1821.)

Io non avendo mai letto scrittori metafisici, e occupandomi di tutt’altri studi, e null’avendo imparato di queste materie alle scuole (che non ho mai vedute), aveva già ritrovata la falsità delle idee innate, indovinato l’Ottimismo [1348]del Leibnizio, e scoperto il principio, che tutto il progresso delle cognizioni consiste in concepire che un’idea ne contiene un’altra; il quale è la somma della tutta nuova scienza ideologica. Or come ho potuto io povero ingegno, senza verun soccorso, e con poche riflessioni, trovar da me solo queste profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per 60 secoli, hanno poi mutato faccia alla metafisica, e quasi al sapere umano? Com’è possibile che di tanti sommi geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello, ch’io piccolo spirito, ho veduto da me, ed anche con minori cognizioni in queste materie, di quelle che molti di essi avranno avuto?

Non è dunque vero in se stesso, che lo spirito umano progredisce, graduatamente, e giovandosi principalmente dei lumi proccuratigli dal tempo, e delle verità già scoperte da altri, e deducendone nuove conseguenze, e seguitando la fabbrica già cominciata, e adoprando i materiali già preparati.

Se noi potessimo interrogare i sommi scopritori delle più sublimi, profonde ed estese [1349]verità, sapremmo quante poche di queste scoperte si debbano ai lumi somministrati dalle età precedenti; quanti di detti geni, per l’ordinario intolleranti degli studi, abbiano ignorate le verità già scoperte ec.; quanti abbiano ritrovate le grandi verità che hanno manifestate al mondo, non prevalendosi delle cognizioni altrui, ma da loro stessi, e in seguito de’ soli loro pensieri; e piuttosto dopo ritrovate, si siano accorti ch’elle erano conseguenze delle già conosciute, di quello che ne le abbiano dedotte, e se ne sieno serviti, quantunque dopo trovate, ne abbiano considerati e mostrati i rapporti ec. ec. ec. Esempio di Pascal ec. Bacone aveva già scoperto tante verità che fanno stupire i moderni più profondi e illuminati. Ora egli scriveva nel tempo del rinascimento della filosofia, anzi era quasi il primo filosofo moderno: e quindi il primo vide assai più che non saprebbero vedere infiniti suoi successori, con tutti i lumi in seguito acquistati.

Qual è dunque la ragione per cui lo spirito umano, ha trovate ne’ due ultimi secoli, tante verità profondissime, tanto ignote a tutti i passati? Dico la ragione principale, giacchè quella che ho detta, benchè certo sia una ragione, non è però principale, o certo non è universale. Ora trattandosi che fra tanti sommi spiriti antichi nessuno si è pure accostato alle verità, che molti e certo parecchi moderni hanno scoperto, o del tutto o massimamente da [1350]loro, bisogna trovarne delle ragioni universali, cioè intere, e necessarie, e che spieghino tutto l’effetto. Io penso che sieno queste.

1.   La differenza delle lingue, e la maggiore o minor copia de’ termini, maggiore o minor precisione e universalità loro, e certezza di significato e stabilità. V. Sulzer, negli Opuscoli interessanti di Milano, vol.4. p.65-70. 79-80. La maggiore o minor copia di parole esprimenti idee chiare ec. v. ib. p.53-54. Una delle grandi ragioni per cui i greci negli studi astratti e profondi (sì filosofici che gramatici ec. ec. ec.) come in ogni altro genere di cognizioni andarono avanti a tutti gli antichi, ai latini ec. io credo certo che sia la gran facilità che aveva la loro lingua ad esprimere, ed esprimere precisamente le nuove cose, le nuove e particolari idee di ciascuno. Facilità che si sperimenta anche oggi nell’attingere da quella lingua a preferenza di ogni altra i nomi delle nuove o più precise e sottili cose ed idee, e le intere nomenclature ec.

Per questa parte il tempo ha giovato certo alla scoperta delle nuove verità, perchè le cognizioni influiscono sulla lingua, come questa su [1351]quella. Ma ha giovato mediatamente, e io vengo a dire, che i moderni inventori non si sono tanto giovati immediatamente delle cognizioni già preparate, quanto di quella lingua che avevano, la quale a differenza delle antiche, era sufficiente a fissare e determinare nella loro mente le idee nuove che concepivano, a dichiararle, cioè renderle chiare, costanti e non isfuggevoli ad essi stessi ec. ec.

2.   Le nuove nazioni che si son date al pensiero. L’antica coltura fu tutta meridionale. Il settentrione anticamente non sapeva ancora pensare, o non aveva tempo nè comodo, o se pensava, non iscriveva nè comunicava, nè stabiliva e determinava i pensieri colla scrittura. Il settentrione, l’Inghilterra, la Germania, patria del pensiero (Staël), è nuovo e moderno in quella filosofia ch’è pur fatta per lui. Nuovo e moderno perchè quella stessa natura che lo rende sì proprio alle nozioni astratte, lo rende più difficile e tardo alla civiltà. E per se stessa l’allontana tanto dalla filosofia, quanto poi ve lo conduce coll’ajuto della coltura. [1352]Ma appena si diede alla filosofia, vi fece tali progressi, quali il mezzogiorno in tanta maggior luce di civiltà e di letteratura, non sognava ancora di fare. Bacone detto di sopra era inglese. Leibnizio tedesco. Newton, Locke ec. La Germania elevata assai dopo l’Inghilterra, cioè dopo Federico II ad una universale e stabile letteratura, è divenuta in un momento la sede della filosofia astratta, ec.

3.   E questa è la ragione principale. Differenza naturale d’ingegno fra gli antichi e i moderni è assurdo il supporlo. Ma ben è certissimo che le circostanze modificano gl’ingegni in maniera che li fanno sembrare di diversa natura. Or quanto le moderne circostanze degli uomini, sì fisiche, che morali, politiche ec. favoriscano la riflessione e la ragione, e quanto le antiche circostanze giovando sommamente e promovendo l’immaginazione, sfavorissero la profonda riflessione, l’ho già spiegato molte volte. Laonde io dico che un uomo di genio il quale venti o più secoli fa si fosse trovato nelle circostanze in cui si trova oggi il particolare, non ostante la differenza dei lumi, e il minor numero delle cognizioni, avrebbe [1353]potuto arrivare da se stesso appresso a poco a quel punto a cui sono arrivati i moderni filosofi e metafisici sommi, o se non altro accostarsi moltissimo a quelle verità che gli antichi o non hanno pur travedute, o per difetto della lingua ec. non hanno potuto determinare, nè comunicare altrui, nè fissare nella stessa lor mente. Ma un tal uomo in tali circostanze, si sarebbe probabilmente formata anche una lingua sufficiente. ec. Questo è confermato dal vedere 1. che tra gli antichi, in piccole differenze di tempi e di lumi, si trovano grandissime differenze di pensare e di filosofia, secondo le diverse circostanze. Quanto è distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio l’anno 17. nacque Tacito secondo il Lipsio (Vit. Taciti) verso il 54. di Cristo, cioè 37 anni dopo. Quanto progresso potevano aver fatto le cognizioni universali ec. e lo spirito umano generalmente, in sì poco tempo? Eppure qual differenza di profondità. Anzi si può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno. 2. che tra i moderni si trovano pure le stesse differenze in un medesimo tempo ec. per diverse circostanze di vita. Chi non sa che l’uomo, e l’ingegno, e i parti e i frutti dell’ingegno, tutto è opera delle circostanze?

