GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 1000 - 1399)
Graecam [1000]linguam
significari, Romae tunc et in omni fere Romano imperio vulgatissimam, Seldenus
ad Eutychium observavit. E p.131. nota (d) §.3. parlando delle
testimonianze Orientalium recentiorum che dicono essere stato scritto il
Vangelo di S. Marco in lingua romana, dice che furono o ingannati, o male
intesi dagli altri, nam per Romanam linguam etiam ab illis Graecam quandoque
intelligi observavit Seldenus. Intendi l’opera di Giovanni Selden
intitolata: Eutychii Aegyptii Patriarchae Orthodoxorum Alexandrini Ecclesiae
suae Origines ex eiusdem Arabico nunc primum edidit ac Versione et Commentario
auxit Joannes Seldenus. Per lo contrario Giuseppe Ebreo nel proem. dell’Archeol.
§.2. principio e fine, chiama Greci tutti coloro che non erano Giudei, o sia
gli Etnici, compresi per conseguenza anche i romani. E così nella Scrittura †Ellhnew passim opponuntur Iudaeis, et vocantur ethnici, a
Christo alieni (Scapula). Così ne’ Padri antichi. Il che pure ridonda a
provare la mia proposizione. E Gioseffo avendo detto di scrivere per tutti i
Greci (cioè i non ebrei), scrive in greco. V. anche il Forcell. v. Graecus
in fine.
Osservo
ancora che Giuseppe Ebreo avendo scritto primieramente i suoi libri della
Guerra Giudaica nella lingua sua patria, qualunque fosse questa lingua, o l’Ebraica,
come crede l’Ittigio, (nel Giosef. dell’Havercamp, t.2. appendice p.80. colonna
2.) o la Sirocaldaica, come altri, (v. Basnag. Exercit. ed. Baron. p.388.
Fabric. 3. 230. not. p), in uso, com’egli dice, de’ barbari dell’Asia
superiore, cioè, com’egli stesso spiega (de Bello Iud. Proem. art.2. edit.
Haverc. t.2. p.48.) de’ Parti, de’ Babilonesi, degli Arabi più lontani dal
mare, de’ Giudei di là dall’Eufrate, e degli Adiabeni; (Fabric. l.c. Gioseffo
l.c. p.47. not. h.) volendo poi, com’egli dice, accomodarla all’uso de’ sudditi
dell’imperio [1001]Romano, toÝw katŒ t¯n „RvmaÛvn ²gemonÛan, e scrivendo in Roma, giudicò,
come pur dice, (Fabric. 3. 229. fine e 230. principio.) e come fece, di
traslatarla (non in latino) in greco, „Ell‹dow glÅssh+ metabaleÝn. (Idem, l.c. art.1. p.47.) E così
traslatata la presentò a Vespasiano e a Tito, Impp. Romani.
(Ittigio l.c. Fabric. 3.231. lin.8. Tillemont, Empereurs t.1. p.582.).
La
lingua greca, benchè a noi sembri a prima vista il contrario, e ciò in gran
parte a cagione delle circostanze in cui siamo tutti noi Europei ec. rispetto
alla latina, è più facile della latina; dico quella lingua greca antica quale
si trova ne’ classici ottimi, e quella lingua latina quale si trova ne’
classici del miglior tempo; e l’una e l’altra comparativamente, qual’è presso
gli scrittori dell’ottima età dell’una e dell’altra lingua. E ciò malgrado la
maggiore ricchezza grammaticale ed elementare della lingua greca. Questa
dunque è la cagione perch’ella fosse più atta della latina ad essere
universale: e n’è la cagione sì per se stessa e immediatamente, sì per la
somiglianza che produce fra la lingua volgare e quella della letteratura, fra
la parlata e la scritta.
Quello
che ho detto della difficoltà naturale che hanno e debbono avere i francesi a
conoscere e molto più a gustare le altrui lingue, cresce se si applica alle
lingue antiche, e fra le moderne Europee e colte, alla lingua nostra. Giacchè
la lingua [1002]francese è per eccellenza, lingua moderna; vale a dire
che occupa l’ultimo degli estremi fra le lingue nella cui indole ec.
signoreggia l’immaginazione, e quelle dove la ragione. (Intendo la lingua
francese qual è ne’ suoi classici, qual è oggi, qual è stata sempre da che ha
preso una forma stabile, e quale fu ridotta dall’Accademia). Si giudichi dunque
quanto ella sia propria a servire d’istrumento per conoscere e gustare le
lingue antiche, e molto più a tradurle: e si veda quanto male Mad. di Staël
(vedi p.962.) la creda più atta ad esprimere la lingua romana che le altre,
perciocch’è nata da lei. Anzi tutto all’opposto, se c’è lingua difficilissima a
gustare ai francesi, e impossibile a rendere in francese, è la latina, la quale
occupa forse l’altra estremità o grado nella detta scala delle lingue,
ristringendoci alle lingue Europee. Giacchè la lingua latina è quella fra le
dette lingue (almeno fra le ben note, e colte, per non parlare adesso della
Celtica poco nota ec.) dove meno signoreggia la ragione. Generalmente poi le
lingue antiche sono tutte suddite della immaginazione, e però estremamente separate
dalla lingua francese. Ed è ben naturale che le lingue antiche fossero
signoreggiate dall’immaginazione più che qualunque moderna, e quindi siano
senza contrasto, le meno adattabili alla lingua francese, all’indole sua, ed
alla conoscenza e molto più al gusto de’ francesi. [1003]Nella scala poi
e proporzione delle lingue moderne, la lingua italiana, (alla quale tien subito
dietro la Spagnuola) occupa senza contrasto l’estremità della immaginazione, ed
è la più simile alle antiche, ed al carattere antico. Parlo delle lingue
moderne colte, se non altro delle Europee: giacchè non voglio entrare nelle
Orientali, e nelle incolte regna sempre l’immaginazione più che in qualunque
colta, e la ragione vi ha meno parte che in qualunque lingua formata.
Proporzionatamente dunque dovremo dire della lingua francese rispetto all’italiana,
quello stesso che diciamo rispetto alle antiche. E il fatto lo conferma,
giacchè nessuna lingua moderna colta, è tanto o ignorata, o malissimo e
assurdamente gustata dai francesi, quanto l’italiana: di nessuna essi conoscono
meno lo spirito e il genio, che dell’italiana; di nessuna discorrono con tanti
spropositi non solo di teorica, ma anche di fatto e di pratica; non ostante che
la lingua italiana sia sorella della loro, e similissima ad essa nella più gran
parte delle sue radici, e nel materiale delle lettere componenti il radicale
delle parole (siano radici, o derivati, o composti); e non ostante che p.e. la
lingua inglese e la tedesca, nelle quali essi riescono molto meglio, (anche nel
tradurre ec. mentre una traduzione francese dall’italiano dal latino o dal
greco non è riconoscibile) appartengano a tutt’altra famiglia di lingue.
(1
Maggio 1821.). V. p.1007. capoverso 1.
[1004]Uno dei principali dogmi del
Cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto
e felice: e con questo dogma è legato quello della Redenzione, e si può dir,
tutta quanta la Religion Cristiana. Il principale insegnamento del mio
sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto, le infinite
osservazioni e prove generali o particolari, ch’io adduco per dimostrare come l’uomo
fosse fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente
naturale (che non si trova mai nel fatto) fosse per lui il solo perfetto, come
quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più diveniamo infelici ec. ec.:
tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi principali
del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo.
(1.
Maggio 1821.)
Tanto
era l’odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società) verso gli
stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una potenza minima,
o anche una città solo assalita da una nazione intera (come Numanzia da’
Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con tutte le sue forze, e la
resistenza si misurava dalle dette forze, non già da quelle del nemico; e la
deliberazione di resistere era immancabile, e immediata, e senza consultazione
vervna; e dipendeva dall’essere assaliti, non [1005]già dalla
considerazione delle forze degli assalitori e delle proprie, dei mezzi di
resistenza, delle speranze che potevano essere nella difesa ec. E questa era,
come ho detto, una conseguenza naturale dell’odio scambievole delle diverse
società, dell’odio che esisteva nell’assalitore, e che obbligava l’assalito a
disperare de’ patti; dell’odio che esisteva nell’assalito, e che gl’impediva di
consentire a soggettarsi in qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel
farlo, e qualunque danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se
stessi e della propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra
gli altri, nel citato esempio di Numanzia.
Oggi per
lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze, dei mezzi, delle
speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel resistere. E se questo
calcolo decide pel cedere, non solamente una città ad una nazione, ma una
potenza si sottomette ad un’altra potenza, ancorchè non eccessivamente più
forte; ancorchè una resistenza vera ed intera potesse avere qualche fondata
speranza. Anzi oramai si può dire che le guerre o i piati politici, si decidono
a tavolino col semplice calcolo delle forze e de’ mezzi: io posso impiegar
tanti uomini, tanti danari ec. il nemico tanti: resta dalla parte mia tanta
inferiorità, o superiorità: dunque assaliamo o no, cediamo ovvero non
cediamo. [1006]E senza venire alle mani, nè far prova effettiva di
nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano quella forma, quelle leggi,
quel governo ec. che comanda il più forte: e in computisteria si decidono le
sorti del mondo. Così discorretela proporzionatamente anche riguardo alle
potenze di un ordine uguale.
In
questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le truppe, gli
esercizi militari ec. non servono perchè si faccia esperienza di chi deve
ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perchè si possa sapere e conoscere e
calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non servissero al calcolo sarebbero
inutili, giacchè in ultima analisi il risultato delle cose politiche, e i
grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non avessero esistito.
Ed è
questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione delle cose
umane, derivata dall’esperienza, dalla cognizione sì propagata e cresciuta,
dalla ragione, e dall’esilio della natura, sola madre della vita, e del fare.
Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e trovarla
egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica. Dalla quale
spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll’annullamento, risulta che oggi in
luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano le cose, i
moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno [1007]risultati
dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e supputando quello
che si debba fare, o che debba succedere; aspettando di fare effettivamente, e
per conseguenza di vivere, quando saremo morti. Giacchè ora una tal vita non si
può distinguere dalla morte, e dev’essere necessariamente tutt’uno con questa.
(1.
Maggio 1821.)
Alla
p.1003. fine. Oltre le dette considerazioni la lingua francese, è anche estremamente distinta dall’Italiana, perciò ch’ella è fra le moderne colte (e per
conseguenza fra tutte le lingue) senza contrasto la più serva, e meno libera;
naturale conseguenza dell’essere sopra tutte le altre, modellata sulla ragione.
Al contrario l’italiana è forse e senza forse, fra le dette lingue la più
libera, cosa la quale mi consentiranno tutti quelli che conoscono a fondo la
vera indole della lingua italiana, conosciuta per verità da pochissimi, e
ignorata dalla massima parte degl’italiani, e degli stessi linguisti. Nella
quale libertà la lingua italiana somiglia sommamente alla greca; ed è questa
una delle principali e più caratteristiche somiglianze che si trovano fra la
nostra lingua e la greca. A differenza della latina, la quale, secondo che fu
ridotta da’ suoi ottimi scrittori, e da’ suoi formatori e costitutori, è
sommamente ardita, e sommamente varia, non perciò sommamente [1008]libera,
anzi forse meno di qualunque altra lingua antica, uno de’ primi distintivi
delle quali è la libertà. Ma la lingua latina sebbene non suddita in nessun
modo della ragione, è però suddita, dirò così, di se stessa, e del suo proprio
costume, più di qualunque antica: il qual costume fisso e determinato per tutti
i versi, ancorchè ardito, ella non può però trasgredirlo, nè alterarlo, nè
oltrepassarlo ec. in verun modo; così che sebbene ella è ricchissima di forme
in se stessa, non è però punto adattabile a verunissima altra forma, nè
pieghevole se non ai modi determinati dalla sua propria usanza. E perciò
appunto, come ho detto altrove, ella non era punto adattata alla universalità,
perchè l’ardire non era accompagnato dalla libertà. E la perfetta attitudine
alla universalità consiste nel non essere nè ardita nè varia nè libera, come la
francese. Un’altra attitudine meno perfetta nell’essere e ardita e varia, e nel
tempo stesso libera, come la greca. L’ardire e la varietà, sebbene per lo più
sono compagne della libertà, non però sempre; nè sono la stessa cosa colla
libertà, come si vede nell’esempio della lingua latina, e bisogna perciò
distinguere queste qualità.
Del
resto la servilità e timidezza della lingua francese, la distingue dunque più
che da qualunque altra, dalle antiche, e fra le moderne dall’italiana.
[1009]E queste sono le ragioni per cui la
lingua italiana, benchè tanto affine alla francese, come ho detto p.1003.
tuttavia n’è tanto lontana e dissimile, massimamente nell’indole; e per cui la
lingua italiana perde tutta la sua naturalezza, e la sua proprietà, o forma
propria e nativa, adattandosi alla francese, che l’è pur sorella: e per cui i
francesi sono meno adattati che verun altro a conoscere e gustar l’italiano,
cosa che apparisce dal fatto; e finalmente per cui la lingua francese è meno
adattabile alle lingue antiche, e alle stesse lingue madri sue e della sua
letteratura, come il latino e il greco, di quello che alle lingue moderne da
lei divise di cognazione, di parentela, di famiglia, di sangue, di origine, di
stirpe.
Quello
che ho detto qui sopra dell’ardire, della varietà, della libertà, si deve
estendere a tutte le altre qualità caratteristiche delle lingue antiche, e dell’italiana,
e conseguenti dall’esser esse modellate sull’immaginazione e sulla natura, come
dire la forza, l’efficacia, l’evidenza ec. ec. qualità che in parte derivano
pure dalle altre sopraddette, e scambievolmente l’una dall’altra, e perciò
mancano essenzialmente alla lingua francese.
Nè
queste qualità, che dico proprie delle lingue [1010]antiche, si deve
credere ch’io lo dica solamente in vista della greca e della latina, ma di
tutte; ed alcune (come la varietà, ricchezza ec.) delle colte massimamente.
Esse qualità infatti sono state notate nella lingua Celtica, (v. p.994.) nella
Sascrita, (v. Annali di scienze e lettere. Milano. Gennaio 1811. n.13. p.54.
fine-55.) (lingue coltissime) benchè sieno diversissime dalle nostrali; e così
in tante altre. Nè bisognano esempi e prove di fatto, a chi sa che le dette e
simili qualità derivano immancabilmente dalla natura, maestra e norma e signora
e governatrice degli antichi e delle cose loro.
Della
lingua volgare latina antica v. Andrès, Dell’Orig. d’ogni letteratura ec. Parte
1. c.11. Ediz. Veneta del Vitto. t.2. p.256-257. nota. La qual nota è del
Loschi. Che però egli s’inganni, lo mostrano le mie osservazioni sopra la
lingua di Celso, scrittore non dell’antica e mal formata, ma della perfetta ed
aurea latinità.
Se i
tedeschi oggidì hanno tanto a cuore, e stimano così utile l’investigare e il
conoscere fondatamente le origini della loro lingua, e se il Morofio (Polyhist.
lib.4. cap.4.) si lagnava che al suo tempo i suoi tedeschi fossero trascurati
nello studiare le dette origini; Dolendum ec. v. Andrès luogo cit. qui
sopra, p.249. quanto più dobbiamo noi italiani studiare e mettere a profitto la
lingua latina (che sono le nostre origini); lingua così suscettibile di
perfetta [1011]cognizione; lingua così ricca, così colta, così letterata
ec. ec.; lingua così copiosa di monumenti d’ogni genere e di tanto pregio:
laddove per lo contrario la lingua teutonica originaria della tedesca (Andrès,
ivi, p.249.251.253. lin.6.14.18. paragonando anche questi ult. tre luoghi colla
p.266. lin.9) è difficilissima a conoscere con certezza, e impossibile a
conoscere se non in piccola parte, è lingua illetterata ed incolta, e
scarsissima di monumenti, e quelli che ne restano sono per se stessi di nessun
pregio. (Andrès, 249-254.) Aggiungete che l’esser la lingua latina universalmente
conosciuta, e stata in uso nel mondo, ed ancora in uso in parecchie parti della
vita civile, non solo giova alla ricchezza della fonte ec. ma anche al poterne
noi attingere con assai più franchezza. Se la lingua teutonica fosse pure stata
altrettanto grande e ricca, ed a forza di studio si potesse pur tutta conoscere
ec. che cosa si potrebbe attingere da una lingua dimenticata, e nota ai soli
dotti ec. ec.? chi potrebbe intendere a prima giunta le parole che se ne
prendessero? ec. V. p.3196.