[1354]Da queste osservazioni deducete che siccome le circostanze presenti sì favorevoli alla riflessione, e alla investigazione degli astratti, non sono naturali, così la natura aveva ben provveduto anche allo stato sociale dell’uomo, anche a quelle verità che dovevano giovare a questo stato, e servirgli di base; verità ben note agli antichi, tanto meno profondi di noi. Che giovano finalmente le verità astratte, quando anche in un eccesso di metafisica, la mente umana non si smarrisse? Quanto erano più utili quelle verità che io stabiliva circa la politica ec. di queste più metafisiche, alle quali ora mi porta l’avanzamento, e il naturale andamento e assottigliamento successivo del mio intelletto! Così che si può dire che la filosofia (intendendo la morale ch’è la più, e forse la sola utile) era, quanto all’utilità, già perfetta al tempo di Socrate che fu il primo filosofo delle nazioni ben conosciute; o vogliamo dire al tempo di Salomone. Ed ora benchè tanto avanzata, non è più perfetta, anzi meno, perchè soverchia, e quindi corrotta anch’essa, corrotta anche la ragione, come la civiltà e la natura. [1355]Corrotta, dico, per eccesso, come queste ec. Giacchè la perfezione o imperfezione e corruzione, si deve misurare dal fine di ciascheduna cosa, e non già assolutamente.

(20. Luglio 1821.)

Una cosa è tanto più perfetta quanto le sue qualità sono meglio ordinate al suo fine. Questa perfezione evidentemente relativa, si può misurare, e paragonare anche con perfezioni d’altri generi. Ma la maggiore o minor perfezione dei diversi fini come si può misurare? come si possono comparare i diversi fini? Che ragione assoluta, che norma comparativa esiste indipendentemente da checchessia, per giudicare questo fine più perfetto o migliore di quello, fuori di un medesimo sistema di fini? (Giacchè dentro un medesimo sistema, i fini subalterni si possono paragonare: non sono però veramente fini, ma mezzi, e parti, e qualità anch’essi del sistema.) Come dunque si può assolutamente giudicare della maggiore o minor perfezione astratta delle cose? E come può sussistere un bene o un male assoluto, una bontà o bellezza assoluta, o i loro contrari?

(20. Luglio 1821.)

[1356]Un viso bellissimo, il quale abbia qualche somiglianza con una fisonomia di nostro controgenio, o che abbia l’idea, l’aria di un’altra fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello.

(20. Luglio 1821.)

È cosa già nota che la letteratura e poesia vanno a ritroso delle scienze. Quelle ridotte ad arte isteriliscono, queste prosperano; quelle giunte a un certo segno, decadono, queste più s’avanzano, più crescono; quelle sono sempre più grandi più belle più maravigliose presso gli antichi, queste presso i moderni; quelle più s’allontanano dai loro principii, più deteriorano, finchè si corrompono, queste più son vicine ai loro principii più sono imperfette, deboli, povere, e spesso stolte. La cagione è che il principal fondamento di quelle è la natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un certo punto) ma si corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo per crescere, ed avanza in proporzione de’ secoli, e dell’esperienza. La qual esperienza è maestra della ragione, nutrice, educatrice della ragione, e omicida della natura. Così dunque accade rispetto alle lingue. [1357]Quelle qualità loro che giovano per l’una parte alla ragione, e per l’altra da lei dipendono, si accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono dalla natura, decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano in precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine, regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò ch’è bellezza, perdono sempre quanto più s’allontanano, da quello stato che costituisce la loro primitiva forma. La combinazione della ragione colla natura accade quando elle sono applicate alla letteratura. Allora l’arte corregge la rozzezza della natura, e la natura la secchezza dell’arte. Allora le lingue sono in uno stato di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione avanza, e avanzando la ragione, la natura retrocede. L’arte non è più contrabbilanciata. La precisione predomina, la bellezza soccombe. Ecco la lingua che avendo perduto il suo primitivo stato di natura, e l’altro più perfetto di natura regolata, o vogliamo dire formata, cade [1358]nello stato geometrico, nello stato di secchezza, e di bruttezza. (La lingua francese nella sua formazione, si accostò fin d’allora, per le circostanze del tempo, a quest’ultimo stato, perchè prevalse in essa la ragione, e l’equilibrio fra l’arte e la natura, nella lingua francese non vi fu mai, o non mai perfetto.) I filosofi chiamano questo stato, stato di perfezione, i letterati, stato di corruzione.

Nessuno ha torto. Quelli che hanno a cuore la bellezza di una lingua, hanno ragione di essere malcontenti del suo stato moderno, e saviamente la richiamano a’ suoi principii; voglio dire al tempo della sua formazione, e non più là, che questo pazzamente si pretende, e volendo rigenerare la lingua, anche quanto alla bellezza, si fa l’opposto, perchè si caccia da un estremo ad un altro: e negli estremi la bellezza non può stare, bensì nel mezzo, e in quel punto in cui ella è formata e perfezionata. Quelli a’ quali preme che la lingua serva agl’incrementi della ragione, raccomandano la precisione, promuovono la ricchezza de’ termini, fuggono e scartano le voci e frasi ec. che sono belle ed eleganti con danno della sicurezza [1359]e chiarezza e facilità ec. della espressione; ed odiano l’antica forma, insufficiente e dannosa allo stabilimento e comunicazione delle profonde e sottili verità.

Come dunque faremo? L’andamento delle cose umane, è questo; questo l’andamento delle lingue. La perfezione filosofica di una lingua può sempre crescere; la perfezione letterata, dopo il punto che ho detto, non può crescere (eccetto ne’ particolari) anzi non può se non guastarsi e perdersi. Tutti due hanno ragione, e grandissima. Converrebbe accordarli insieme. La cosa è difficile, ma non impossibile. Una lingua, massime come la nostra (non così la francese), può conservare o ripigliare le antiche qualità, ed assumere le moderne. Se gli scrittori saranno savi, ed avranno vero giudizio, il mezzo di concordia è questo.

Dividersi perpetuamente i letterati e i poeti, da’ filosofi. L’odierna filosofia che riduce la metafisica, la morale ec. a forma e condizione quasi matematica, non è più compatibile con la letteratura e la poesia, com’era compatibile quella de’ tempi ne’ quali fu formata la lingua nostra, la latina, la greca. (Ho già detto che la francese non ha vera letteratura nè poesia, eccetto quella letteratura epigrammatica e di conversazione, ch’è loro propria, e dove riescono assai bene; che il resto è piuttosto filosofia che letteratura.) La filosofia di Socrate poteva e potrà sempre [1360]non solo comparire, ma infinitamente servire alla letteratura e poesia, e gioverà pur sempre agli uomini più dell’odierna (v. p.1354.), dalla quale non negherò che non possa ricevere qualche miglioramento, quasi accessorio, o quasi rifiorimento. Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ec. non potrà mai stare colla letteratura nè colla vera poesia. La filosofia di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed è tutta ragione. Perciò nè essa nè la sua lingua è compatibile colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socrate. È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna all’uomo sociale. Si dividano dunque le lingue, e la nostra che tante ne contiene, e così diverse anche dentro uno stesso genere, potrà ben contenere allo stesso tempo una lingua bella, e una lingua filosofica. Ed allora avrà una filosofia, e seguirà ad avere quella poesia, e quella letteratura nella quale ha sempre superato tutte le moderne.

Conosco bene che l’età del vero non è quella del bello: e che un secolo o un terreno fecondo di grandi intelletti, difficilmente sarà fecondo di grandi immaginazioni e sensibilità, perchè gl’ingegni degli uomini si modificano secondo le circostanze. In tal caso sarà sempre costante che siccome questa è l’età del vero, bisogna che la lingua nostra assuma le qualità che servono al vero, e ch’ella non ebbe mai. Quando però l’Italia, terra del bello e del grande, possa pur continuare [1361]a produrre ingegni atti alla letteratura e alla poesia, l’unico mezzo di fare che anche questi abbiano o seguano ad avere una lingua, e non pregiudicata dalla natura del secolo, è quello che ho detto.

(20. Luglio 1821.)

Tutto ciò si deve applicare non solo alle lingue, ma alle letterature ancora, la cui perfezione parimente consiste in quel punto che ho detto delle lingue, ec. ed alle quali parimente conviene separarsi dalla moderna filosofia, ed ai letterati non esser filosofi alla moderna, non solo nelle scritture, ma, se è possibile, neppur nell’animo ec.

(21. Luglio 1821.)

Oéd¢n toè ÷lou, rien du tout, pas (che val propriamente nulla) du tout.

(21 Luglio 1821.)

Chi vuol vedere la differenza fra l’amor patrio antico e moderno, e fra lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra l’idea che s’aveva anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec. consideri la pena dell’esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed ultima pena de’ cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e [1362]spesso ridicola. Nè vale addurre la piccolezza degli stati. Presso gli antichi l’essere esiliato da una sola città, fosse pur piccola, povera, infelice quanto si voglia, era formidabile, se quella era patria dell’esiliato. Così forse anche oggi nelle parti meno civili; o più naturali, come la Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio è ben noto ec. Oggi l’esilio non si suol dare veramente per pena, ma come misura di convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una persona, per impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine principale dell’esiliare, era il gastigo dell’esiliato. ec. ec. (21. Luglio 1821.). La gravità della pena d’esilio consisteva nel trovarsi l’esiliato privo de’ diritti e vantaggi di cittadino (giacchè altrove non poteva essere cittadino), i quali anticamente erano qualche cosa.

Tutte le battaglie, le guerre ec. degli antichi, stante il sistema dell’odio nazionale, che altrove ho largamente esposto, erano disperate, e con quella risoluzione di vincere o morire, e con quella certezza di nulla guadagnare o salvare cedendo, che oggi non si trovano più.

(21. Luglio 1821.)

Mess. ad uno che gli esponeva la sua passione per una donna, Ma ella, disse, è tua rivale. Soleva dire che tutte le donne sono ardentissime rivali de’ loro amanti.

(21. Luglio 1821.)

[1363]Alla p.1347. marg. Così anche cadono necessariamente nell’i il ch, il ge e gi, e lo j francesi. Così pure il nostro e latino sci o sce, che sono suoni distinti, e ben diversi da quello della s e del c schiacciato, qual è p.e. il suono di s e c in excitare; e molto più da quello della s e del c duro. Il ge e gi de’ francesi, e il loro j sono pure nello stesso modo ben differenti dal suono di s e g qual è p.e. in disgiunto. Il detto suono francese a noi manca, mancava ai latini, ai greci, manca agli spagnuoli ec. Manca pure (ch’io sappia) agli spagnuoli il nostro sci o sce, francese ch, inglese sh. Del resto il c e g schiacciato, e tutti gli altri suoni affini a questi, mancarono e mancano ai greci. Mancano pure detti suoni ai francesi, che però hanno gli altri suoni affini che abbiamo veduto. Manca quello del gi o ge italiano e latino agli spagnuoli. Tedeschi, inglesi ec.

(21. Luglio 1821.)

I greci ponevano nella stessa Roma iscrizioni greche, quali sono le famose Triopee fatte porre da Erode Attico, benchè trattino di oggetti, si [1364]può dir, tutti e del tutto romani.

(21.Luglio 1821.)

Noi facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o compensabili ec. le disgrazie che ci accadono, le privazioni ec. perchè conosciamo e sentiamo il nulla del mondo, la poca importanza delle cose, il poco peso degli uomini che ci ricusano i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i quali giudicavano tanto importanti le cose del mondo, e gli uomini, da credere che i morti e gl’immortali se ne interessassero sopra qualunque altro affare.

(21. Luglio 1821.)

Sopravvenendo un mal minore a un maggiore, o viceversa, sogliamo dire, Se potessi liberarmi, ovvero, se non mi travagliasse questo male così grave, terrei per un nulla questo leggero. E accadrebbe in verità l’opposto: che ci parrebbe assai maggiore che or non ci pare.

(21. Luglio 1821.)

La facoltà imitativa è una delle principali parti dell’ingegno umano. L’imparare in gran parte non è che imitare. Ora la facoltà d’imitare non è che una facoltà di attenzione esatta e [1365]minuta all’oggetto e sue parti, e una facilità di assuefarsi. Chi facilmente si assuefa, facilmente e presto riesce ad imitar bene. Esempio mio, che con una sola lettura, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomicisi subito l’immaginazione, e a rifarlo ec. Così leggendo un libro in una lingua forestiera, m’assuefacevo subito dentro quella giornata a parlare, anche meco stesso e senza avvedermene, in quella lingua. Or questo non è altro che facoltà d’imitazione, derivante da facilità di assuefazione. Il più ingegnoso degli animali, e più simile all’uomo, la scimia, è insigne per la sua facoltà e tendenza imitativa. Questa principalmente caratterizza e distingue il suo ingegno da quello delle altre bestie. Ampliate questo pensiero, e mostrate la gradazione delle facoltà organiche interiori, nelle diverse specie di animali fino all’uomo; e come tutta consista in una maggiore o minor facoltà di attendere, e di assuefarsi, la qual seconda facoltà, deriva in gran parte, ed è molto giovata dalla prima, e sotto qualche aspetto è tutt’uno.