(4.
Maggio 1821.)
Il sentimento moderno è un misto di sensuale e di spirituale, di carne e di spirito; è la
santificazione della carne (laddove la religion Cristiana è la santificazione
dello spirito); e perciò siccome il senso non si può mai escludere dal vivente,
questa sensibilità che lo santifica e purifica, è riconosciuto pel più
valevole rimedio e preservativo contro di lui, e contro delle sue bassezze.
(4.
Maggio 1821.)
Alla
p.952. Meno straniera è la lingua francese all’inglese (e perciò meno inetta ad
esserle fonte di vocaboli ec.) a cagione dell’affinità che questa seconda
lingua prese colla prima, dopo l’introduzione della lingua francese in
Inghilterra, mediante la conquista fattane dai Normanni (Andrès, luogo cit.
poco sopra, p.252. fine, 255. fine-256. principio. Annali di Scienze e lettere.
Milano. Gennaio 1811. n. 13. p.30. fine.) [1012]Laddove la lingua
tedesca, secondo che il Tercier ha ben ragione di asserire, (Ac. des
Inscr. tome 41.) fra tutte le lingue che attualmente parlansi in Europa, più
d’ogni altra conserva i vestigi della sua anzianità (Andrès, ivi
p.251-252); e più tenace e costante di tutte le altre, ha saputo conservare
dell’antica sua madre maggior numero di vocaboli, maggior somiglianza nell’andamento,
e maggiore affinità nella costruzione. (ivi p.253. principio.).
(4.
Maggio 1821.)
Alla
p.995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna lingua
francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l’introduction de la
langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l’Ac. des inscr. tome 41.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire dell’Astruc.
(Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di voci
gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più
conserva alcun vestigio dell’antico parlare di quelle genti. (Andrès, luogo
cit. di sopra, p.252.).
(4.
Maggio 1821.)
Che la
lingua latina a’ suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si
distinguesse in due lingue, l’una [1013]volgare, e l’altra nobile, usata
da’ patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come
parlavano i patrizi) (Andrès, l.c. p.256. nota), che Roma al tempo della sua
grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo
barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97. p.242.)
è noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa testimonianza
di Cicerone. (Andrès, l.c.) Del quale antico volgare latino parlerò forse
quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse impossibile che la
lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i negozianti, i
viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una lingua diversa dalla
letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è capace di universalità;
e mentre l’unicità di una lingua, come ho detto altrove, è la prima condizione
per poter essere universale. Laddove la latina, non solo non era unica nella
sua costituzione e nella sua indole, dirò così, interiore, come lo è la
francese; ma era divisa perfino esteriormente in lingue diverse, e, si può dir,
doppia ec.
(4.
Maggio 1821.). V. p.1020. capoverso 1.
Alla
p.999. Così chi sapesse l’antica lingua teutonica, non intenderebbe perciò la
tedesca, senza espresso e fondato studio. (Andrès, loco cit. di sopra, p.1010;
non ostante che la tedesca, secondo il Tercier, ec. v. p. [1014]1012.
principio.
La
vantata duttilità della lingua francese (Spettatore di Milano. Quaderno
93. p.115. lin.14) oltre alle qualità notate in altro pensiero, ha questa
ancora, che non è punto compagna della varietà: e la lingua francese benchè
duttilissima, è sempre e in qualunque scrittore paragonato cogli altri,
uniforme e monotona. Cosa che a prima vista non par compatibile colla
duttilità, ma in vero questa è una qualità diversissima dalla ricchezza, dall’ardire,
e dalla varietà.
(5.
Maggio 1821.)
Alla
p.991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale (cioè l’anglo-sassone:
(Andrès, loc. cit., p.1010, p.255. fine) diversa dalla Celtica, stabilita nella
Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche in usi letterarii, come si
rileva da quello ch’egli stesso riferisce di un Cedmone monaco Benedettino, illustre
poeta improvvisatore nella sua lingua. (Andrès, p.254.) Cosa la quale, se
non altro, dimostra ch’ella era una lingua già ridotta a una certa forma (lo
riferirà forse il Beda nella Storia Ecclesiastica degli Angli.).
(5.
Maggio 1821.)
L’u francese, del quale ho discorso in altro pensiero, potè essere introdotto in
Francia mediante le Colonie greche, come Marsiglia ec. [1015]Mediante le
quali colonie ec. la lingua e letteratura greca si stabilì, com’è noto, in
varie parti delle Gallie. V. il Cellar. dove parla di Marsiglia. E le Gallie
ebbero scrittori greci, come Favorino Arelatense, S. Ireneo (sebben forse nato
greco) ec. ec. V. anche il Fabric. dove parla di Luciano, B. Gr. lib.4. c.16.
§.1 t.3. p.486. edit. vet.
Dalle
quali osservazioni si potrebbe anche dedurre che le parole francesi derivate
dal greco, e che non si trovano negli scrittori latini, e che io in parecchi
pensieri, ho supposto che fossero nel volgare latino, come planer ec.
fossero venute nella lingua francese immediatamente dalle antiche
communicazioni avute colla lingua e letteratura greca. Questo però non mi par
molto probabile, trattandosi che la lingua greca fu spenta nelle Gallie
lunghissimo tempo innanzi la nascita della francese: che la latina vi prevalse
interamente; e che della celtica ch’era pur la nazionale, appena si trova
vestigio nella francese (v. p.1012. capoverso 1.). Quanto meno dunque si
dovrebbero trovar della greca! Laddove se ne trovano tanti che han fatto un
dizionario apposta, delle parole francesi derivate dal greco. Inoltre questo
argomento non può valer di più di quello che vaglia [1016]per le parole
italiane dello stesso genere, le quali si potrebbero suppor derivate dalla
magnagrecia, e dalla Sicilia, piuttosto che dal latino: mentre però la lingua
greca si spense in quei paesi tanto innanzi al sorgere della lingua italiana, e
vi si stabilì la latina: che per conseguenza vi è tanto più vicina alla nostra,
in ordine di tempo: anzi immediatamente vicina. V. p.1040. fine. Del resto
anche in Sicilia durò la letteratura greca (se non anche la lingua) lungo tempo
dopo il dominio romano. Diodoro fu siciliano, e così altri scrittori greci. E
vedi Porfir. Vit. Plotin. cap.11. donde par che apparisca che in Sicilia a quel
tempo vi fossero cattedre o scuole greche di sofisti, come si può dire, in
tutte le parti dell’imperio romano, in Roma, nelle Gallie a tempo di Luciano
ec. Cecilio Siculo, benchè romano di nome, e vissuto in Roma ec. scrisse in
greco. V. Costantino Lascaris nel Fabricio, B. Gr. t.14. p.22-35. edit. vet.
(6. Maggio 1821.). Ma nel terzo secolo T. Giulio Calpurnio Siciliano, poeta
Bucolico, contemporaneo di Nemesiano, scrisse in latino. E così altri Siciliani
ec.
Un
effetto dell’antico sistema di odio nazionale, era in Roma il costume del
trionfo, costume che nel presente sistema dell’uguaglianza delle nazioni, anche
delle vinte colle vincitrici, sarebbe intollerabile; costume, fra tanto, che
dava sì gran vita alla nazione, che produceva sì grandi effetti, e sì utili per
lei, e che forse fu la cagione di molte sue vittorie, e felicità militari e
politiche.
[1017]Dalla mia teoria del piacere
seguita che l’uomo, desiderando sempre un piacere infinito e che lo soddisfi
intieramente, desideri sempre e speri una cosa ch’egli non può concepire. E
così è infatti. Tutti i desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia
piaceri i più determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai
assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea
confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce confusamente. E
perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere, contenendo quell’indefinito,
che la realtà non può contenere. E ciò può vedersi massimamente nell’amore,
dove la passione e la vita e l’azione dell’anima essendo più viva che mai, il
desiderio e la speranza sono altresì più vive e sensibili, e risaltano più che
nelle altre circostanze. Ora osservate che per l’una parte il desiderio e la
speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è
animato da qualunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell’amore,
il presentare all’uomo un’idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di quella che presentano le altre passioni), e ch’egli può concepir
meno di qualunque [1018]altra idea ec. Per l’altra parte notate, che
appunto a cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa
passione in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de’ maggiori piaceri che l’uomo
possa provare.
(6.
Maggio 1821.)
I
filosofi moderni, anche i più veri ed effettivi, e quelli che più mettono in
pratica la loro filosofia, sono persuasi che il mondo non potendo mai esser
filosofo, bisogna che chi lo è, dissimuli questa sua qualità, e nel commercio
sociale si diporti per lo più nello stesso modo, come se non fosse filosofo.
All’opposto i filosofi antichi. All’opposto Socrate, il quale si mostrò nel
teatro al popolo che rideva di lui; i Cinici, gli Stoici e tutti gli altri.
Così che i filosofi antichi formavano una classe e una professione formalmente
distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi: a differenza de’
moderni, che eccetto nel proprio interiore, si confondono appresso a poco
intieramente colla moltitudine e colla universalità. Conseguenza necessaria del
predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui
moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un
corpo visibile, una forma sensibile, un’azione allo [1019]stesso
pensiero, alla stessa ragione. Laddove i moderni pensatori e ragionevoli, si
contentano dello stesso pensiero, il quale resta nell’interno, e non ha veruna
o poca influenza sul loro esterno; e non produce quasi nulla nell’esteriore. E
generalmente, e per la detta ragione della naturalezza, l’apparenza e la
sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per
conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più
ignoranti e inesperti, o più naturali.
(6.
Maggio 1821.)
La
lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può perire la
lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che far colla
lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si vede che la
letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che questa non
ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà forse sempre
considerarsi come lingua non colta, o poco colta.
Dalle
osservazioni fatte da me sulla poca attitudine dei francesi a conoscere e
gustare le altre lingue, risulta che per lo contrario gl’italiani sono forse i
più atti del mondo al detto oggetto. E ciò stante la moltitudine, dirò così,
delle lingue che la loro lingua contiene (laddove la francese [1020]è
unica); stante la sua copia, la sua ricchezza, la sua varietà; stante la sua
libertà singolare fra tutte le lingue colte, come ho detto altrove, e inerente
al suo carattere; stante la sua arrendevolezza, la quale produce l’arrendevolezza
del gusto e della facoltà conoscitiva rispetto a quanto appartiene alle altre
lingue; mentre l’arrendevolezza della propria lingua, viene ad essere l’arrendevolezza
e adattabilità dell’istrumento che serve a conoscere e gustare le altre lingue.
E ciò tanto più si deve dire degl’italiani rispetto alle lingue antiche,
massime la latina e la greca, sì per la conformità d’indole ec. che hanno colla
nostra; sì ancora perchè precisamente le dette qualità sono comuni a queste
lingue (e generalmente alle antiche colte) colla nostra.
(7.
Maggio 1821.)
Alla
p.1013. fine. Si potrebbe dire che anche la lingua greca pativa lo stesso
inconveniente, e ancor peggio, stante la moltiplicità de’ suoi dialetti. Ma ne’
dialetti era divisa anche la lingua latina, come tutte le lingue, massimamente
molto estese e divulgate, e molto più, diffuse, come la latina, fra tanta
diversità di nazioni e di lingue. Il che apparisce non tanto dalla Patavinità
rimproverata a Livio, (dalla quale sebbene altri lo difendono, pure apparisce
che questa differenza di linguaggio, o dialetto, se non in lui, certo però
esisteva); non tanto dalle diverse maniere e idiotismi degli scrittori latini
di diverse nazioni e parti, (v. Fabric. [1021]B. G. l.5. c.1. §.17. t.5.
p.67. edit. vet. e il S. Ireneo del Massuet); le quali si possono anche
inferire dalle diverse lingue nate dalla latina ne’ diversi paesi, ed ancora
viventi (che dimostrano una differenza d’inflessioni, di costrutti, di
locuzioni ec. che se anticamente non fu tanta quanta oggidì, certo però è
verisimile che fosse qualche cosa, e che appoco appoco sia cresciuta, derivando
dalla differenza antica) quanto da questo, che è nella natura degli uomini che
una perfetta conformità di favella non sussista mai se non fra piccolissimo
numero di persone. (V. p.932. fine.) Così che io non dubito che la lingua
latina non fosse realmente distinta in più e più dialetti, come la greca,
sebbene meno noti, e meno legittimati, e riconosciuti dagli scrittori, e
applicati alla letteratura. V. qui sotto.
Del
resto la lingua italiana patisce ora (serbata la proporzione) l’inconveniente
della lingua latina, forse più che qualunque altra moderna colta. Ond’ella è
per questa parte meno adattata di tutte alla universalità, distinguendosi
sommamente, non solo il suo volgare, ma il suo parlato dal suo scritto. Non era
così anticamente, ed allora l’italiano era più acconcio alla universalità, come
lo prova anche il fatto. Nel trecento lo scritto e il parlato quasi si
confondevano. In Toscana, accadeva questo anche nel cinquecento appresso a
poco: e forse potrebbero ancora confondersi, se i toscani scrivessero l’italiano
o il toscano, siccome lo parlano; laddove nel resto d’Italia, l’italiano non si
parla.
(7.
Maggio 1821.). V. p.1024. capoverso ult.
Al
capoverso superiore. E perciò appunto meno noti oggidì, a differenza dei greci.
Nel modo che i dialetti d’Italia o di Francia, posto il caso che la lingua
italiana o francese uscisse dell’uso, come la latina, non sarebbero conosciuti
dai posteri, se non confusissimamente; per non [1022]essere stati
ridotti a forma, nè applicati (eccetto il Toscano) alla letteratura, salvo
qualche poco in Italia. Ma così poco e insufficientemente, che si può credere
che gli scritti italiani vernacoli, non passerebbero, e onninamente non
passeranno (se non forse pochissimi, come quelli del Goldoni e del Meli) alla
posterità.
Quanto
la natura abbia proccurata la varietà, e l’uomo e l’arte l’uniformità, si può dedurre
anche da quello che ho detto della naturale, necessaria e infinita varietà
delle lingue, p.952. segg. Varietà maggiore di quella che paia a prima vista,
giacchè non solo produce p.e. al viaggiatore, una continua novità rispetto alla
sola lingua, ma anche rispetto agli uomini, parendo diversissimi quelli che si
esprimono diversamente; cosa favorevolissima alla immaginazione, considerandosi
quasi come esseri di diversa specie quelli che non sono intesi da noi, nè c’intendono:
perchè la lingua è una cosa somma, principalissima, caratteristica degli
uomini, sotto tutti i rapporti della vita sociale. Per lo contrario, lasciando
le altre cure degli uomini per uniformare, stabilire, regolare ed estendere le
diverse lingue; oggi, in tanto e così vivo commercio di tutte, si può dir, le
nazioni insieme, si è introdotta, ed è divenuta necessaria, una lingua comune,
cioè la francese; la quale [1023]stante il detto commercio, e l’andamento
presente della società, si può predire che non perderà più la sua universalità,
nemmeno cessando l’influenza o politica, o letteraria, o civile, o morale ec.
della sua nazione. E certo, se la stessa natura non lo impedisse, si otterrebbe
appoco appoco che tutto il mondo parlasse quotidianamente il francese, e l’imparasse
il fanciullo come lingua materna; e si verificherebbe il sogno di una lingua
strettamente universale.