(21. Luglio 1821.). V. p.1383. capoverso 2.

La grazia bene spesso non è altro che [1366]un genere di bellezza diverso dagli ordinari, e che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e grazioso (che la grazia è sempre nel bello). A quelli a’ quali quel genere non riesca straordinario, parrà bello ma non grazioso, e quindi farà meno effetto. Tale è p.e. quella grazia che deriva dal semplice, dal naturale ec. che a noi in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri costumi e assuefazione ec., ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è l’impressione che a noi produce la semplicità degli scrittori greci, v. g. Omero, da quella che produceva ne’ contemporanei. A noi par graziosa, (v. Foscolo nell’articolo sull’Odissea del Pindemonte; dove parla della sua propria traduzione del I. Iliade) perchè divisa da’ nostri costumi, e naturale. Ai greci contemporanei, appunto perchè naturale, pareva bella, cioè conveniente, perchè conforme alle loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo meno che a noi. Quante cose in questo genere paiono ai francesi graziose, che a noi paiono soltanto belle, o non ci fanno caso in verun conto! A molte cose può estendersi questo pensiero.

(21. Luglio 1821.)

Non basta che Dante, Petrarca Boccaccio siano stati tre sommi scrittori. Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando pur [1367]fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d’oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero ebbe mai, non dirò la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, ma il mondo? E tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d’oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d’Omero: (v. se vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta ec. vol.2. par.1. appendice.) quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero, che non è l’italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata (siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto meno tempo dell’italiana, ch’è pur lingua moderna, e spetta (necessariamente) al genere moderno.

(22. Luglio 1821.). V. p.1384. fine.

Quanti diversi gusti e giudizi negli stessi uomini circa la stessa bellezza delle donne! Lasciando da parte la passione di qualsivoglia sorta, fra gli uomini più indifferenti, questi dirà, la tale è bellissima, quegli, è bella, quest’altro [1368]è passabile, quell’altro, non mi piace, quell’altro, è brutta. Non si troverà una donna sola della cui bellezza o bruttezza tutti gli uomini convengono, se non altro sul più e sul meno. Quanto più discorda il giudizio delle donne! Così dico della bellezza degli uomini ec. Dov’è dunque il bello assoluto? Se neppur si può trovare dove par che la natura stessa l’insegni più che in qualunque altro caso ec.

(22. Luglio 1821.)

Che cosa è il polito e il sozzo, il mondo e l’immondo? Che opposizione anzi che differenza assoluta possiamo trovare fra queste qualità contrarie? Sozzo è quello che dà noia ec. polito l’opposto. Bene, ma a quella specie, a quell’individuo dà noia una cosa, a questo un’altra. Oggi la tal cosa mi dà noia, domani no. In questa circostanza no, in questa sì. Nulla è dunque per se medesimo ed assolutamente nè mondo nè immondo. Ma noi secondo la solita opinione dell’assoluto, pigliamo per esemplare d’immondizia il porco, il quale è tanto mondo quanto qualunque altro animale, perchè quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a noi fanno noia, a lui nè a suoi simili non danno noia; e quindi per la [1369]sua specie non sono sozze. Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei, molte cose per noi pulitissime. (22. Luglio 1821.). Di cento altre qualità dite lo stesso che del mondo e immondo.

Qual è stato naturale? quello dell’ignorante, o quello dell’artista? Ora l’ignorante non conosce nè sente quasi nulla del bello d’arte, poco ancora del bello naturale, e d’ogni bello ec. Un uomo affatto rozzo, appena sarà tocco dalla musica più popolare. Anche alla musica si acquista gusto coll’assuefazione sì diretta come indiretta. E pur la musica sembra quasi la più universale delle bellezze ec. Ora dico io. Il bello non è bello se non in quanto dà piacere ec. Una verità sconosciuta è pur verità, perchè il vero non è vero in quanto è conosciuto. La natura non insegna il vero, ma se ha da esistere il bello assoluto, non lo possiamo riconoscere fuorchè in un insegnamento della natura. Or come sarà assoluto quel bello che, se l’uomo non è in condizione non naturale, non può produrre l’effetto suo proprio, indipendentemente dal quale nessuno può pur concepire che cosa sia nè possa [1370]essere il bello?

(22. Luglio 1821.)

Non solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e perciò è difficile ad assuefarsi, e ad imparare. Chi ha molto imparato più facilmente impara, sempre proporzionatamente alle facoltà o disposizioni de’ suoi organi, che variano secondo gl’ingegni, le circostanze fisiche passeggere o stabili, le altre circostanze esteriori o interiori, l’età massimamente ec. ec. Dico, più facilmente impara, o in quello stesso genere di cose, cioè in un tal genere al quale i suoi organi siano più disposti, e quindi più facili ad assuefarsi; ovvero in altri generi, o in qualunque altro genere, perchè ogni assuefazione influisce sulla facilità generale di assuefarsi, e quindi d’imparare, di conoscere, di abilitarsi interiormente o esteriormente ec. L’apprendere, quanto alla memoria, non è che assuefarsi, ma esercitando [1371]la memoria, si acquista la facilità di questa assuefazione, cioè d’imparare a memoria. I fanciulli mancando ancora di esercizio, poco sanno imparare a memoria, ma cominciando da poche righe, arriveranno ben presto ad imparare libri intieri, perchè i loro organi sono meglio disposti all’assuefazione che quelli d’ogni altra età, e per isviluppare questa facoltà non hanno bisogno che di esercitarla, cioè di assuefarla essa stessa. Tutto in somma nell’uomo è assuefazione. E seppure esistono differenze d’ingegni, cioè organi più o meno disposti ad attendere ed assuefarsi, ad assuefarsi a questa o quella cosa, a più o meno cose, o a tutte; la qual differenza anch’io stimo ch’esista; ella è però tale che le diverse assuefazioni possono affatto cancellarla, e rivolgerla anche al contrario, cioè render l’uomo di piccolo ingegno, assai più penetrante ec. ec. e in somma di maggiore ingegno, che l’uomo del più grande ingegno naturale. E ciò non solo nelle cose ed assuefazioni materiali, o negli studi esatti ec. ma anche nelle discipline più sottili, anche nelle cose spettanti alla immaginazione e al genio. [1372]L’uomo insomma principalmente, e dopo l’uomo gli altri viventi, i loro ingegni, cognizioni, abilità, facoltà, opinioni, pensieri, detti, fatti, le loro qualità, non in quanto ingenite, ma in quanto sviluppate (ch’è come dire, non in potenza, ma in atto, perchè le qualità non isviluppate son come non esistessero, oltre le infinite modificazioni, onde sono suscettibili di parere diversissime ed anche opposte qualità) sono figli nati dell’assuefazione.

(22. Luglio 1821.)

È verissimo che la chiarezza dell’espressione principalmente deriva dalla chiarezza con cui lo scrittore o il parlatore concepisce ed ha in mente quella tale idea. Quel metafisico il quale non veda ben chiaro in quel tal punto, quello storico il quale non conosca bene quel fatto ec. ec. riusciranno oscurissimi al lettore, come a se stessi. Ma ciò specialmente accade quando lo scrittore non vuole nè confessare, nè dare a vedere che quella cosa non l’intende chiaramente, perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo fare che il lettore le veda nello stesso modo, e ci esprimeremo sempre con chiarezza, se faremo vedere al lettore qualunque idea tal quale noi la concepiamo, e tal quale sta e giace nella nostra mente. Perchè l’effetto della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un’idea chiara di una cosa in se stessa, ma un’idea chiara dello stato preciso della nostra mente, o ch’ella veda chiaro, o veda scuro, giacchè [1373]questo è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della scrittura o dell’espressione propriamente considerata, e in se stessa.

Ora io dico, che tolta la detta mala fede, e tolta l’ignoranza e incapacità di esprimersi, la quale influisce tanto sulle idee chiare di chi scrive o parla, quanto sulle oscure; il veder chiaro (se non altro, assai spesso) pregiudica alla chiarezza dell’espressione, in luogo di giovarle. Chi non vede chiarissimo, p. e. un filosofo il quale non sia ancora pienamente assuefatto alla sottigliezza delle idee, purchè non abbia la detta mala fede, e possieda l’arte dell’espressione, si studia in tutti i modi di rischiarar la materia, non solo al lettore, ma anche a se stesso, e se non ha parlato chiarissimamente, se non ha per ogni parte espresso lo stato delle sue concezioni, non è contento, perch’egli stesso non s’intende, e quindi sente bene che non sarà inteso, il che nessuno scrittore precisamente vuole, se non in caso di mala fede, o in qualche straordinaria circostanza.

[1374]Ma quando il filosofo (per seguire collo stesso esempio) è pienamente entrato nel campo delle speculazioni, quando s’è avvezzato a veder la materia da capo a fondo, n’è divenuto padrone, e vi si spazia coll’intelletto a piacer suo, o almeno vi passeggia per entro con franchezza, trova chiarezza in ogni cosa, s’è abituato alla lettura degli scritti più sottili, a penetrarli intimamente a quel gergo filosofico ec.: allora ha bisogno di una particolare e continua avvertenza per riuscir chiaro, e gli si rende più difficile e più lontana dall’uso la chiarezza, perchè intendendosi egli subito, crede che subito sarà inteso, misura l’altrui mente dalla sua, ed essendo sicuro delle sue idee, non ha più bisogno di fissarle e dichiararle in certo modo anche a se stesso; preferisce quelle proposizioni, quelle premesse, quelle circostanze, quelle legature de’ ragionamenti, quelle prove o confermazioni o dilucidazioni, quelle minuzie, che perchè a lui son ovvie, crede che da tutti saranno sottintese; abusa di quel gergo (necessario però in se stesso ec. ec.). Questo può accadere, e spesso accade, anzi tutto giorno, in una particolar materia, dove lo scrittore o parlatore abbia un’assoluta chiarezza, padronanza, abito di concezione. ec.

E di quanto dico si può vedere quotidianamente l’esempio ne’ discorsi delle persone colte, illuminate, e ben capaci di esprimersi. Ponete due persone di questo genere, e vedrete ordinariamente che quella la quale possiede quella materia alquanto meno, spiega perfettamente le sue idee, e le rischiara molto negli altri; quella che l’ha [1375]tutta sulle dita, lascia molto più a desiderare, benchè non volendo, e benchè capacissimo di chiarezza nelle altre cose. E quindi è giornaliero il lagnarsi della oscurità con cui ragionano delle loro discipline ec. quelli che le professano. Il che si può considerare anche sotto questo aspetto.

Coloro che non fanno professione, o non sono pienamente pratici e versati in qualche facoltà, credono obbligo loro, e si propongono nel trattarla, di parlare o scrivere a tutti. Ma quelli che le professano, intendono (anche senza determinata volontà) di parlarne o scriverne ai professori. Il che se può comportarsi in altre scienze o discipline, non deve aver luogo nella filosofia morale o metafisica ec. e in tutte quelle cognizioni che benchè astratte o sottili ec. devono però esser trattate non per una particolar classe di persone, ma per tutti, anzi più per quelli che le ignorano, o poco le conoscono, che per li periti.

È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purchè [1376]abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.

E quello che ho detto accade perchè pochi fra gli stessi più dotti, sono capaci di rintracciare minutamente, ed avere esattamente presenti le origini, i progressi, il modo dello sviluppo, insomma la storia delle loro proprie cognizioni e pensieri, del loro sapere, del loro intelletto. Questo è proprio solamente de’ sommi spiriti, i cui progressi benchè derivati necessariamente dalle assuefazioni, dalle circostanze, e dal caso, pur furono [1377]meno materiali e casuali che quelli degli altri anche insigni. E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.

(23. Luglio 1821.)

Il sommo grado della ragione consiste in conoscere che quanto ella ci ha insegnato al di là della natura, tutto è inutile e dannoso, e quanto ci ha insegnato di buono, tutto già lo sapevamo dalla natura; e l’avercelo essa fatto disimparare, e poi tornare a impararlo e a crederlo, ci ha sommamente nociuto, non solo per quel frattempo, ma irreparabilmente per tutta la vita, perchè gl’insegnamenti ricevuti dalla ragione, quantunque conformi ai naturali, non hanno più di gran lunga la forza nè l’utilità di quelli ricevuti dalla natura, e vengono da cattiva fonte e velenosa alla vita, anzi vengono dalla morte, invece di venir dalla vita ec.

(23. Luglio 1821.)

[1378]L’animale assalito o in se stesso, o nelle cose sue care massimamente, non fa i conti s’egli possa o non possa resistere, se la resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il cedere, se il pericolo sia grande o piccolo, se le forze competano, se il resistere gli possa portare un male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte con tutte le sue forze, ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate i pulcinelli ad una gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli artigli, e vi farà tutto il male che saprà. Così facevano le antiche nazioni ancorchè piccolissime contro grandissime, come ho detto altrove. Similmente dico dei privati rispetto ai più forti o potenti ec. V. il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla della fortezza delle bestie, e il Segneri Incredulo dove parla delle loro guerre. È vergognoso che il calcolo ci renda meno magnanimi, meno coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la grand’arte del computare, sì propria de’ nostri tempi, giovi e promuova la grandezza delle cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi, dell’uomo.

(23. Luglio 1821.)

La facilità, anzi quasi la facoltà di attendere che tanto è necessaria all’assuefazione, o la facilita, l’abbrevia, e la produce, anch’essa però si accresce e perfeziona, e quasi nasce mediante l’assuefazione.

(23. Luglio 1821.)