(8.
Maggio 1821.)
In
proposito di quello che ho detto altrove, che la lingua italiana non si è mai
spogliata della facoltà di usare la sua ricchezza antica, e la francese all’opposto,
v. Andrès, Stor. d’ogni letteratura. Venez. Vitto. t.3. p.95. fine-99.
principio, cioè Parte 1. c.3. e t.4. p.17. cioè Parte II. introduzione.
(8.
Maggio 1821.)
Alcuni
scrittori greci degli ultimissimi tempi dell’impero greco, furono anche
superiori in eleganza a molti de’ tempi più antichi ma corrotti, come gli
scrittori latini del cinquecento in Italia superarono bene spesso gli antichi
latini posteriori a Cicerone e a Virgilio. Dopo il secolo d’Augusto non è
stato mai tempo in cui sì generalmente (come nel 500.) si scrivesse con
coltura e con pulitezza la lingua de’ romani. Andrès, l. cit. qui sopra,
p.96.
(8.
Maggio 1821.)
[1024]Sebbene la lingua Celtica fosse
così bella ed atta alla letteratura, e per conseguenza, formata, e stabilita e
ferma (espressioni del Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne’
monumenti che ne avanzano, e come ho detto p.994. fine; sebben fosse così
antica e radicata ec. nondimeno laddove i greci ancorchè sudditi romani, e
vivendo in Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino,
nessuno scrittor gallo, nelle medesime circostanze, scrisse mai che si sappia
in lingua celtica, ma in latino.
Da
Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e
allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e
questo senza la menoma affettazione, o sembianza d’imitazione, o di lingua o
stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del
cinquecento). Nè Polibio, nè Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli
altri, e gli può venir dopo), nè Plutarco, nè lo stesso Luciano atticissimo ed
elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli
antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli
paragonati per questo capo.
(9.
Maggio 1821.)
Alla
p.1021. Così che la presente corruzione della lingua italiana e parlata e
scritta, aggiunge un nuovo e fortissimo ostacolo alla sua universalità. Giacchè
gli stranieri non conoscono, si può dire, altra letteratura nè lingua italiana
scritta, se non l’antica, non passando [1025]e non meritando di passare
le Alpi i nostri libri moderni, e non avendo noi propriamente letteratura (non
dico scienze) moderna, e neppur lingua moderna stabilita, formata, riconosciuta
e propria. D’altra parte non conoscono nè possono conoscere altra lingua
italiana parlata, se non quella che oggi si parla, tanto diversa dall’antica e
parlata e scritta, e dalla buona e vera e propria favella italiana. Lo stesso
appresso a poco si può dire dello spagnuolo.
(9.
Maggio 1821.)
La
cognizione stessa che i greci di qualunque tempo, ebbero de’ padri e teologi
latini ec. soli scrittori latini ch’essi conoscessero, non fu (se non forse ne’
più barbari secoli di mezzo) paragonabile a quella che ebbero i latini dei
padri, ed autori ecclesiastici greci, massime nei primi secoli del
cristianesimo, e negli ultimi anni dell’impero greco (Andrès, loc. cit. da me
p.1023. t.3. p.55.), quando la dimostrarono principalmente in occasione del
concilio di Firenze. (ivi).
(9.
Maggio 1821.)
Sebben l’uomo
desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacer materiale e
sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per
credere che si tratti di qualche cosa spirituale. Quello spirituale che noi
concepiamo confusamente nei nostri desiderii, o nelle nostre sensazioni [1026]più
vaghe, indefinite, vaste, sublimi, non è altro, si può dire, che l’infinità, o
l’indefinito del materiale. Così che i nostri desiderii e le nostre sensazioni,
anche le più spirituali, non si estendono mai fuori della materia, più o meno
definitamente concepita, e la più spirituale e pura e immaginaria e
indeterminata felicità che noi possiamo o assaggiare o desiderare, non è mai nè
può esser altro che materiale: perchè ogni qualunque facoltà dell’animo nostro
finisce assolutamente sull’ultimo confine della materia, ed è confinata
intieramente dentro i termini della materia.
(9.
Maggio 1821.)
Se i
principi risuscitassero le illusioni, dessero vita e spirito ai popoli, e
sentimento di se stessi; rianimassero con qualche sostanza, con qualche realtà
gli errori e le immaginazioni costitutrici e fondamentali delle nazioni e delle
società; se ci restituissero una patria; se il trionfo, se i concorsi pubblici,
i giuochi, le feste patriotiche, gli onori renduti al merito, ed ai servigi
prestati alla patria tornassero in usanza; tutte le nazioni certamente
acquisterebbero, o piuttosto risorgerebbero a vita, e diverrebbero grandi e
forti e formidabili. Ma le nazioni meridionali massimamente, e fra queste
singolarmente l’Italia e la Grecia (purchè tornassero ad esser nazioni)
diverrebbero un’altra volta invincibili. Ed allora [1027]si tornerebbe a
conoscere la vera ed innata eminenza della natura meridionale sopra la
settentrionale, eminenza che le nostre nazioni ebbero sempre, mentre non
mancarono di forti, grandi, e generali illusioni, e de’ motivi e dell’alimento
di esse; eminenza che da gran tempo, ma specialmente oggi, sembra per lo
contrario, con vergogna, dirò così, della natura, appartenere (e non solo nella
guerra, ma in ogni genere di azione, di energia, e di vita) agli
abitatori dei ghiacci e delle nebbie, alle regioni meno favorite, anzi quasi
odiate dalla natura:
Quod latus
mundi nebulae malusque
Juppiter
urget.
Notabile
che come gli antichi si rassomigliano al carattere meridionionale e i moderni
al settentrionale, così la civiltà ec. antica fu principalmente meridionale, la
moderna settentrionale. È già notato che la civiltà progredisce da gran tempo
(sin da’ tempi indiani) dal sud al nord, lasciando via via i paesi del sud. Le
capitali del mondo antico furono Babilonia, Menfi, Atene, Roma; del moderno,
Parigi, Londra, Pietroburgo! che climi! Conseguenza naturale dell’esser tolta
ai popoli meridionali l’attività e l’uso della molla principale della loro vita,
cioè della immaginazione; molla che quando è capace di azione (e non può
esserlo senza le circostanze corrispondenti) vince la forza di tutte le altre
molle che possono fare agire i popoli settentrionali, e qualunque popolo. Anzi
veramente i popoli settentrionali, massime i più bellicosi e terribili, non
agiscono per nessuna molla, per nessuna forza propria del loro meccanismo, ed
interna; ma per mero impulso altrui, per mera influenza di coloro, ai quali
essi ubbidiscono, se anche sono comandati di mangiar della paglia.
[1028]La cosa più durevolmente e
veramente piacevole è la varietà delle cose, non per altro se non perchè
nessuna cosa è durevolmente e veramente piacevole.
(10.
Maggio 1821.
Delle
prime grammatiche italiane v. Andrès, Stor. della letteratura, ediz. di Venezia
del Vitto. t.9. p.316. fine. cioè Parte 2. lib.4. c.2.
(10.
Maggio 1821.)
Del
sogno d’istituire una lingua universale v. Andrès, loc. cit. qui sopra, p.320.
e il Locke del Soave t.2. p.62-76. ediz. terza di Venezia 1794.
(10
Maggio 1821.)
La
Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri nella sua
Vita. Così Dante nell’italiano, ec. Non per altro se non perch’essendo i più
antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande,
della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel mondo tutto a poco a poco,
e in proporzione de’ suoi progressi, divien brutto, piccolo, morto, monotono.
Se la
universalità di una lingua dipendesse dalla diffusione di coloro a’ quali essa
è naturale, nessuna lingua avrebbe oggi questa proprietà più dell’inglese,
giacchè gli stabilimenti inglesi occupano più gran parte del mondo, e sono più
numerosi di quelli d’ogni altra nazione europea; e la nazione inglese è la più
viaggiatrice del mondo.
(11.
Maggio 1821.)
[1029]La lingua latina superò per esempio
la lingua antica Spagnuola, la Celtica ec. mediante la semplice introduzione
nella Spagna, nelle Gallie ec. del governo, leggi, costumi Romani. Ma a superar
la greca non le bastò neppure il trasportar nella Grecia la stessa Roma, e
quasi la stessa Italia.
(11.
Maggio 1821.)
Alla
p.991. Eccetto il solo Fedro, o ch’egli fosse Trace, come è creduto
comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come mostrano
Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico detto il Trace) o
Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita Phaedri, praemissa
Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. v. seq.) La cui latinità, sebbene a molti
non pare eccellente e perfettissima certo però è superiore al mediocre.
(11.
Maggio 1821.)
Alla
p.245. La lingua francese si mantiene e si manterrà lungo tempo universale, a
cagione della sua struttura ed indole. E certo però che l’introduzione di
questa lingua nell’uso comune, e il principio materiale della sua universalità,
si deve ripetere e dalla somma influenza politica della Francia nel tempo
passato; e dalla sua influenza morale come la più civilizzata nazione del
mondo, e per conseguenza dalle sue mode, ec. o vogliamo dire dalla moda di
esser francese, [1030]dal regno e dittatura della moda, che la Francia
ha tenuto e tiene ec.; e principalissimamente ancora dalla sua letteratura,
dalla estensione di lei, e dalla superiorità ed influenza che ella ha
acquistata sopra le altre letterature, non per altro, se [non] per essere
esclusivamente e propriamente moderna, e perchè la letteratura precisamente
moderna è nata (a causa delle circostanze politiche, morali, civili ec.) prima
che in qualunque altra nazione, in Francia, e quivi è stata coltivata più che
in qualunque altro luogo, e più modernamente o alla moderna che in qualunque
altro paese. Ma la durata di questa universalità, quando anche cessino le dette
ragioni, (come in parte sono cessate) essa la dovrà alla sua propria indole;
laddove quella tal quale universalità acquistata già dalle lingue spagnuola,
italiana ec. sono finite insieme colle ragioni estrinseche che la
producevano, non avendo esse lingue disposizione intrinseca alla
universalità. Con queste osservazioni rettifica quello che ho detto p.240-245.
E in quanto alla letteratura, ed alla influenza morale ec. ec. è certo che
queste furono le ragioni estrinseche della universalità della lingua
greca, la quale però ne aveva anche le sue ragioni intrinseche, mancanti
affatto alla latina, che perciò non fu mai veramente universale, [1031]nè
durò, come la greca ancor dura, non ostante che abbondasse delle ragioni estrinseche di universalità.
(11.
Maggio 1821.). V. p.1039. fine.
Che la
lingua italiana massimamente e proporzionatamente la spagnuola ancora e la
francese, come spiegherò poi, sieno derivate dall’antico volgare latino, si
dimostra non solo coi fatti oscuri, e coll’erudizione recondita, ma col semplice
ragionamento sopra i fatti notissimi e certi, e sopra la natura delle cose. La
lingua italiana è derivata dall’antica latina, e questo è palpabile. La lingua
italiana è una lingua volgare. Ma nessuna lingua volgare deriva da una lingua
scritta e propria della letteratura, se non in quanto questa lingua scritta
partecipa della medesima lingua parlata, e parlata volgarmente. La lingua
latina scritta differiva moltissimo dalla parlata, e ciò si rileva sì dall’indole
del latino scritto che non poteva mai esser volgare, sì dalla testimonianza
espressa di Cicerone. Dunque se la lingua italiana è derivata dalla latina, e
la italiana non è semplicemente scritta o letterata, ma volgare e parlata, non
può esser derivata dal latino scritto, ma è derivata dal latino volgare.
Da che
ci era un latino volgare assai differente dallo scritto, è costante che l’italiano
volgare derivato dal latino, non può esser derivato dallo scritto, ma da quello
volgare e parlato.
[1032]Questo ragionamento serve per tutte
le lingue derivate dal latino, e per tutte quelle derivate da qualunque altra
lingua antica, dove lo scritto differisse notabilmente dal parlato. Ma serve
specialmente per l’italiano, ch’è la lingua volgare di quello stesso paese a
cui fu naturale il latino.
Qual
lingua avrà parlato l’Italia ne’ secoli bassi? forse il latino scritto? Chi può
credere quest’assurdità che i secoli barbari parlassero meglio de’ civili?
Forse le lingue de’ popoli settentrionali, suoi conquistatori? 1. È noto e
costante da testimonianze e osservazioni di fatto che questi popoli in luogo d’introdurre
la loro lingua fra i conquistati, imparavano anzi e adoperavano quella di
costoro. V. Andrès, t.2. p.330.
2. Di
parole settentrionali ognuno sa quanto poche ne rimangano nell’italiano, e così
pure nel francese e nello spagnuolo, e come il corpo, la sostanza, il grosso,
il fondo principale e capitale di queste lingue, e massime dell’italiano,
derivi dal latino, e sia latino.
Dunque l’Italia
ne’ secoli bassi parlò certamente il latino. Latino corrotto, ma latino. Qual
latino dunque? Lo scritto no: dunque il volgare, cioè la sua lingua di prima,
il suo volgare di prima. Giacchè la sua lingua, il suo volgare di prima, non
era il latino [1033]scritto, nè poteva essere, ma il latino volgare.
Anche questo volgare si sarà parlato corrottamente, ma la sostanza, il grosso
ec. della lingua allora parlata, doveva esser quello di detto volgare, da che
oggi il grosso dell’italiano è derivato dal latino, ed è latino.
Comunemente
pare che si supponga che s’interrompesse o affatto o quasi affatto l’uso
volgare del latino in Italia, restandone solo l’uso civile, religioso e
letterario, e che da quest’uso, e dal latino scritto ec. rinascesse poi di
nuovo l’uso di una lingua volgare latina, o derivata dal latino, cioè dell’italiana;
e così questa venga ad essere derivata dal latino scritto, sia per mezzo del
provenzale che nascesse prima dell’italiano, o per qualunque altro mezzo.
Queste
sono favole assurdissime e (oltre che non hanno alcun fondamento) contrarie
alla natura delle cose.
Dovunque
il latino non è stato in uso se non come lingua civile, religiosa, scritta,
letteraria ec. le lingue nazionali e volgari sono rimaste; e in luogo che dal
latino scritto ec. derivasse e nascesse in questi luoghi una lingua figlia della
latina, la lingua volgare ha per lo contrario scacciata la latina anche dalla
scrittura, e dall’uso letterario e civile. In Germania, [1034]in
Inghilterra, in Polonia dove ne’ secoli bassi si usava il latino (ed in Polonia
anche dopo), ma non mai come lingua parlata, e solo come civile, religiosa,
letteraria; non vi è nata dal latino nessuna lingua; restano le antiche lingue
nazionali, restano le lingue volgari; o vogliamo dire, restano le lingue
derivate dalle dette naturali e volgari, e la latina è sparita dall’uso civile
e dal letterario. Lo stesso dirò della Grecia, dove il latino fu introdotto
solamente come lingua del governo ec. v. p.982.983. Lo stesso pure dell’italiano,
dello Spagnuolo, del Francese, i quali parimente scacciarono la stessa lingua lor
madre, dall’uso civile, politico, letterario. E questo si può vedere pure nell’esempio
della lingua francese introdotta come civile ec. in Inghilterra per la
conquista de’ Normanni (v. p.1011. fine); dell’arabica introdotta già nello
stesso modo in parte della Spagna (Andrès 2. 263.-273.), e poi similmente
scacciate dalla letteratura e da ogni luogo. V. pure gli Ann. di Sc. e lett.
num.11. p.29.32. E così porta la natura delle cose, che non la lingua degli
scrittori cambi quella del popolo, e s’introduca nel popolo, ma quella del
popolo vinca quella degli scrittori, i quali scrivono pure pel popolo e per la
moltitudine; non la scritta scacci la parlata, ma la parlata superi presto o
tardi, ed uniformi più o meno la scritta a se medesima. V. p.1062.
Se la
lingua gotica o qualunque altra lingua settentrionale o no, si fosse stabilita
veramente in Italia come lingua volgare e parlata, restando ancora la latina
come scritta ec.; oggi noi parleremmo e scriveremmo quella o quelle tali
lingue, e non una lingua derivata dalla latina.
Ma
accadendo il contrario è manifesto che la lingua volgare d’Italia, fu senza
interruzione latina; e se fu tale senza interruzione fino a noi, dunque fu
senza interruzione quel latino volgare più o meno alterato, che si parlava
anticamente, e non già lo [1035]scritto; dunque noi oggi parliamo una
lingua derivata da esso volgare, e il cui fondo capitale appartiene, anzi è lo
stesso che quello dell’antico volgare latino.
Discorro
allo stesso modo dello Spagnuolo e del francese. Se queste lingue sono volgari,
e derivano dal latino, dunque dal latino parlato, e non dallo scritto; dunque
dal latino volgare; dunque la lingua latina si stabilì nella Spagna e nella
Francia come lingua parlata, e non solamente come lingua civile, governativa, letteraria
(e così è infatti, e nella lingua francese restano pochissime parole Celtiche,
nella spagnuola nessun vestigio dell’antica lingua di Spagna: Andrès, 2. 252.);
dunque il volgare latino più o meno alterato da mescolanza straniera, si
mantenne senza interruzione in Ispagna e in Francia (siccome in Valacchia)
dalla sua prima introduzione, sino al nascimento della lingua spagnuola e
francese, e per mezzo di queste sino al dì d’oggi. Dell’antica origine della
presente lingua spagnuola, e come i più vecchi monumenti che ne restano, siano,
come quelli della lingua provenzale, francese ec. conformissimi al latino, v.
un esempio recato in quella lingua dall’Andrès 2.286.fine.
Conchiudo.
Se la lingua italiana, ch’è volgare, è derivata dal latino, ella dunque non può
essere [1036]derivata dal latino scritto sì diverso dal parlato, ma
dirittamente viene dall’antico volgare latino, ed è nella sostanza e nel suo
fondo principale, lo stesso che il detto volgare. E lo è per la circostanza
della località (lasciando ora le prove di fatto e di erudizione) più di quello
che lo siano lo spagnuolo e il francese. Questo ragionamento però vale per
qualunque lingua derivata sì dal latino, sì da qualunque altra lingua antica: e
ciascuna lingua moderna derivata da qualunque lingua antica, è derivata dal
volgare di essa lingua, e non dallo scritto. Che se la lingua tedesca, a detta
del Tercier, è fra tutte ec. v. p.1012. principio, questo accade perchè la
lingua antica teutonica scritta, come lingua incolta, o non bene determinata e
formata alla scrittura, come lingua illetterata ancorchè scritta, pochissimo o
nulla differiva dalla parlata e volgare. Ma altrettanta e forse maggiore
uniformità si vedrebbe fra l’italiano e l’antico volgare latino, se di questo
si avesse maggior notizia. E dico maggiore uniformità non senza ragione di
fatto, considerando la molta differenza che passa poi realmente fra l’odierno
tedesco e il teutonico (Andrès, 2. 249-254.); e la somma rassomiglianza che io
in molti luoghi ho cercato di provare, fra l’italiano, [1037]e il latino
volgare antico. Così che la lingua italiana in vece di essere la più moderna di
tutte le viventi Europee, come pretendono, (Andrès, 2.256. e passim) si
verrebbe a conoscere o la più antica, o delle più antiche, perdendosi l’origine
di essa, e del suo uso, (non mai nel seguito interrotto, sebbene alterato)
nella oscurità delle origini dell’antichissimo e primo latino. A differenza
dello spagnuolo e del francese, perchè in queste nazioni l’uso del volgare
latino, fu certo molti e molti secoli più tardo che in Italia.
Basta
vedere il principio dell’Orazione ƒEpit‹fiow attribuita a Demostene, dove
discorre della nobiltà del popolo Ateniese, per conoscere come fosse fermo fra
gli antichi il dogma della disuguaglianza delle nazioni, e come si aiutassero
delle favole, delle tradizioni ec. per persuadersi, e tener come cosa non
arbitraria, ma ragionata e fondata, che la propria nazione fosse di genere e di
natura, e quindi di diritti ec. ec. diversa dalle altre. Persuasione utilissima
e necessaria, come altrove ho dimostrato.
(12.
Maggio 1821.)
Una
lingua non si forma nè stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura.
Questo è chiaro dall’esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla
letteratura è stata mai formata nè stabilita, [1038]e molto meno
perfetta. Come dunque la perfezione dell’italiana starà nel 300? Altro è
scrivere una lingua (come si scriveva l’antica teutonica, non mai ben formata
nè perfetta) altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l’italiano non fu
applicato che nel 500. Nel 300. veramente e propriamente da tre soli (lasciando
le barbare traduzioni di quel secolo), il che ognun vede se si possa chiamare,
perfetta applicazione alla letteratura. Se lo scrivere una lingua fosse lo
stesso che l’applicarla alla letteratura, l’epoca della perfezione della latina
si dovrebbe porre non nel secolo di Cicerone ec. ma nel tempo dei primi
scrittorelli latini; ovvero con molto più ragione in quello d’Ennio ec. e degli
scrittori anteriori a Lucrezio, a Catullo, a Cicerone (contemporanei) giacchè
allora il latino fu applicato generalmente a lavori molto più letterarii, che
nella universalità del 300. E così dico pure delle altre lingue o morte, o
viventi.
(12.
Maggio 1821.). V. p.1056.
Nei
tempi bassi furono veramente dÛglvttoi i tedeschi e gl’inglesi, ossia la
parte colta di queste nazioni, che scrivevano il latino, se ne servivano per le
corrispondenze, lettere ec. e parlavano le lingue nazionali. E così pure gl’italiani,
i francesi, gli spagnuoli, che parlavano già un volgare assai diverso dal
latino scritto. Ma questa:
1.E una diglvttÛa che appartenendo allo
scritto e non al parlato, non entra nel mio discorso. E la [1039]universalità
del latino, ch’era allora universale in occidente, era universalità che
appartenendo alla sola scrittura, non ha che fare con quella che rende gli
uomini parlatori di due lingue, cioè veramente dÛglvttoi, della quale sola io discorro.
2. La
lingua latina era allora veramente morta, appresso a poco come oggi, non
essendo parlata, ma solo scritta. E una lingua solamente scritta è lingua
morta. Ora, quantunque l’uso di una tal lingua morta fosse allora più comune
che oggidì, e così anche fosse dopo il risorgimento delle lettere; la
universalità delle lingue morte che si studiavano e si studiano o per usi
letterarii, o per vecchia costumanza, non entra nel mio discorso, il quale
tratta solo della universalità delle lingue vive. Così anche oggi si potrebbe
chiamare presso a poco universale la lingua greca in Europa, e ne’ paesi colti,
ma come lingua morta.
(12.
Maggio 1821.)
Alla
p.1031. principio. Come la letteratura, così la lingua francese è precisamente
moderna, sì per l’influenza somma nella lingua della letteratura che la forma
(e nel nostro caso l’ha singolarmente formata e determinata, mutandola assai da
quella ch’era da principio, e dalla sua stessa indole primitiva); sì per l’influenza
immediata sulla lingua francese delle stesse cagioni che hanno influito sulla
letteratura francese, e formatala. [1040]Or come la lingua francese è
strettamente moderna, e quindi strettamente propria all’odierna universalità,
per esser modellata sulla ragione, e oggi (secondo il vero andamento del
secolo) quasi sulla matematica; così la lingua greca era propria alla
universalità de’ tempi suoi, massime fra’ popoli del meriggio orientali e
occidentali, che sono e furono sempre più immaginosi; e ciò per essere
strettamente antica, e questo per essere strettamente modellata (nel perfetto)
sulla natura. A differenza della latina modellata piuttosto sull’arte. E si può
dire che la perfezione della lingua greca era conforme, ed aveva il suo
fondamento nella natura, non essendo perciò meno perfetta, nè artificiata; e la
perfezione della latina era conforme, ed aveva il suo modello, il suo tipo, il
suo fondamento, la sua norma nell’arte.
(12.
Maggio 1821.)
Alla
p.1016. In ogni modo le parole greche che si trovano nell’uso familiare e
popolare, italiano o francese, (massime se non si trovano presso gli scrittori
latini) non possono esser derivate se non dall’antico volgare latino, da
qualunque parte esso le abbia ricevute, o dalla Grecia direttamente, e ab
antico, per qualunque mezzo; o da un’origine comune con quella della lingua
greca, ovvero dalle colonie greche d’Italia o delle Gallie, o da qualunque [1041]comunicazione
avuta colla lingua greca. Come infatti le dette parole avrebbero potuto
pervenire a noi, senza passare pel volgare latino? Quando la lingua greca si
spense nelle Gallie assai per tempo, e così pure in Italia (sebben forse più
tardi p.e. in Sicilia, che nelle Gallie); ed all’incontro il volgare latino
stabilitosi in detti luoghi, ha durato con maggiore o minore alterazione, e
dura dal suo stabilimento fino ad oggidì? In qualunque maniera dunque, le
parole greche che oggi sono volgari (non dico le scientifiche, o proprie
de’ soli scrittori) nell’italiano o nel francese, (e così nello spagnuolo);
quelle che appartengono propriamente a queste lingue, e possono considerarsi
come loro primitive; dovettero essere necessariamente nell’antico volgare
latino, che sta di mezzo fra l’uso del greco in alcuni paesi d’Italia o di
Francia, e l’uso dell’italiano o del francese: in maniera che le dette parole
hanno dovuto passare necessariamente pel detto canale, e quindi appartenere all’antico
volgare latino. Nè dopo la grande e principale alterazione di questo volgare, e
il nascimento de’ volgari moderni che ne derivano, l’Italia o la Francia hanno
avuto colla lingua greca, (e massime coll’antica, o anche antichissima, alla
quale appartengono parecchie delle dette parole o modi) [1042]comunicazione
veruna sufficiente a introdurre nel nostro uso quotidiano, e comune parole e modi greci, e spesso di prima necessità, o di frequentissimo uso;
qualità osservatissima dagli etimologisti filosofi, e di gran rilievo presso
loro.
Resta
dunque inconcusso il mio discorso, e la mia proposizione, che le parole o modi
italiani o francesi o spagnuoli, che derivano dal greco, che spettano all’uso
volgare, al capitale antico, primitivo, proprio di dette lingue, che non si trovano
presso gli scrittori latini, debbono essere stati indispensabilmente ed esserci
venuti dal volgare antico latino, derivando le dette lingue dal latino, anzi da
esso volgare, e non potendo aver preso nessuna parola o modo volgare, o
primitivo loro, immediatamente dalla lingua greca.
Il qual
discorso, se si tratta di parole o modi italiani, ha la sua piena forza, e
dimostra l’esistenza di dette parole o modi nell’antico volgare latino proprio,
cioè in quello che si parlava anticamente in Italia. Trattandosi di parole
francesi, lo può solamente dimostrare, rispetto all’antico volgare latino che
si parlava nelle Gallie, il quale poteva differire alquanto (e certo differiva,
come dialetto) da quello parlato in Roma o in Italia. Vale a dire che in quel
volgare, vi poteva essere qualche parola o modo greco, derivato dalle colonie
greco-galliche, il quale non [1043]si trovasse nel volgare latino di
Roma, o d’Italia. Massimamente se le dette parole non si trovano oggi se non se
nella lingua francese, e se mancano all’italiana. E così anche viceversa, se
qualche parola greca passò in quest’ultimo volgare dalle Colonie
greco-italiane, o da altra comunicazione coi greci viaggiatori ec. ec. dopo l’introduzione
del volgare latino nelle Gallie. (13. Maggio 1821.). Giacchè le altre parole
greche introdotte già nel latino prima di quel tempo, ancorchè venute dalle
colonie greche d’Italia, non fa maraviglia se passarono col latino anche in
Francia ed altrove.
L’Inghilterra
in dispetto del suo clima, della sua posizione geografica, credo anche dell’origine
de’ suoi abitanti, appartiene oggi piuttosto al sistema meridionale che al
settentrionale. Essa ha del settentrionale tutto il buono (l’attività, il
coraggio, la profondità del pensiero e dell’immaginazione, l’indipendenza,
ec. ec.) senz’averne il cattivo. E così del meridionale ha la vivacità, la
politezza, la sottigliezza (attribuita già a’ Greci: v. Montesquieu Grandeur
etc. ch.22. p.264.) raffinatezza di civilizzazione e di carattere (a cui non si
trova simile se non in Francia o in Italia), ed anche bastante amenità e
fecondità d’immaginazione, e simili buone qualità, senz’averne il torpore, la
inclinazione all’ozio o alla inerte voluttà, la mollezza, l’effeminatezza, la
corruzione debole, sibaritica, vile, francese; il genio pacifico ec. ec. Basta
paragonare un soldato inglese a un soldato tedesco o russo ec. per conoscere l’enorme
differenza che passa fra il carattere inglese e il settentrionale. E siccome l’Italia
non ha milizia, e la Spagna non la sa più adoperare, ec. non v’è milizia in
Europa più somigliante alla francese dell’inglese, più competente colla
francese, per l’ardore e la vita individuale, la forza morale [1044]la
suscettibilità ec. del soldato, e non la semplice forza materiale, come quella
de’ tedeschi, de’ russi ec. V. p.1046.
Tutto
ciò verrà forse da altre cagioni, ma forse anche dal loro governo e
costituzione politica, stata sempre più simile alle antiche di qualunque altra
Europea, fino al dì d’oggi ch’è stata appresso a poco adottata da’ francesi,
dov’è troppo presto per vederne gli effetti. Ora egli è certo che l’antico è
sempre superiore al moderno in quanto spetta alla immaginazione, e che in
questa, anche gli antichi settentrionali che cedevano ai meridionali antichi,
erano però ben superiori ai meridionali moderni.
La
rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a
poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai
più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra
di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perchè in
lontananza sembra di poterlo gustare. La lontananza giova egualmente all’uomo
nell’una e nell’altra situazione; e si può conchiudere che il peggior tempo della
vita è quello del piacere, o del godimento.
(13.
Maggio 1821.)
[1045]Chi vuol vedere quanto abbia la
natura provveduto alla varietà, consideri quanto l’immaginazione sia più varia
della ragione, e come tutti si accordino in ciò che spetta o è fondato su
questa, e viceversa. Per esempio osservi come fossero varie le lingue antiche
architettate sul modello della immaginazione, e quanto monotone quelle moderne
che più sono architettate sulla ragione. Osservi come una lingua universale
debba esser modellata e regolata in tutto e perfettamente dalla ragione,
appunto perchè questa è comune a tutti, ed uguale e uniforme in
tutti.
(13.
Maggio 1821.)
La
Francia è per geografia la più settentrionale delle regioni Europee che si
comprendono sotto la categoria delle meridionali. Così dunque la sua lingua
partecipa di quella esattezza, di quella, per così dire, pazienza, di quella
monotonia, di quella regolarità, di quella rigorosa ragionevolezza che forma
parte del carattere settentrionale. E così pure la sua letteratura in gran
parte filosofica, e generalmente il suo gusto letterario, sebben ciò derivi in
gran parte dall’epoca della sua lingua e letteratura; epoca moderna, e per
conseguenza epoca di ragione. Come per lo contrario l’Inghilterra ch’è per
carattere la regione meno settentrionale di tutte le settentrionali, (v.
p.1043.) ha una lingua delle [1046]più libere d’Europa colta per indole;
e per fatto la più libera di tutte (Andrès, t.9. 290 291. 315-316.); e
parimente la letteratura forse più libera d’Europa, e il gusto letterario ec.