[1379]Siccome la parte dell’uomo alla quale più si attende, è il viso, però il fanciullo non ha quasi mai un’idea formata della bellezza o bruttezza delle persone, se non quanto al viso, e questa è la prima idea della bruttezza umana, ch’egli concepisce: su questa idea si giudica per lungo tempo della bellezza o bruttezza delle persone. Anzi è osservabile che finchè l’uomo non ha cominciato a sentire distintamente la sensualità, non concepisce mai un’idea esatta de’ pregi o difetti de’ personali; che in quel tempo cominciando ad osservarli, comincia a formarsi un’idea del bello su questo punto, ma non arriva a compierla se non dopo un certo spazio; che le persone eccessivamente continenti sono ordinariamente di giudizio così poco sicuro intorno alla detta bellezza, come quelle eccessivamente incontinenti, secondo ho detto in altro pensiero; che generalmente le donne siccome pel loro stato sociale sono necessitate a maggior castità degli uomini, ed hanno un abito esteriore ed interiore di maggior ritenutezza, e meno rilassatezza ec. perciò sono prese dalla bellezza del viso degli uomini, rispetto al personale, più di quello che lo sieno proporzionatamente gli uomini [1380]dal viso delle donne in comparazione del personale (e similmente dico della bruttezza). È pure osservabile che dall’assuefazione naturale di osservare il viso più delle altre parti, deriva in parte 1. l’aver noi sempre idea più chiara della bellezza o bruttezza di quello che di queste, o generalmente prese, cioè del personale, o particolarmente, come delle mani ec. che pur sono ugualmente scoperte. 2. la preferenza e l’importanza che noi diamo alla bellezza o bruttezza del viso sopra il resto, e l’attendere massimamente al viso, sia nell’osservare, sia nel giudicare del bello o del brutto, la quale assuefazione ci dura per tutta la vita. E che ciò non derivi solamente dalle proprietà naturali del viso, osservatelo ne’ selvaggi che vanno ignudi, e che certo attendono assai più di noi all’altre parti, e n’hanno più certo, chiaro, e ordinario discernimento di bello o brutto; osservatelo ne’ libidinosi i quali preferiranno sempre una donna di bel personale ec. e di mediocre viso, o anche non bello, alla più bella faccia, e mediocre o non bella persona. E la preferenza che si dà [1381]alle forme del viso, e la maggiore o minore attenzione che vi si pone, va sempre in proporzione della maggiore o minore abitudine di riserva o di licenza, sì negli uomini sì nelle donne. E gli amori sentimentali, di cui gli sfrenati non sono capaci, derivano sempre assai più dalle forme del viso, che della persona ec. ec. È osservabile finalmente che il giudizio delle donne circa la bellezza o bruttezza sì del viso come della persona, nel loro sesso, tarda sempre più a formarsi che quello degli uomini, e non arriva mai a quel punto, e così degli uomini viceversa. Nel che è pur nuovamente osservabile che quel giudizio sul bello o brutto umano che possono acquistare i fanciulli prima della sensualità qualunque, è presso a poco egualmente e indifferentemente formato circa il loro sesso, che circa l’altro. Dico presso a poco, perchè un’alquanto maggiore inclinazione al sesso differente, si fa sentire all’uomo sino da’ primissimi anni, e questa produce sempre in lui un’alquanto maggiore osservazione circa quel sesso ec. ec.

(23.Luglio 1821.)

[1382]Il soddisfare a un bisogno, il liberarsi da un incomodo è molto maggior piacere che il non provarlo. Anzi questo non è piacere, quello sì, e lo è bene spesso semplicemente in quanto alla sola soddisfazione del bisogno ec. quantunque nell’azione che vi soddisfa, la natura non abbia posto alcun piacere particolare distinto e indipendente, come l’ha posto p.e. nel cibarsi. E va per lo più in ragione della maggiore o minore intensità del bisogno ec.

(24. Luglio 1821.)

Alla mia teoria del piacere aggiungi che quanto più gli organi del vivente sono suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è maggiore la vita naturale del vivente, tanto più sensibile e vivo è l’amor proprio (ch’è quasi tutt’uno colla vita) e quindi il desiderio della felicità ch’è impossibile, e quindi l’infelicità. Così accade dunque agli uomini rispetto alle bestie, così a queste pure gradatamente, così agl’individui umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri individui della stessa specie. E l’uomo anche in natura, è quindi ben conseguentemente, il più infelice degli animali (come vediamo), perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che gli altri viventi.

(24. Luglio 1821.)

[1383]Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile, e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare.

(24. Luglio 1821.)

Alla p.1365. fine. La memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacchè ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi contraffacendole); e acquistano l’abilità di farla, mediante un’apposita e particolare assuefazione, diversa dalla generale, o esercizio della memoria, di cui v. p.1370. seg. Così dico delle altre imitazioni, e assuefazioni, che sono quasi imitazioni ec. Tanto più che quasi ogni assuefazione e quindi ogni attitudine abituale acquisita della mente, dipende in gran parte dalla memoria ec.

(24. Luglio 1821.)

Dal sopraddetto si vede che la proprietà della memoria non è propriamente di richiamare, il che è impossibile, trattandosi di cose poste fuori [1384]di lei e della sua forza, ma di contraffare, rappresentare, imitare, il che non dipende dalle cose, ma dall’assuefazione alle cose e impressioni loro, cioè alle sensazioni, ed è proprio anche degli altri organi nel loro genere. E le ricordanze non sono richiami, ma imitazioni, o ripetizioni delle sensazioni, mediante l’assuefazione. Similmente (e notate) si può discorrere delle idee. Questa osservazione rischiara assai la natura della memoria, che molti impossibilmente hanno fatto consistere in una forza di dipingere, o ricevere le impressioni stabili di ciascuna sensazione o immagine ec. laddove l’impressione non è stabile, nè può. E v. in tal proposito quello che altrove ho detto delle immagini visibili delle cose, che senza volontà nè studio della memoria, ci si presentano la sera, chiudendo gli occhi ec. Effetto puro dell’assuefazione degli organi a quelle sensazioni e non già di una continuazione di esse.

(24. Luglio 1821.)

Alla p.1367. fine. Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu formata malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio, l’ultimo de’ tre quanto al tempo, s’ingannò grossamente, e fece un infelice tentativo nella [1385]prosa italiana, togliendole il diretto e naturale andamento della sintassi, e con intricate e penose trasposizioni infelicemente tentando di darle (alla detta sintassi) il processo della latina. (Monti, Proposta t.1. p.231.). Il che dimostra che dunque se in questi tre sommi si volesse anche riporre il perfezionamento ec. della lingua italiana poetica, (che è falsissimo) non si può nel trecento riporre, a cagione de’ 3. sommi, quello della lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può dirsi formata? La prosa è la parte più naturale, usuale, e quindi principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa. E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sì grande ingegno, scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole della lingua [1386]italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di modello a veruna prosa?

(25. Luglio 1821.)