Parlo della sua letteratura propria, cioè della moderna, e dell’antica di
Shakespeare ec. e non di quella intermedia presa da lei in prestito dalla
Francia. E parlo ancora delle letterature formate e stabilite ed adulte; e non
delle informi o nascenti.
(13.
Maggio 1821.)
Alla
p.1044. Ciò è manifesto anche dal fatto, dalla continua e famosa gara della
nazione inglese colla francese, dalle molte vittorie, e talvolta formidabili,
degl’inglesi sopra i francesi, riportate massime anticamente ec. ec. e dall’essere
stata forse l’Inghilterra (fino agli ultimi tempi) quasi l’unica potenza che si
sia battuta a solo a solo colla francese, con costante competenza, ancorchè
tanto inferiore di popolazione, e considerando specialmente le altre potenze di
forze uguali all’Inghilterra, fra le quali essa si troverà l’unica capace di
far fronte per lo passato alla Francia.
Principalissime
cagioni dell’essersi la lingua greca per sì lungo tempo mantenuta incorrotta
(v. Giordani nel fine della lettera sul Dionigi) furono indubitatamente la sua
ricchezza, e la sua libertà d’indole e di fatto. La qual libertà produce in
buona parte la ricchezza; la qual libertà è la più [1047]certa, anzi
necessaria, anzi unica salvaguardia della purità di qualunque lingua. La quale
se non è libera primitivamente e per indole, stante l’inevitabile mutazione e
novità delle cose, deve infallibilmente declinare dalla sua indole primitiva, e
per conseguenza alterarsi, perdere la sua naturalezza e corrompersi: laddove
ella conserva l’indole sua primitiva, se fra le proprietà di questa è compresa
la libertà. E quindi si veda quanto bene provveggano alla conservazione della
purità del nostro idioma, coloro che vogliono togliergli la libertà, che per
buona fortuna, non solo è nella sua indole, ma ne costituisce una delle
principali parti, e uno de’ caratteri distintivi. E ciò è naturale ad una
lingua che ricevè buona parte di formazione nel trecento, tempo liberissimo,
perchè antichissimo, e quindi naturale, e l’antichità e la natura non furono
mai soggette alle regole minuziose e scrupolose della ragione, e molto meno
della matematica. Dico antichissimo, rispetto alle lingue moderne, nessuna
delle quali data da sì lontano tempo il principio vero di una formazione molto
inoltrata, e di una notabilissima coltura, ed applicazione alla scrittura: nè
può di gran lunga mostrare in un secolo così remoto sì grande universalità e
numero di scrittori e di parlatori ec. che le servano anche oggi di modello. E
questa antichità [1048]di formazione e di coltura, antichità unica fra
le lingue moderne, è forse la cagione per cui l’indole primitiva della lingua
italiana formata, è più libera forse di quella d’ogni altra lingua moderna
colta (siccome pure dell’esser più naturale, più immaginosa, più varia, più
lontana dal geometrico ec.).
Tutte le
lingue non formate sono libere per indole, e per fatto. Tutte le lingue nella
loro formazione primitiva, sono parimente libere, qual più qual meno, e per
indole e per fatto. La quale libertà vengono poi perdendo appoco appoco secondo
le circostanze della loro formazione. Tutte ne perdono alquanto (e giustamente)
coll’essere ridotte a forma stabile, ma qual più qual meno, e ciò dipende dal
carattere sì dei tempi come delle nazioni e degli scrittori che le formano.
Parlando
dunque delle lingue dopo che sono perfettamente formate, io trovo rispetto alla
libertà, tre generi di lingue. Altre libere per natura e per fatto, come l’inglese.
Altre libere per natura, ma non in fatto, come si vuole oggi ridurre la nostra
lingua da’ pedanti, non per altro se non perchè i pedanti non possono mai
conoscere fuorchè la superficie delle cose, e susseguentemente non hanno mai
conosciuto nè conosceranno l’indole della lingua italiana. Una [1049]tal
lingua, malgrado la libertà primitiva e propria della sua formazione, e del suo
carattere formato, è soggetta niente meno a corrompersi, non usando nel
fatto, di questa libertà, secondo il genio proprio suo; ed a perdere la prima e
nativa libertà, per usurparne poi necessariamente una spuria ed impropria ed
aliena dal suo carattere, come oggi ci accade. E già nel 500. si era cominciata
a dimenticare da alcuni (come dal Castelvetro ec.) questa qualità della nostra
lingua, dico la libertà, cosa veramente accaduta a quasi tutte le lingue, e
spesso ne’ loro migliori secoli, appena vi s’è cominciata a introdurre, la
sterile e nuda arte gramaticale, in luogo del gusto, del tatto, del giudizio,
del sentimento naturale e dell’orecchio ec.
Il terzo
genere è delle lingue non libere nè per natura nè in fatto, come la francese.
Lingue che vanno necessariamente a corrompersi. La lingua latina, la cui
formazione non le diede un’indole libera (v. p.1007. fine-1008.), si corruppe
con maravigliosa prestezza. Ed osservo nella poetica d’Orazio che a’ suoi tempi
la novità delle parole era contrastata agli scrittori latini, come oggi agli
italiani da’ pedanti, cosa che io non mi ricordo [1050]mai di aver
notato in nessun scrittor greco in ordine alla lingua greca (e lo stesso dico d’ogni
altra lingua antica). Al più i gramatici e filologi greci non molto antichi nè
degli ottimi tempi della favella, faranno gli smorfiosi intorno alla purità
dell’Atticismo, e all’escludere questa o quella parola o frase da questo o quel
dialetto, riconoscendola però per greca, e non escludendola dalla scrittura
greca, come fanno i toscani rispetto all’italiana.
Diranno
che la lingua francese, la più timida, serva, legata di tutte quante le lingue
antiche e moderne, colte o incolte, si mantiene tuttavia pura. Rispondo
1.
La lingua francese schiava rispetto ai modi è liberissima (sia per legge o per
fatto) nelle parole.
2. La
servilità di una lingua è incompatibile colla durata della sua purità, a causa
della inevitabile mutazione e novità delle cose. Ma la lingua francese formata
com’è oggi, è ancor nuova. Le circostanze hanno voluto che ella ricevesse una
forma stabile in un tempo moderno, e da questa forma fosse ridotta ad esser
lingua precisamente di carattere moderno. Non è dunque maraviglia se le cose
moderne non la corrompono. La quale modernità [1051]di formazione, fu
anche la causa della sua servilità. Se fosse stato possibile che la lingua
francese ricevesse una forma di genere simile a quella che ha presentemente, e
divenisse così servile, al tempo in cui fu formata p.e. la lingua italiana;
ella sarebbe oggi così barbara, e sformata; avrebbe talmente perduta quella tal
forma ed indole, che non si potrebbe più riconoscere. Come infatti la lingua
francese così formata come fu dall’Accademia, non si riconosce dall’antica; e
gli Accademici (o l’età e il genio d’allora) per ridurla così doverono
trasformarla affatto dall’antica sua natura (v. Algarotti Saggio sulla lingua
francese); il che sarebbe stato insomma lo stesso che guastarla, e la lingua
francese si chiamerebbe oggi corrotta, se prima di quel tempo ella avesse mai
ricevuta una forma stabile. E quantunque non l’avesse ricevuta, e gli scritti
anteriori non sieno per lo più di gran pregio, nondimeno il solo Amyot, tenuto
anche oggi per classico, mostra che differenza passi tra l’antica e primitiva e
propria indole della lingua francese e la moderna; mostra che se quella lingua
fosse stata mai classica, (il che non mancò se non dalla copia di tali
scrittori) la presente sarebbe barbara; mostra quanto quella lingua fosse
libera nelle forme e nei modi ec. mostra la differenza delle nature de’ tempi
anche in Francia ec. E notate che anche Amiot, come pure Montagne, Charron ec.
furono nel secolo del 500. epoca della vera formazione delle lingue italiana e
spagnuola, e della letteratura di queste nazioni. E ben credo che lo stile d’Amyot
formi la disperazione de’ moderni francesi [1052]che si studino d’imitarlo
(v. Andrès, t.3. p.97. nota del Loschi), giacchè la loro lingua ne ha perduta
interamente la facoltà, e v. il luogo di Thomas che ho citato altrove.
3. Ho
già detto in altri luoghi come la lingua francese vada effettivamente
degenerando dagli stessi scrittori classici del tempo di Luigi 14. in
proporzione della diversità de’ tempi, naturalmente assai minore di quella che
corre fra il tempo presente, e quello della formazione p.e. della lingua
italiana, e qual sia il pericolo che corre massimamente l’odierna lingua
francese, pericolo veramente non di lei sola, ma di tutte le lingue; e non
delle lingue sole, ma delle letterature ugualmente; e non solo di queste, ma
degli uomini e delle nazioni e della vita del nostro tempo; cioè il pericolo di
divenir matematici di filosofici e ragionevoli che sono stati da qualche tempo
fino ad ora, e di naturali che furono anticamente. (14. Maggio 1821.).
Dell’ignoranza
del latino presso i greci v. Luciano, Come vada scritta la storia.
(14.
Maggio 1821.)
Alla
p.988. Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel libro de
Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in latino. Non
così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai posteriori anche ai
principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o scrittori ecclesiastici
latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in proporzione delle molte
autorità di padri greci ec. che recavano i latini, [1053]voltandoli nel
loro linguaggio. E generalmente l’uso de’ padri ec. latini nella Chiesa e
scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di quello delle autorità
greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non ostante la
riconosciuta supremazia della Chiesa Romana.
Considerando
per una parte quello che ho detto p.937. seguenti, intorno alla naturale
ristrettezza e povertà delle lingue, e come la natura avesse fortemente
provveduto che l’uomo non facesse fuorchè picciolissimi progressi nel
linguaggio, e che il linguaggio umano fosse limitato a pochissimi segni per
servire alle sole necessità estrinseche e corporali della vita; e per l’altra
parte considerando le verissime osservazioni del Soave (Appendice 1. al capo
11. Lib.3. del Saggio di Locke) e del Sulzer (Osservaz. intorno all’influenza
reciproca della ragione sul linguaggio, e del linguaggio sulla ragione, nelle
Memorie della R. Accadem. di Prussia, e nella Scelta di Opusc. interessanti,
Milano 1775. vol.4. p.42-102.) intorno alla quasi impossibilità delle
cognizioni senza il linguaggio, e proporzionatamente della estensione e
perfezione ec. delle cognizioni, senza la perfezione, ricchezza ec. del
linguaggio; considerando, dico, tutto ciò, si ottiene una nuova e
principalissima prova, di quanto il nostro presente [1054]stato e le
nostre cognizioni sieno direttamente e violentemente contrarie alla natura, e
di quanti ostacoli la natura vi avesse posti.
(15.
Maggio 1821.)
Come
senza una lingua sono quasi impossibili le cognizioni e nozioni, massime non
corporee, o immateriali, e senza una lingua ricca e perfetta, la moltitudine e
perfezione delle dette cognizioni ed idee, e il perfezionamento o il semplice
incremento delle lingue conferisce assolutamente a quello delle idee, conforme
ha evidentemente dimostrato, oltre a tanti altri e più antichi da Locke in poi,
(Sulzer, l. cit. qui dietro, p.101. nota del Soave) e massime più moderni, il
Sulzer nelle Osservazioni citate nella pag. qui dietro; così proporzionatamente
senza una lingua (propria) arrendevole, varia, libera ec. è difficilissima la
perfetta cognizione, e il perfetto sentimento e gusto dei segni proprii delle
altre lingue, mancando o scarseggiando l’istrumento della concezione dei segni,
come nell’altro caso sopraddetto, l’istrumento della concezione chiara e fissa,
determinata e formata delle cose e delle idee, e della memoria di dette
concezioni.
(15.
Maggio 1821.)
Non solo
la greca parola ux®, come dissi altrove, deriva da spirare
ec. ma anche la latina animus e quindi anima da nemow vento. V. Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p.62. E l’antico
significato di vento nella parola anima fu spesso usato da’ latini.
(Credo massime i più antichi, o loro imitatori.) V. il Forcellini, e il Saggio
sugli Errori popol. degli antichi.
(15.
Maggio 1821.)
[1055]Couper dee venire da kñptein.
Quanto
sia vero che la scrittura Chinese si possa quasi perfettamente intendere, senza
saper punto la lingua, v. se vuoi, Soave, Append. 2. al Capo 11. Lib.3. del
Compendio di Locke, Venez. 3a ediz. t.2. p.63. principio. (16.
Maggio 1821.).
L’incredulità
in qualunque genere è spesso propria di chi poco sa, e poco ha pensato, per lo
stesso motivo per cui questi tali non conoscono o si trovano imbrogliati nel
trovar la cagione o il modo come possano esser vere tante cose che non possono
negare. Conoscendo poche cose conoscono un piccol numero di cagioni, un piccol
numero di possibilità, un piccol numero di maniere di essere, o di accadere ec.
un piccol numero di verisimiglianze. Chi oltre il sapere e il pensar poco, non
ragiona, facilmente crede, perchè non si cura di cercare come quella cosa possa
essere. Ma chi, quantunque sapendo e pensando poco, tuttavia ragiona, o si
picca di ragionare, non vedendo come una cosa possa essere, e sapendo che
quello che non può essere, non è, non la crede; e questo non in sola apparenza,
o per orgoglio, affettazione di spirito ec. ma bene spesso in buona coscienza,
e naturalmente.
[1056]Alla p.1038. La lingua latina prima
del detto tempo, ebbe anzi alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori
di letteratura, e come scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere
furono così perfetti che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da
vincerli. Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi
(o C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici
elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo, l’uno
non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica, l’altro
parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa eleganza. E
certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo stesso tempo, andò
piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado di perfezione a cui
era stata portata da’ suoi antenati. E pure chi mette la perfezione della
lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel secolo di Terenzio, che in
quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo dopo Terenzio, si
lagnava, com’è noto, della povertà della lingua latina.
Quanto
più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del 300. De’ quali
eccetto 3. soli, nessuno appartiene alla letteratura.
Ma non
ostante la vastissima letteratura del 500. non però la lingua italiana si potè
ancora nè si può dire perfetta. Non basta l’applicazione di una lingua [1057]alla
letteratura per perfezionarla, ed interamente formarla. Bisogna ancora che sia
applicata ad una letteratura perfetta, e perfetta non in questo o quel genere,
ma in tutti. Altrimenti ripeto che il secolo principale della lingua latina,
non sarà quello di Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico
e primitivo, e meno influito da commercio straniero.
Ora
lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più soprastanno,
e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi primeggiamo su
tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora dalla perfezione e
raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti sono, e furon prese
effettivamente a modelli, da’ nostri scrittori: e per conseguenza propriamente
parlando, sono ancora imperfette. Ma la nostra eloquenza, e più la nostra
filosofia (e nella filosofia trovava povera la lingua latina Lucrezio) non sono
solamente imperfette, ma neppure incominciate. Quanti altri generi di
letteratura, (prendendo questa parola nel più largo senso), e di poesia come di
prosa, o ci mancano affatto, o sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando
gl’infiniti altri, la lirica italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere
del Verri (Pref. al Senof. del Giacomelli), [1058]e della universalità
degl’italiani, è senza emola, eccetto il Petrarca che spetta piuttosto
all’elegia, chi può mostrare all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini
(veri sforzi e stenti, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco
si sia guadagnato.
Oltracciò
supponendo che i generi coltivati da noi nel 500. o anche nel 300. fossero
tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando forma ed abito, e
quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli uomini e de’ secoli, la
perfezione antica non basta ad una lingua nè ad una letteratura, s’ella non ha
pure una perfezione moderna in quello stesso genere? Se Lisia fu perfetto
oratore al tempo de’ 30. tiranni, Demostene ed Eschine non meno perfetti
oratori a’ tempi di Filippo e di Alessandro, appartengono ad una specie del
genere oratorio sì diversa da quella di Lisia, che si può dire opposta (isxnòw, e il deinòw); e certo assolutamente parlando,
lo vincono di molto in pregio ed in fama. E potremmo recare infiniti esempi di
tali rinnuovate e rimodernate perfezioni di uno stesso genere,
nelle medesime letterature antiche, e nella stessa italiana dal 300 al 500, e
forse anche dentro i limiti dello stesso 500. Ora se la letteratura italiana
non ha perfezione [1059]moderna in nessun genere, anzi se l’Italia non
ha letteratura che si possa chiamar moderna, se ec. (ricapitolate il
sopraddetto) come dunque la lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così
perfetta che non le si possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza
(cosa che non accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente
perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non per
mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende capitalmente
dalla letteratura?
(17.
Maggio 1821.)
La
scrittura chinese non è veramente lingua scritta, giacchè quello che non ha che
fare (si può dir nulla) colle parole, non è lingua, ma un altro genere di
segni; come non è lingua la pittura, sebbene esprime e significa le cose, e i
pensieri del pittore. Sicchè la letteratura chinese poco o nulla può influir
sulla lingua, e quindi la lingua chinese non può fare grandi progressi.
Non è
egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte
dell’ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa? Eppure io così la
penso. L’uomo naturalmente non è incredulo, perchè non ragiona molto, e non
cura gran fatto delle [1060]cagioni delle cose. (V. p.1055. ed altro
pensiero simile, in altro luogo.) L’uomo naturalmente per lo più immagina,
concepisce e crede una religione, cosa dimostrata dall’esperienza, nello stesso
modo che immagina, concepisce e crede tante illusioni, ed alcune di queste,
uniformi in tutti; laddove la religione è immaginata da’ diversi uomini naturali in diversissime forme. La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle
cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito
profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità. Ora
queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana,
che insegnarono ed avvezzarono gli uomini a guardar più alto del campanile, a
mirar più giù del pavimento, insomma alla riflessione, alla ricerca delle cause
occulte, all’esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali,
delle immaginazioni spontanee e malfondate ec. V. p.1065. capoverso 2. E sebben
tutte le religioni sono una specie di metafisica, e quindi tutte le religioni
un poco formate si possono considerare come cause dell’irreligione, ossia del
loro contrario, (mirabile congegnazione del sistema dell’uomo, il quale non
sarebbe irreligioso se non fosse stato religioso); contuttociò questa qualità
principalmente, come ognun vede, appartiene alla Religione giudaica [1061]e
Cristiana.
Ed è
veramente curioso il considerare in questa medesima Religione, ed in questo
medesimo nostro tempo, le fasi, le epoche, e le gradazioni dello spirito umano,
tutte ancor sussistenti, ed accumulate in un medesimo secolo; e quasi una serie
di generazioni, delle quali nessuna è peranche estinta, e tutte seguitano a
vivere, senza lasciar di produrne delle nuove, che vivono insieme colle
primitive. Eccone quasi un albero genealogico.
Religione Maomettana |
Religione Giudaica conservantesi
_______ ancora presso gli Ebrei, che rigettano la
modificazione fattane da
Gesù Cristo, e si attengono e
conservano appresso a poco la sua forma primitiva
|
|
Religione Cattolica,
________che
conserva la forma primitiva della detta modificazione fatta da Gesù Cristo
alla Religione Giudaica.
|
|
|
Religione Luterana, Calvinista
ed altre sussistenti, e chiamate
ereticali, che sono nuove modificazioni della detta modificazione, oltre le molte altre già
estinte nello spazio di tempo intermedio fra questa e quelle, e che si sono rifuse,
o perdute, parte nella primitiva Religion Cristiana, ossia nella [1062] Cattolica,
parte in qualcuna delle dette ereticali.
|
Nuove modificazioni, alterazioni, suddivisioni
ancora esistenti, del Luteranismo,
del Calvinismo, e d’altre simili sette.
|
Incredulità religiosa
che deriva primitivamente dalla
Religione Giudaica (e questa ancora esistente), ma via via per mezzo delle
dette successive modificazioni e quasi generazioni di essa Religione.
(18. Maggio 1821.). v. p.1065.
capoverso 1.
Alla
p.1034. Altro è che la letteratura influisca sulla lingua del popolo, la
modifichi, la formi, la perfezioni, quando questa lingua è sostanzialmente la
stessa che la scritta; altro è che possa cambiare affatto la lingua del popolo,
e fargli parlare una lingua sostanzialmente o grandemente diversa da quella che
parlava; (quantunque ella possa alterare e corrompere la lingua popolare
introducendoci parole e frasi appoco appoco) e ciò in tempi ne’ quali la
letteratura ed era debolissima, scarsissima e barbara per se stessa, e non
aveva quasi alcuna influenza sulla moltitudine, e i letterati, anzi pure gli
studiosi, e sopratutto gli scrittori erano rarissimi e pochissimi.
(18.
Maggio 1821.)
Quanto
giovi la riflessione alla vita; quanto il sistema di profondità, di ragione, di
esame, sia conforme alla natura; quanto sia favorevole, anzi compatibile [1063]coll’azione
vediamolo anche da questo. Considerando un poco, troveremo che l’abito di
franchezza, disinvoltura, ec. che tanto si raccomanda nella società, che è
indispensabile pel maneggio degli affari d’ogni genere, e che costituisce una
gran parte dell’abilità degli individui a questo maneggio, non è altro che l’abito
di non riflettere. Abito che il giovane alterato dall’educazione, non riesce a
ricuperare se non appoco appoco, e spesso mai, specialmente s’egli ha grande
ingegno, e di genere profondo e riflessivo (come quello di Goethe, il cui primo
abordo dice Mad. di Staël, ch’è sempre un peu roide finch’egli non si
mette à son aise.)
Il
fanciullo è sempre franco e disinvolto, e perciò pronto ed attissimo all’azione,
quanto portano le forze naturali dell’età. Le quali egli adopera in tutta la
loro estensione. Se però non è alterato dall’educazione, il che può succedere
più presto o più tardi. E tutti notano che la timidità, la diffidenza di se
stesso, la vergogna, la difficoltà insomma di operare, è segno di riflessione
in un fanciullo. Ecco il bello effetto della riflessione: impedir l’azione; la
confidenza; l’uso di se stesso, e delle sue forze; tanta parte di vita. Il
giovanetto alterato [1064]dall’educazione è timido, legato, irresoluto,
diffidentissimo di se stesso. Bisogna che col frequente e lungo uso del mondo,
egli ricuperi quella stessa qualità che aveva già di natura, ed ebbe da
fanciullo, cioè l’abito di non riflettere, senza il quale è impossibile la
franchezza, e la facoltà di usar di se stesso, secondo tutta la misura del suo
valore. E ciò si vede in tutti i casi della vita, e non già nelle sole
occasioni che abbisognano di coraggio, e che spettano a pericoli corporali. Ma
chi non ha ricuperato fino a un certo punto l’abito di non riflettere, non val
nulla nelle conversazioni, non può nulla colle donne, nulla negli affari, e
massime in quelle circostanze che portano, dirò così, un certo pericolo, non
fisico, ma morale, e che abbisognano di franchezza e disinvoltura, e di una,
dirò così, intrepidezza sociale. Qualità impossibile a chi per abito riflette,
e non può deporre al bisogno la riflessione, e non può abbandonarsi, e lasciar
fare a se stesso, che sono le cose e più ricercate e pregiate, e più necessarie
a chi vive nella società, e generalmente in quasi ogni sorta e parte di vita. E
v. gli altri miei pensieri sulla impossibilità delle stesse azioni fisiche
senza l’abito di non riflettere, [1065]abito che rispetto a queste
azioni, avendolo tutti da natura, pochi lo perdono, ma perduto, rende
impossibili le operazioni più materiali, e giornaliere, e naturali.
Alla
p.1062. La Religion Cristiana, quando anche si voglia considerare come parto
della ragione umana posta nelle circostanze di quei tempi, di quei luoghi ec. è
innegabile che ha vicendevolmente influito assaissimo sopra la stessa ragione,
rivoltala al profondo, all’astruso, al metafisico; propagatala forse più di
quello che abbia fatto qualunque altro mezzo; e cagionato grandissima e
principalissima parte de’ suoi progressi. Ora è manifesto che l’incredulità
religiosa deriva dai progressi della ragione, e che quando o l’uomo, o le
nazioni non ragionavano, credevano, ed erano religiose.
(19.
Maggio 1821.)
Alla
p.1060. Le religioni sono il principio, e nel tempo stesso la parte principale
e più rilevante della metafisica, ed oltracciò la parte la più intensamente
metafisica della medesima metafisica; appartenendo alla natura, all’ordine,
alle cagioni più remote, più nascoste, e più generali delle cose.
(19. Maggio
1821.)
Dalle
mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le
lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066]impressioni
che le medesime cose fanno ne’ diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o
le diverse maniere d’imitazione usate da’ primi creatori e inventori della
favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi
ad imitare e ad esprimere da’ diversi uomini colla parola significante quella
tal cosa; (v. Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol.4. p.56-57. e p.44.
nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un
medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima
società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco
appoco in differenti favelle.
(19.
Maggio 1821.)
Lampa,
lampo, lampare, lampante, come pure lampeggio, lampeggiare, lampeggiamento
derivano manifestamente dal greco l‹mpein ec. co’ suoi derivati ec. del
quale, e de’ quali non resta nel latino scritto altro vestigio (ch’io sappia),
fuorchè la voce lampas, gr. lampŒw, ital. lampada, lampade,
lampana, co’ suoi derivati, lampada ae, lampadion, lampadias,
lampadarius. V. il Forcellini, e il Du Cange.
Quanta
sia la superiorità degl’italiani nell’attitudine a conoscere e gustare la
lingua latina, si può argomentare proporzionatamente dalla superiorità
riconosciuta in loro, nel bello scriver latino, ossia nella imitazione [1067]degli
scrittori latini, quanto alla vera e propria ed ottima lingua latina. E certo
chi è superiore nell’imitare, chi è superiore nel maneggiare e adoperare, è
necessario che lo sia pure nel conoscere e nel gustare, e quella prima superiorità,
suppone questa seconda. Ora di questa superiorità degl’italiani nello scriver
latino, dal Petrarca fino a oggidì, v. Andrès t.3. p.247-248. e quivi le note
del Loschi, p.89-92. p.99-102. t.4. p.16. e le Epist. del Vannetti al Giorgi.
(20.
Maggio 1821.)
Le
parole di qualunque genere, (cioè particelle, come re, preposizioni,
come ad ec., nomi ec.) che si prepongono ai verbi nella composizione, li
chiama Varrone, e dietro lui Gellio, praeverbia. V. Forcellini.
(20.
Maggio 1821.)
Le
cause per cui la lingua greca formata fu liberissima d’indole e di
fatto, a differenza della latina, sono
1. Che
la sua formazione accadde in tempi antichissimi, o si vogliano considerare
quelli di Omero, o quelli di Pindaro, di Erodoto ec. o anche quelli di Platone
ec. tempi che sebbene assai colti e civili (dico questi ultimi) anzi il fiore
della civiltà greca, nondimeno conservavano ancora assai di natura. A
differenza della lingua latina formata in un tempo di piena [1068]adulta
e matura, anzi corrotta civiltà, universale nella nazione; negli ultimi tempi
di Roma, nella sua decadenza morale, nel tempo ch’era già cominciata la servitù
degli animi romani; nell’ultima epoca dell’antichità.
2. Anche
la lingua latina si andò formando appoco appoco, ed ebbe buoni ed insigni scrittori
prima del suo secolo d’oro. Ma la lingua greca non ebbe propriamente secolo d’oro.
I suoi scrittori antichissimi non furono inferiori ai moderni, nè i moderni
agli antichi. Da Omero a Demostene non v’è differenza di autorità o di fama
rispetto alla letteratura greca in genere, ed alla lingua. Questo fece che
nessun secolo della Grecia (finch’ella fu qualche cosa) dipendesse da un altro
secolo passato in fatto di letteratura. Non vi fu secol d’oro, tutti i secoli
letterati e non corrotti della Grecia competerono fra loro, e nel fatto e nell’opinione.
Quindi la perpetua conservazione, la radicazione profonda della libertà della
loro letteratura, e della loro lingua. Dico della libertà sì d’indole che di
fatto. Non così è accaduto alla lingua italiana, sebben libera per indole della sua formazione. Ma ella ebbe i suoi secoli d’oro come la latina. Laddove
la lingua e letteratura greca, si andò [1069]via via perfezionando e
formando e crescendo insensibilmente, e quasi con egual misura in ciascun
tempo, così che nessun secolo potè vantarsi di averla formata, come
succede all’italiano, al francese ec. e come successe al latino. In maniera che
non si stimò mai che i suoi progressi dovessero esser finiti, perchè non s’erano
veduti tutti raccolti con soverchio splendore e superiorità in una sola epoca.
3. È già
noto che le regole nascono quando manca chi faccia. Ma in Grecia non mancò fino
agli ultimi tempi della sua esistenza politica. E sebbene allora nacquero (o
almeno si propagarono e crebbero) anche fra’ greci le regole, e le arti
gramatiche, ec. ec. nondimeno il lungo uso e consolidamento della sua libertà
rispetto alla lingua, impedì che le regole le nuocessero, sebbene non così
accadde alla letteratura. Laddove la letteratura latina quasi spirata con Virgilio,
e col di lei secolo d’oro, e parimente l’italiana, lasciarono largo e libero
campo alle regole, ed a tutti i beatissimi effetti loro. Giacchè sebbene il
500. non mancava di regole (ne mancò però del tutto il 300.), quelle non aveano
che fare coll’esattezza e finezza ec. [1070]e servilità delle
posteriori, e si possono paragonare (massime in fatto di lingua) a quelle che
in fatto di rettorica o di poetica ec. ebbero anche i greci ne’ migliori tempi.
Che se i latini n’ebbero di molte e precise, perchè le riceverono dai greci già
fatti gramatici e rettorici, questa è pure una delle ragioni della poca libertà
della loro lingua formata ec. ec. e resta compresa nella soverchia
civiltà di quel tempo, che ho già addotta da principio, come cagione di detta
poca libertà.
(20.
Maggio 1821.). V. p.743-746. principio.
Quello
che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla propria lingua, si
deve anche applicare alla novità de’ sensi e significati d’una parola già
usitata, alla novità delle metafore ec. V. Scelta di opuscoli interessanti.
Milano. vol.4. p.54.58-61. I quali nuovi e diversi significati d’una stessa
parola, non denno però esser tanti che dimostrino povertà, e producano
confusione, ed ambiguità, come nell’Ebraico.
(20.
Maggio 1821.)