Quanto la civilizzazione per sua natura tenda a conformare gli uomini e le cose umane, come questo sia l’uno de’ principali suoi fini, ovvero de’ mezzi principali per conseguire i suoi fini, si può vedere anche nella lingua, nell’ortografia, nello stile largamente considerato, nella letteratura ec. Tutte cose tanto [1387]più uniformi in una nazione, quanto ella è più civile, o si va civilizzando di mano in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana dalla civiltà perfetta, o più vicina a’ suoi i principj ec. E ne’ principii tutte queste cose furono sommamente varie, incerte, discordi, arbitrarie ec. presso qualunque nazione delle più colte oggidì. Lo stabilire e il formare o l’essere stabilita e formata una lingua un’ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè sia pur ella regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non è stabilita nè formata nè buona se non è uniforme nella nazione; e sia pure irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita ec. quando in quel tale stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata stabilmente e regolarmente dalla nazione. Allora l’irregolarità è regola, e nel caso contrario la regolarità è irregolare. (25. Luglio 1821.). V. se vuoi, p.1516 17.

Grazia che deriva dallo staordinario o dal contrasto. Voce alquanto virile nelle donne. È un gran ragoût, purchè non sia eccessivo. ec. ec.

(25. Luglio 1821.)

I giovani massime alquanto istruiti prima di entrare nel mondo, credono facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o leggono delle cose umane, ma nel particolare non mai. E il frutto dell’esperienza è persuadere a’ giovani, quanto alla vita umana, che il generale si verifica effettivamente in tutti o in quasi tutti i particolari, e in ciascuno di essi.

(25. Luglio 1821.)

[1388]Alla p.1262. al capoverso 1. Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le origini ultime delle parole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v’è azione o idea umana, o cosa veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che sia stata espressa con parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata per lei. Tutte simili cose, oltre che non sono state denominate se non tardi, quantunque fossero comunissime, usualissime e necessarie alla lingua, e alla vita ec.; non hanno ricevuto il nome se non mediante metafore, similitudini ec. prese dalle cose affatto sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque modo, e con qualsivoglia modificazione di significato o di forma, ad esprimere le cose non sensibili; e spesso sono restati in proprietà a queste ultime, perdendo il valor primitivo. Osservate p.e. l’azione di aspettare. Ell’è affatto esteriore, e materiale, ma siccome non cade precisamente sotto i sensi, perciò non è stata espressa nelle nostre lingue se non per via di una metafora presa dal guardare, ch’è azione tutta sensibile. V. la p.1106. Bensì questa metafora [1389]è poi divenuta parola propria, perdendo il senso primitivo.

Tale è la natura e l’andamento dello spirito umano. Egli non ha mai potuto formarsi un’idea totalmente chiara di una cosa non affatto sensibile, se non ravvicinandola, paragonandola, rassomigliandola alle sensibili, e così, per certo modo, incorporandola. Quindi egli non ha mai potuto esprimere immediatamente nessuna di tali idee con una parola affatto sua propria, e il fondamento e il tipo del cui significato non fosse in una cosa sensibile. Espresse poi, e stabilite e determinate queste simili idee mediante parole di tal natura, l’uomo gradatamente ha potuto elevarsi fino a concepire prima confusamente, poi chiaramente, poi esprimere e fissare con parole, altre idee prima un poco più lontane dal puro senso, poi alquanto più, e finalmente affatto metafisiche, e astratte. Ma tutte queste idee non le ha espresse se non che nel sopraddetto modo, cioè o con metafore ec. prese immediatamente dal sensibile, o con nuove modificazioni e applicazioni di quelle parole applicate già, come ho detto, a cose meno [1390]soggette ai sensi, facendosi scala da quelle applicazioni già fatte, ricevute e ben intese, ad altre più sottili, ed immateriali ec. Di maniera che i nomi anche modernissimi delle più sottili e rimote astrazioni, derivano originariamente da quelli delle cose affatto sensibili, e da nomi che nelle primitive lingue significavano tali cose. E la sorgente e radice universale di tutte le voci in qualsivoglia lingua, sono i puri nomi delle cose che cadono al tutto sotto i sensi.

È curioso l’osservare che il verbo sostantivo essere, sì necessario che senza esso non si può fare un discorso formato, ed esprimente un’idea sì universale, e appartenente a tutte le cose e le idee, nondimeno perch’ella è un’idea delle più astratte ed ultime (appunto a cagione della sua universalità, la quale dimostra ch’ella è idea elementare ec.) è imperfetto e irregolare, cred’io, per lo meno, in quasi tutte le lingue. Nella greca è anche sommamente difettivo, e non è supplito da voci prese d’altre radici, come lo è in latino, in sascrito, in persiano. Nell’ebraico il verbo hyh esse, existere, oltre ch’è quiescente, vale a dire imperfetto, ha miras anomalias, dice il Zanolini. La cagione di ciò (che non si può creder caso) può essere che questo verbo sia stato uno de’ primi inventati, a causa della sua necessità; e quindi confuso ed irregolare sì a causa della sua antichità, [1391]e delle poche regole a cui gli antichissimi lo potevano assoggettare, sì dell’astrazione sottigliezza, immaterialità, difficoltà insomma dell’idea che esprime, e che nessuno degli antichissimi parlatori potè concepir chiaramente. Simili osservazioni si ponno fare intorno ad altri verbi che sogliono essere anomali nelle lingue, quantunque diversissime, ed è notabile che questi sono ordinariamente i più usuali e necessari al discorso, come avere, potere ec. Ed appunto perciò sono anomali, perchè non sono così necessari, se non perchè esprimono idee universali, e le idee non sono universali se non perchè sono elementari ed astratte; ora le idee elementari ed astratte sono naturalmente le più difficili, anzi le ultime a raggiungersi, e a concepirsi chiaramente, e quindi ad essere formalmente e regolarmente espresse. (26. Luglio 1821.). Puoi vedere p.1205.

Ho detto in un pensiero a parte come l’incredulità spesso derivi da piccolezza di spirito. Aggiungo ora com’ella viene assai spesso da ostinazione, non solo di volontà, ma anche di spirito, il che è segno della sua piccolezza, la quale influisce poi anche sulla volontà e sulle determinazioni. È assai comune il vedere [1392]una persona ostinarsi immobilmente a negare una verità di fatto, o affermare una falsità di fatto, senza mai lasciarsi entrar nella mente un solo sospetto di potersi essere ingannato nel vedere ec. ec. Insomma l’incredulità bene spesso, anzi il più d’ordinario, non deriva se non da somma e stoltissima credulità. Per la credulità il piccolo spirito si persuade siffattamente della verità e certezza de’ suoi principii, del suo modo di vedere e giudicare, delle impossibilità ch’egli concepisce ec. che tutto quello che vi ripugna, gli sembra assolutamente falso, qualunque prova v’abbia in contrario; perchè la credulità che immobilmente lo attacca alle precedenti sue idee, lo stacca dalle nuove, e lo fa incredulissimo. E così l’eccesso di credulità causa l’eccesso d’incredulità, e impedisce i progressi dello spirito ec. Gli uomini più persuasi d’una cosa, sono i più difficili a persuadersi, se non si tratta di persuasioni affatto consentanee alle sue prime ec. V. se vuoi, la p.1281. principio.