Alla
p.807. marg. Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum latinos, sed
omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse voluerunt quam
paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per nomi imposti, le
parole radicali (Varro, De ling. lat. lib.7.) (p.2. del I. libro de Analogia
nella ediz. che ho del 400). [1071]
Un
antichissimo significato della parola inter che ordinariamente è
preposizione, e in questo caso sembra essere stata usata avverbialmente,
significato non osservato dai Gramatici nè da’ Lessicografi (il Forcellini non
ne fa parola alla v. Inter, benchè citi molti gramatici), fu quello di
quasi, mezzo, e simili. Del qual significato resta un evidente vestigio nelle
parole intermorior, intermortuus, mezzo morto, che anche noi diciamo tramortire,
tamortito, e quindi tramortigione, tramortimento. Ora questo
antichissimo significato, dimenticato fino dai gramatici latini, e di cui negli
scrittori latini non si trova, ch’io sappia, altra ricordanza che la
sopraddetta, si conservò alla voce inter, nel latino volgare, sino a
passar nella lingua francese, che nello stessissimo senso l’adopra nella
composizione di alcuni verbi come entr’ouvrir, entrevoir ec. Ell’signifie
aussi dans la composition de quelques verbes une action diminutive, dice l’Alberti
della preposizione entre, che è lo stesso che inter. Nè si creda
che questo significato sia rimasto in francese alla detta parola, solamente in
alcuni verbi che questa lingua abbia presi dal latino, già così composti e
formati, e colla detta significazione. [1072]Giacchè 1. i detti verbi
così composti, e col detto senso non si trovano nel latino, se non ci volessimo
tirare il verbo interviso, che ha veramente un altro significato da
quello di voir imparfaitement ec. dell’entrevoir (v. l’Alberti.).
Sicchè in ogni modo questi verbi non trovandosi negli scrittori latini, si
verrebbero a dimostrar derivati dall’uso latino volgare. 2. La parola entre
nel detto senso si trova anche, nella composizione, unita a parole non latine
affatto, come in entre-baillé, mezzo chiuso, o socchiuso. Laonde
è manifesto che il detto significato passò dall’antichissimo latino al
francese, (certo non per altro mezzo che del volgare latino) come propriamente
aderente alla parola entre, quantunque nella sola composizione. Si
potrebbono anche riferir qua le nostre parole traudire, e travedere,
(co’ derivati) che vagliono ingannarsi nell’udire o nel vedere,
cioè vedere a mezzo, vedere imperfettamente, come entrevoir,
sebbene fissate ad un senso derivativo da questo primo.
Alla
p.362. Immaginiamoci un pastore primitivo o selvaggio, privo di favella, o di
nomi numerali che volesse, com’è naturale, rassegnare la sera il suo gregge.
Non potrebbe assolutamente farlo se non in maniera materialissima; come porre
la mattina tutte le pecore in [1073]fila, e misurato o segnato lo spazio
che occupano, riordinarle la sera nello stesso luogo, e così ragguagliarle.
Ovvero, che è più verisimile, raccorre, poniamo caso, tanti sassi quante sono
le pecore: il che fatto, non potrebbe mica ragguagliarle esattamente coi sassi
mediante veruna idea di quantità. Perchè non potendo contare nè quelle nè
questi, molto meno potrebbe formare nessun concetto della relazione scambievole
o del ragguaglio di due quantità numeriche determinate: anzi non conoscerebbe
quantità numerica determinata. Converrebbe che si servisse di un’altra maniera
materialissima, come porre da parte prima una pecora ed un sasso, indi un’altra
pecora e un altro sasso, e così di mano sino all’ultima pecora, e sino all’ultimo
sasso. V. p.2186. principio.
Certo è
che l’invenzione dei nomi numerali fu delle più difficili, e l’una delle ultime
invenzioni de’ primi trovatori del linguaggio. L’idea di quantità, non solo
assoluta e indeterminata (anzi questa è meno difficile, essendo materiale e
sensibile l’idea del più e del meno, e quindi della quantità indeterminata), ma
anche determinata, anche relativa a cose materialissime, considerandola bene, è
quasi totalmente astratta e metafisica. Quando noi vediamo le cinque dita della
mano, ne concepiamo subito il numero, [1074]perchè l’idea del numero è
collegata nella mente nostra mediante l’abito, e l’uso della favella, coll’idea
che ci suscita il vedere una quantità d’individui facili a contare, o di cui
già sappiamo il numero. E l’idea di contare vien dietro alla detta vista, per
la detta ragione. Non così l’uomo privo de’ nomi numerali. Egli vede quelle
cinque dita come tante unità, che non hanno fra loro alcuna relazione o
attinenza numerica (come in fatti non l’hanno per se stesse), componenti una
quantità indefinita (della quale non concepisce se non se un’idea confusa, com’è
naturale trattandosi d’indefinito) e non gli si affaccia neppure al pensiero l’idea
di poterla determinare, o di contare quelle dita. Meno metafisica è l’idea dell’ordine.
Giacchè (seguitando a servirci dell’esempio della mano) che il pollice, ossia
il primo dito, stia nel principio della serie, che l’indice, cioè il secondo
dito, venga dopo quello che è nel principio della mano, cioè il pollice, e che
il medio cioè il terzo succeda a questo dito, e sia distante dal pollice un
dito d’intervallo; sono cose che cadono sotto i sensi, e che destano facilmente
l’idea di primo di secondo e di terzo e via discorrendo. Lo stesso potremmo
dire di un filare d’alberi ec.
Così che
io non credo che le denominazioni de’ numeri ordinativi non abbiano preceduto
nelle lingue primitive quelle de’ cardinali (contro ciò che pare a prima vista,
e che forse è seguito nelle lingue colte ec.); e che in dette lingue [1075]la
parola secondo si sia pronunziata prima che la parola due. Perchè
la parola secondo esprime un’idea materiale, e derivata da’ sensi, e
naturale, cioè quella cosa che sta dopo ciò che è nel principio, laonde
la forma di quest’idea sussiste fuori dell’intelletto. Infatti nel
latino, posterior vuol dire secundus ordine, loco, tempore (Forcellini), e così propriamente il greco ìsterow: kuriÅtera tŒ ìstera nomÛzetai kaÜ bebaiñtera tÇn prÅtvn. Plutarco, Convival.
Disputat. l.8. (Scapula) quantunque possa venir dopo, o dietro, anche quello
che non è secondo. Così pure nell’italiano posteriore ec. Ma la parola due significa un’idea la cui forma non sussiste se non che nel nostro intelletto,
quando anche sussistano fuori di esso le cose che compongono questa quantità,
colla quale tuttavia non hanno alcuna relazione sensibile, materiale,
intrinseca o propria loro, ed estrinseca alla concezione umana. V. l’Encyclopédie
méthodique. Métaphisique. art. nombres, preso, io credo, da Locke.
Quella
cosa che è nel principio, ha una ragione propria per esser chiamata prima,
e quella che gli sta dopo, per esser chiamata seconda, cioè posteriore:
così che questi nomi ordinali sono relativi alle cose. Ma quella non ha ragione
propria perchè l’uomo nel contare la chiami uno, e quest’altra due;
e questi nomi cardinali non sono relativi alle cose reali, ma alla quantità,
che è solamente idea, ed è separata dalle cose, nè sussiste fuori dell’intelletto.
Quelli
che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno più tempo libero, e
da potere impiegare, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per
una [1076]occupazione, ancorchè di loro premura, a ricordarsi di una
cosa che bisogni fare, di una commissione che loro sia stata data, e che anche
prema loro di eseguire. Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e
quindi meno tempo libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l’abito
di negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821.). E lo
stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e
negligenza.
Alla
p.761. Anzi questa facoltà de’ composti di due o più voci, è proprissima anche
oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi del linguaggio familiare
di tutte le nazioni, massime popolare): e specialmente del toscano lo è stato
sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha molta e facilità e grazia; e il discorso
ne riceve una elegante e pura novità, ed una singolare efficacia; come tagliacantoni,
ammazzasette, pascibietola, (del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno,
pappalardo e simili voci burlesche o familiari antiche e moderne. Sicchè
non si può dire che questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacchè
sarebbe ridicolo l’impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra
lingua non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al
burlesco o familiare, giacchè il burlesco o familiare di questi composti deriva
non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che li formano. Ma
altre voci, purchè fosse fatto con giudizio, e senza eccesso [1077]di
lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero benissimo
comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè indurre nessuna
apparenza di buffonesco o di plebeo. E così fece giudiziosamente il Cesarotti
nell’Iliade, e credo anche nell’Ossian. Omero, Dante, e tutti i grandi
formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i Gramatici l’approvano: quando
calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la cinquannaggine, che Gallo
voleva, de’ magistrati. Davanzati (Annali di Tacito Lib.2. c.36. postilla
3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per rendere il
latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821.). Era però già stato
usato da Dante.
Il tempo
di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente l’epoca della
corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, di quella corruzione e
barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di quella che si vide ne’
Persiani e ne’ Romani, ne’ Sibariti, ne’ Greci ec. E tuttavia la detta epoca si
stimava allora, e per esser freschissima, si stima anche oggi, civilissima, e
tutt’altro che barbara. Quantunque il tempo [1078]presente, che si stima
l’apice della civiltà, differisca non poco dal sopraddetto, e si possa
considerare come l’epoca di un risorgimento dalla barbarie. Risorgimento
incominciato in Europa dalla rivoluzione francese, risorgimento debole,
imperfettissimo, perchè derivato non dalla natura, ma dalla ragione, anzi dalla
filosofia, ch’è debolissimo, tristo, falso, non durevole principio di civiltà.
Ma pure è una specie di risorgimento; ed osservate che malgrado la
insufficienza de’ mezzi per l’una parte, e per l’altra la contrarietà ch’essi
hanno colla natura; tuttavia la rivoluzione francese (com’è stato spesso
notato), ed il tempo presente hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola
fonte di civiltà, hanno messo in moto le passioni grandi e forti, hanno
restituito alle nazioni già morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una
certa lontana apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza
filosofia, strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera
per natura sua, perchè la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e
divenire perfetta filosofia, ch’è fonte di barbarie. Applicate a questa
osservazione le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali),
come guardinfanti, pettinature d’uomini e donne ec. ec. che regnarono, almeno
in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono distrutte in
un colpo dalla rivoluzione (V. la lettera di Giordani a Monti §.4.) E vedrete
che il secolo presente è l’epoca di un vero risorgimento da una vera barbarie,
anche nel gusto; e qui può anche notarsi quel tale raddrizzamento della
letteratura in Italia oggidì.
Altro
esempio e conseguenza dell’odio nazionale presso gli antichi. Ai tempi
antichissimi, quando il mondo non era sì popolato, che non si trovasse [1079]facilmente
da cambiar sede, le nazioni vinte, non solo perdevano libertà, proprietà ec. ma
anche quel suolo che calpestavano. E se non erano portate schiave; o tutte
intere, o quella parte che avanzava alla guerra, alla strage susseguente, e
alla schiavitù, se n’andava in esilio. E ciò tanto per volontà loro, non
sopportando in nessun modo di obbedire al vincitore, e volendo piuttosto mancar
di tutto, e rinunziare ad ogni menoma proprietà passata, che dipendere dallo
straniero: parte per forza, giacchè il vincitore occupava le terre e i paesi
vinti non solo col governo e colle leggi, non solo colla proprietà o de’ campi
o de’ tributi ec. ma interamente e pienamente col venirci ad abitare, colle
colonie ec. col mutare insomma nome e natura al paese conquistato, spiantandone
affatto la nazione vinta, e trapiantandovi parte della vincitrice. Così accadde
alla Frigia, ad Enea ec. o se non vogliamo credere quello che se ne racconta,
questo però dimostra qual fosse il costume di que’ tempi.
(23.
Maggio 1821.)
Alla
p.366. In una macchina vastissima e composta d’infinite parti, per quanto sia
bene e studiosamente fabbricata e congegnata, non possono non accadere dei disordini,
massime in lungo spazio di tempo; disordini [1080]che non si possono
imputare all’artefice, nè all’artifizio; e ch’egli non poteva nè prevedere
distintamente nè impedire. V. p.1087. fine. Di questo genere sono quelli che
noi chiamiamo inconvenienti accidentali nell’immenso e complicatissimo sistema
della natura, e nella sua lunghissima durata. Che sebben questi non ci paiano
sempre minimi, bisogna considerarli in proporzione della detta immensità, e
complicazione, e della gran durata del tempo.
Per iscusarne
da una parte la natura, e dall’altra parte, per conoscere se sieno veramente
accidentali e contrari al sistema e non derivati da esso, basta vedere se si
oppongono all’andamento prescritto e ordinato primitivamente dalla natura alle
cose, e se ella vi ha opposti tutti gli ostacoli compatibili, che spesso
possono riuscire insufficienti come nella macchina la meglio immaginata e
lavorata. Quando noi dunque nella infelicità dell’uomo troviamo una opposizione
diretta col sistema primitivo, e scopriamo che la natura vi aveva opposti
infiniti e studiatissimi ostacoli, e che ci è bisognato far somma forza alla
natura, all’ordine primitivo ec. e lunghissima serie di secoli per ridurci a
questa infelicità; allora essa infelicità per grande, e universale, e durevole,
ed anche irrimediabile ch’ella sia, non si può considerare [1081]come
inerente al sistema, nè come naturale. Nè dobbiamo lambiccarci il cervello per
metterla in concordia col sistema delle cose (il che è impossibile), nè
immaginare un sistema sopra questi inconvenienti, un sistema fondato sopra gli
accidenti, un sistema che abbia per base e forma le alterazioni accidentalmente
fatteci, un sistema diretto a considerare come necessarie e primitive, delle
cose accidentali e contrarie all’ordine primordiale: ma dobbiamo riconoscere
formalmente l’opposizione che ha la nostra infelicità col sistema della natura;
e la differenza che corre fra esso, fra gli effetti suoi, e gli effetti della
sua alterazione e depravazione parziale e accidentale.
Lasciando
che molti inconvenienti che son tali per alcuni esseri, non lo sono per altri;
e molti che lo sono per alcuni sotto un aspetto, non lo sono per li medesimi
sotto un altro aspetto ec. ec.
Dimostrando
dunque i diversissimi e gagliardissimi ostacoli opposti dalla natura al nostro
stato presente, io vengo a dimostrare che questo (e l’infelicità dell’uomo che
ne deriva) è accidentale, e indipendente dal sistema della natura, e contrario
all’ordine delle cose, e non essenziale ec.
(23.
Maggio 1821.). V. p.1082.
[1082]Se fosse veramente utile, anzi
necessario alla felicità e perfezione dell’uomo il liberarsi dai pregiudizi
naturali (dico i naturali, e non quelli figli di una corrotta ignoranza),
perchè mai la natura gli avrebbe tanto radicati nella mente dell’uomo, opposti
tanti ostacoli alla loro estirpazione, resa necessaria sì lunga serie di secoli
ad estirparli, anzi solamente a indebolirli; resa anche impossibile l’estirpazione
assoluta di tutti, anche negli uomini più istruiti, e in quelli stessi che
meglio li conoscono; e finalmente ordinato in guisa che anche oggi (lasciando i
popoli incolti) in una grandissima, anzi massima parte degli stessi popoli
coltissimi, dura grandissima parte di tali pregiudizi che si stimano
direttamente contrari al ben essere ed alla perfezione dell’uomo? Anzi perchè
mai gli avrebbe solamente posti nella mente dell’uomo da principio?
Alla
p.1081. fine. Per lo contrario, dimostrando come le illusioni ec. ec. ec. sieno
state direttamente favorite dalla natura, come risultino dall’ordine delle cose
ec. ec. vengo a dimostrare ch’elle appartengono sostanzialmente al sistema
naturale, e all’ordine delle cose, e sono essenziali e necessarie alla felicità
e perfezione dell’uomo.
(24.
Maggio 1821.)
[1083]Alla considerazione della grazia
derivante dallo straordinario, spetta in parte il vedere che uno de’ mezzi più
frequenti e sicuri di piacere alle donne, è quello di trattarle con dispregio e
motteggiarle ec. Il che anche deriva da un certo contrasto ec. che forma il
piccante. E ancora dall’amor proprio messo in movimento, e renduto desideroso
dell’amore e della stima di chi ti dispregia, perch’ella ti pare più difficile,
e quindi la brami di più ec. E così accade anche agli uomini verso le donne o
ritrose, o motteggianti ec.