(26. Luglio 1821.)

Piccolissimo è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio. Le ragioni le ho dette nel pensiero precedente, e in quello al quale esso serve di giunta.

(27. Luglio 1821.)

[1393]A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione dell’eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento, [1394]benchè oggi assai forti. Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.

Iliaci cineres, et flamma extrema meorum,

Testor, in occasu vestro, nec tela, nec ullas

Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,

Ut caderem, meruisse manu (Virg. Aen. 2.431.seqq.).

(27. luglio 1821.)

 

Alla p.1102. È stata anche utilissima e necessarissima invenzione e pensamento quello di dividere le quantità non per unità, ma per parti di quantità contenenti un numero di quantità determinato, e perpetuamente conforme; vale a dire per diecine, ossia quantità contenenti sempre dieci unità; per centinaia contenenti sempre dieci diecine; per migliaia ec. Senza questo ritrovato ottimo ed ammirabile, noi quanto ai numeri saremmo ancora appresso a poco, nel caso degli [1395]uomini privi di favella. Cioè non potremmo concepir chiaramente l’idea di veruna quantità numerica determinata (e quindi di nessun’altra non numerica, perchè se è determinata, ha sempre relazione ai numeri), se non piccolissima.

L’idea che l’uomo concepisce della quantità numerica è idea compostissima. L’uomo è capacissimo d’idee composte, ma bisogna che la composizione non sia tanta, che la mente umana abbia bisogno per concepir quell’idea di correre tutto a un tratto per una troppo grande quantità di parti. Se noi non dicessimo undici, cioè dieci e uno, ec. ec. ma seguissimo sempre a nominare ciascuna quantità o numero, con un nome affatto progressivo, e indipendente dagli altri nomi e numeri, e non si fosse data ai numeri una scambievole relazione, tanto arbitraria e dipendente dall’intelletto umano, quanto necessaria, e difficile; noi perderemmo ben presto l’idea chiara di una quantità determinata alquanto grossa, perchè le sue parti, essendo pure unità, sarebbero troppe per poter esser comprese in un tratto, e [1396]abbracciate dalla nostra concezione. Se il centinaio non fosse nella nostra mente una diecina di diecine (il che, chi ben l’osserva, viene a formare un’idea non decupla, ma quasi unica e semplice, (o al più doppia) a causa del rapporto scambievole delle unità colla diecina, e della diecina semplice colla diecina di diecine); ma fosse un centinaio di pure, slegate, indipendenti, indivise unità, ci sarebbe impossibile il correre in un tratto per cento unità così disposte, e quindi non potremmo concepire idea, se non confusissima e insufficiente, di detta quantità. Per lo contrario la nostra mente abituata alla facilità di concepir chiaramente la quantità contenuta nella diecina semplice, si abitua ancora facilmente alla stessa concezione nella diecina di diecine, ec. ec. e con un solo atto di concezione, apprende chiaramente il numero delle unità contenute in una quantità, la cui idea se le presenta così ben distribuita nelle sue parti, così relative fra loro. Questo è infatti il progresso delle idee de’ fanciulli, i quali da principio, quantunque bastantemente istruiti circa i numeri e le materiali quantità loro ec. non si [1397]formano però mai l’idea chiara delle unità contenute in una quantità più che tanto grossa, nè intendono mai chiaramente che quantità sia p.e. il centinaio, finchè la loro mente non si è abituata nel modo che ho detto, ascendendo gradatamente dall’idea simultanea e perfetta di una diecina, a quella di due, di tre, della diecina di diecine ec.

Molte idee, ancorchè compostissime, le concepisce l’uomo chiaramente e facilmente in un tratto, perchè il soggetto loro non è composto in maniera che l’idea non ne possa risultare se non dalla concezione particolare e immediata di ciascuna sua parte. P.e. l’idea dell’uomo è composta, ma la mente senza andare per le parti, le concepisce tutte in un solo subbietto in un solo corpo, e quindi in un solo momento, e dal subbietto discende poi, se vuole, alle parti. Così accade in tutte le cose materiali ec. Ma l’idea di un numero non risulta se non dalla concezione delle unità, cioè parti che lo compongono, e da queste bisogna che la mente ascenda alla concezione del composto, cioè del tal numero, [1398]perchè un numero non è sostanzialmente altro che una quantità di parti, nè si può definire se non da queste, nè ha veruna menoma qualità o forma, o modo di essere ec. indipendente da queste. L’assuefazione aiutata dalla bellissima invenzione che ho detto, fa che la mente umana appoco appoco si abiliti a concepire una quantità determinata, quasi prima delle sue parti, e indipendentemente da loro, e discenda poi da quella a queste, se vuol meglio distinguere la sua idea ec. il che non si può mai se non nello spazio di tempo e non già nell’istante.

Il detto ritrovamento, o piuttosto arbitrario stabilimento di una scambievole relazione fra tutte le unità, e le masse di unità ec. cioè in somma della ragione che fra noi, e in tutti i popoli civili antichi e moderni è decupla; non solo fu aiutata dalla favella, ma non sarebbesi potuto stabilirla senza la favella.

Osservo che uno de’ principali vantaggi, anzi forse il solo, ma grande vantaggio del sistema di cifre numeriche dette arabiche, sopra quello delle cifre greche, ebraiche ec. ancor esso molto semplice e bello e bene immaginato, si è questo. Nelle cifre 10, 200, 3000 ec. le figure 1, 2, 3 esprimono ed indicano immediatamente la quantità delle diecine [1399]o centinaia o migliaia espresse da dette cifre, e contenute nella quantità che significano. Ma non così le lettere greche i€, cioè 10, e s€, cioè 200, ovvero le ebraiche w e d, che significano le stesse cose. Bensì le cifre greche ,a, ,b, ,g, e le ebraiche ä, äk, äg, cioè 1000, 2000, 3000, significano e danno subito e per se stesse a vedere o l’unità o la quantità delle migliaia. Il greco però in questo punto è più semplice dell’ebreo.

Per la ragione per cui troviamo poca varietà nella fisonomia delle bestie d’una medesima specie ec. come ho detto altrove, accade che in una città forestiera, tutto al primo momento ci paia appresso a poco uniforme, e troviamo sempre proporzionatamente assai più vario il paese a cui siamo avvezzi (ancorchè uniformissimo) che qualunque altro; almeno ne’ primi giorni. Onde non sappiamo distinguere le contrade ec. Massime se v’ha realmente qualche uniformità in quel nuovo paese, sebben però più vario del nostro; ovvero s’egli è di una forma e di un gusto ec. assai differente dal nostrale, nel qual caso non ci troveremo mai bastante varietà, prima della lunga attenzione ed assuefazione