(24.
Maggio 1821.)
Stante l’antico
sistema di odio nazionale, non esistevano, massime ne’ tempi antichissimi, le
virtù verso il nemico, e la crudeltà verso il nemico vinto, l’abuso della
vittoria ec. erano virtù, cioè forza di amor patrio. Da ciò si vede quanto
profondi filosofi e conoscitori della storia dell’uomo, sieno quelli che
riprendono Omero d’aver fatto i suoi Eroi troppo spietati e accaniti col nemico
vinto. Egli gli ha fatti grandissimi e virtuosissimi nel senso di quei tempi,
dove il nemico della nazione era lo stesso, che oggi è per li Cristiani il
Demonio, il peccato ec. Nondimeno Omero che pel suo gran genio ed anima sublime
e poetica, concepiva anche in que’ suoi tempi antichissimi la bellezza della
misericordia verso il nemico, della generosità verso il vinto ec. considerava
però questo bello come figlio della sua immaginazione, e fece che Achille con
grandissima difficoltà si piegasse ad usar misericordia a Priamo supplichevole
nella sua tenda, e al corpo di Ettore. Difficoltà che a noi pare assurda. (E
quindi incidentemente inferite l’autenticità [1084]di quell’Episodio,
tanto controverso ec.) Ma a lui, ed a’ suoi tempi pareva nobile, naturale e
necessaria. E notate in questo proposito la differenza fra Omero e Virgilio.
(24.
Maggio 1821.)
Alla
p.1078. Riferite a questo (per altro effimero e debole e falso) risorgimento
della civiltà, la mitigazione del dispotismo, e la intolleranza del medesimo
più propagata: il perfezionamento di quello che si chiama sentimentale,
perfezionamento che data dalla rivoluzione: il risorgimento di certe idee
cavalleresche, che come tali si mettevano in pieno ridicolo nel 700, e in parte
del 600 (come nei romanzi di Marivaux ec.); al qual proposito è noto che il
Mariana attribuisce al Don Chisciotte (che è quanto dire al ridicolo sparso
sulle forti e vivaci e dolci illusioni) l’indebolimento del valore (e quindi
della vita nazionale, e gli orribili progressi del dispotismo) fra gli
spagnuoli. Ho detto il Mariana, e così mi pare. Trovo però lo stesso pensiero
nel P. d’Orléans Rivoluz. di Spagna lib.9. Ma il Mariana mi par citato a questo
proposito dalla march. Lambert, Réflex. nouvelles sur les femmes. e così di
tante altre opinioni e pregiudizi sociali, ma nobili, dolci e felici ec. che
ora non si ardisce di porre in ridicolo, com’era moda in quei tempi: un certo
maggiore rispetto alla religione de’ nostri avi ec. ec. Cose tutte che
dimostrano un certo ravvicinamento del mondo alla natura, ed alle opinioni e
sentimenti naturali, ed alcuni passi fatti indietro, sebbene languidamente, e
per miseri e non vitali, anzi mortiferi principii, cioè il progresso della
ragione, della filosofia, de’ lumi.
(24.
Maggio 1821.)
Una
delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto, ma relativo,
è l’essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può dimostrare [1085]a
chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare della bellezza differiscono
non solo i tempi da’ tempi, e le nazioni dalle nazioni, ma gli stessi
contemporanei e concittadini, gli stessi compagni differiscono sovente da’
compagni, giudicando bello quello che a’ compagni par brutto, e viceversa. E
convenendo tutti che non si può convincere alcuno in materia di bellezza,
vengono in somma a convenire che nessuno de’ due che discordano nell’opinione, può
pretendere di aver più ragione dell’altro, quando anche dall’una parte stieno
cento o mille, e dall’altra un solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono
sotto i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella
letteratura ec. ec. V. a questo proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori
premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M. T. Cic. ad Q.
Fratrem, cum adnott. et italica interpretat. Jacobi Facciolati; accedit nupera
eiusdem interpretatio A. C.. Verona, Ramanzini. Ovvero lo Spettatore di
Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il passo di detto discorso che fa
al mio proposito.
Parecchi
filosofi hanno acquistato l’abito [1086]di guardare come dall’alto il
mondo, e le cose altrui, ma pochissimi quello di guardare effettivamente e
perpetuamente dall’alto le cose proprie. Nel che si può dire che sia riposta la
sommità pratica, e l’ultimo frutto della sapienza.
(25.
Maggio 1821.)
Della
difficilissima invenzione di una lingua che avesse pure qualche forma
sufficiente al discorso, e come questa debbe essere stata opera quasi
interamente del caso, v. le Osservazioni ec. del Sulzer nella Scelta di Opusc.
interessanti. Milano. 1775. Vol.4. p.90-100.
(25.
Maggio 1821.)
Siccome
la perfezione gramaticale di una lingua dipende dalla ragione e dal GENIO (la
lingua francese è perfetta dalla parte della ragione, ma non da quella del
genio), così ella può servire di scala per misurare il grado della ragione e
del GENIO ne’ vari popoli. (Con questa scala il genio francese sarà trovato
così scarso e in così basso grado, come in alto grado la ragione di quel
popolo.) Se per esempio non avessimo altri monumenti che attestassero il GENIO
FELICE de’ Greci, la loro lingua pur basterebbe. (Lo stesso potremo dire degl’italiani
avuto riguardo alla proporzione de’ tempi moderni, che [1087]non sono
quelli del genio, coi tempi antichi.) Quando una lingua, generalmente parlando,
(cioè non di una o più frasi, di questa o quella finezza in particolare, ma di
tutte in grosso) è insufficiente a rendere in una traduzione le finezze di un’altra
lingua, egli è una prova sicura che il popolo per cui si traduce ha lo spirito
men coltivato che l’altro. (Che diremo dunque dello spirito de’ francesi dalla
parte del genio? La cui lingua è insufficiente a rendere le finezze non di una
sola, ma di tutte le altre lingue? Che la Francia non abbia avuto mai, v.
p.1091. nè sia disposta per sua natura ad avere geni veri ed onnipotenti, e
grandemente sovrastanti al resto degli uomini, non è cosa dubbia per me, e lo
viene a confessare implicitamente il Raynal. Dico geni sviluppati, perchè
nascerne potrà certo anche in Francia, ma svilupparsi non già, stante le
circostanze sociali di quella nazione.) Sulzer ec. l. cit. qui dietro. p.97.
(25.
Maggio 1821.)
Alla
p.1080. marg. Lo stesso diremo delle costituzioni, de’ regolamenti, delle
legislazioni, de’ governi, degli statuti (o pubblici o particolari di qualche
corpo o società ec.); i quali per ottimamente e minutamente formati che possano
essere, e dagli uomini i più esperti e previdenti, non può mai fare che nella
pratica non soggiacciano a più o meno inconvenienti; [1088]che non s’incontrino
dei casi dalle dette legislazioni ec. non preveduti, o non provveduti, o non
potuti prevedere o provvedere; e che anche supposto che il tutto fosse
provveduto, e preveduto tutto il possibile, la pratica non corrisponda
perfettamente all’intenzione, allo spirito e alla stessa disposizione dei detti
stabilimenti. Insomma non v’è ordine nè disposizione nè sistema al mondo, così
perfetto, che nella sua pratica non accadano molti inconvenienti, e disordini,
cioè contrarietà con esso ordine. Ed uno degli errori più facili e comuni, e al
tempo stesso principali, è di credere che le cose, come vanno, così debbano
andare, e così sieno ordinate perchè così vanno; e dedurre interamente l’idea
di quel tal ordine o sistema, da quanto spetta ed apparisce nel suo uso,
andamento, esecuzione ec. Nella quale non possono mancare moltissimi accidenti
e sconvenienze, non per questo imputabili al sistema. Accidenti e sconvenienze
che sono molto maggiori, e più gravi e sostanziali, e più numerose nei sistemi,
ordini, macchine ec. che son opera dell’uomo (per ottima che possa essere),
artefice tanto inferiore alla natura e per arte e per potenza. Maggiori però e
più numerosi proporzionatamente, cioè rispetto alla piccolezza e poca
importanza, [1089]durata ec. di detti sistemi umani, paragonati colla
immensità ec. del sistema della natura. Nel quale, assolutamente parlando,
possono occorrere e occorrono inconvenienti accidentali molto maggiori e
numerosi che in qualunque sistema umano, sebbene assai minori relativamente.
A quello
che ho detto altrove della ragionevolezza, anzi necessità di un sistema a
chiunque pensi, e consideri le cose; si può aggiungere, che infatti poi le cose
hanno certo un sistema, sono ordinate secondo un sistema, un disegno, un piano.
Sia che si voglia supporre tutta la natura ordinata secondo un sistema, tutto
legato ed armonico, e corrispondente in ciascuna sua parte; ovvero divisa in
tanti particolari sistemi, indipendenti l’uno dall’altro, ma però ben armonici
e collegati e corrispondenti nelle loro parti rispettive; certo è che l’idea
del sistema, cioè di armonia, di convenienza, di corrispondenza, di relazioni,
di rapporti, è idea reale, ed ha il suo fondamento, e il suo soggetto nella
sostanza, e in ciò ch’esiste. Così che gli speculatori della natura, e delle
cose, se vogliono arrivare al vero, bisogna che trovino sistemi, giacchè le
cose e la natura sono infatti sistemate, e ordinate armonicamente. Potranno
errare, prendendo per sistema reale e naturale, un sistema immaginario, o anche [1090]arbitrario, ma non già nel cercare un sistema. Sarà falso quel tal
sistema, non però l’idea ch’esso include, che la natura e le cose sieno
regolate e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l’idea del sistema, si
oppone all’evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il
sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le
cose staccatamente (se pur v’ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma
si possa contenere in questo modo), sarà compatibile, ed anche lodevole. Ma
oltre ch’egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha
posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più
rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un
altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema
naturale e vero delle cose.
(26. Maggio
1821.)
Non si
conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità,
anzi nessuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono
perfettamente tutti i rapporti che ha essa verità colle altre. E siccome tutte
le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più
strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa
credere [1091]e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo
dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola,
isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente tutti i suoi
rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna
(ancorchè menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è
stata mai nè sarà mai perfettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta.
(26.
Maggio 1821.)
Così,
senza la condizione detta qui sopra, non si conoscono mai, nè tutte le premesse
che conducono a una conseguenza, cioè alla cognizione di una tal verità, nè
tutta la relazione e connessione, o tutte le relazioni e connessioni che hanno
le premesse anche conosciute, colla detta conseguenza.
(26.
Maggio 1821.)
Alla
p.1087. Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec. ed altri tali,
nessuno de’ quali appartiene propriamente alla provincia del genio, anzi a
quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero, tanto più nemico
del genio, quanto più profondo e riposto, benchè non iscavato nè scoperto, se
non dal genio.
(26.
Maggio 1821.)
[1092]Alla p.894. marg. Riferite pure
agli stessi principii il danno, le stragi, la miseria, l’impotenza p.e. dell’Italia
ne’ bassi tempi, di quell’Italia ch’era per altro animata di sì vivo, sì
attivo, e spesso sì eroico amor di patria. Ma di patria oscura, debole,
piccola, cioè le repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa
allora la nazione, formando tante nazioni, tutte, com’è naturale, nemiche
scambievoli. Dal che nasceva l’oscurità, la debolezza, la piccolezza delle
virtù patrie, e il poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli
stessi principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla
conseguente moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l’estrema
miseria del sistema feudale. Riferitevi parimente il danno riconosciuto da
tutti i savi oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città,
ovvero anche delle provincie natali. Danno pur troppo ed evidente e gravissimo
oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo statistica
o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica. Ed è osservabile che l’amor
patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto più fortemente
e radicatamente, quanto è maggiore o l’ignoranza, o il poco commercio, o la
piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia (come la Toscana); insomma
in proporzione [1093]del rispettivo grado di civiltà e di coltura. E in
alcune delle più piccole città d’Italia l’amor patrio, e l’odio de’ forestieri
è veramente accanito. E così proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo
rimaso indietro nella coltura artificiale, non si sa come. E lo stesso dico
degl’individui più ignoranti ec.
(26.
Maggio 1821.)
La
letteratura di una nazione, la quale ne forma la lingua, e le dà la sua
impronta, e le comunica il suo genio, corrompendosi, corrompe conseguentemente
anche la lingua, che le va sempre a fianco e a seconda. E la corruzione della
letteratura non è mai scompagnata dalla corruzione della lingua, influendo
vicendevolmente anche questa sulla corruzione di quella, come senza fallo,
anche lo spirito della lingua contribuisce a determinare e formare lo spirito
della letteratura. Così è accaduto alla lingua latina, così all’italiana nel
400, nel 600, e negli ultimi tempi, così pure nel 600, e negli ultimi tempi
alla spagnuola: tutte corrotte al corrompersi della rispettiva letteratura.
Eppure la lingua greca, con esempio forse unico, corrotta, anzi, dirò,
imputridita la letteratura, si mantenne incorrotta [1094]più secoli, e
molto altro spazio poco alterata, come si può vedere in Libanio, in Imerio, in
S. Gregorio Nazianzeno, e altri tali sofisti più antichi o più moderni
di questi, che sono corrottissimi nel gusto, e non corrotti o leggermente
corrotti nella lingua. Tanta era per una parte la libertà, la pieghevolezza, e
dirò così la capacità della lingua greca formata, che poteva anche
essere applicata a pessimi stili, senza allontanarsi dall’indole della sua
formazione, e senza perdere le sue forme proprie, e il suo naturale; ed essere
adoperata da una letteratura guasta senza guastarsi essa stessa, adattandosi
tanto al buono come al cattivo, e ricevendo nella immensa capacità delle sue
forme, e nella sua varietà, copia e ricchezza, sì l’uno come l’altro. Simile in
ciò all’italiana, dove si può scrivere purissimamente cose di pessimo gusto, ed
usare un pessimo stile, in ottima o non corrotta lingua, come ho detto altrove.
Dal che nasce la difficoltà di scriver bene in italiano, a differenza del
francese, che avendo una sola lingua, ha anche un solo stile, e
chiunque scrive in francese, non può non iscrivere in istile appresso a
poco, buono. E però non dobbiamo farci maraviglia di quello che dicono, che
tutti i francesi più o meno scrivono bene.
[1095]Tanta per l’altra parte (ritornando
al proposito) era l’alienazione della letteratura greca da ogni cosa straniera.
Giacchè anche la corruzione della lingua italiana che accadde nel 400. e poi
nel 500. siccom’era corruzione italiana, non mutò le forme sostanziali, e il
genio proprio della lingua; com’è accaduto per lo contrario in questi ultimi
tempi, dove la corruzione è derivata da influsso straniero.
E se
vogliamo vedere l’influenza straniera sulla lingua greca, e come subito la
corruppe, per incorruttibile che paia, come abbiamo dimostrato; sebbene è
difficile trovar cosa straniera in detta letteratura, consideriamo l’unico (si
può dir) libro straniero che introdotto in Grecia (o ne’ paesi greci) abbia
influito sopra i suoi scrittori, e che sia stato ai greci oggetto di studio.
Lasciamo l’influenza del latino nel greco dopo Costantino, influenza che tardò
molto a propagarsi e a guastare definitamente la lingua, perchè si esercitò
piuttosto sul parlato che sullo scritto, e dal parlato arrivò solo dentro lungo
spazio, alla letteratura. Io voglio parlare della Bibbia. Esaminiamo i padri
greci da’ primi fino agli ultimi, e vi troveremo immediatamente una
visibilissima e sostanziale corruzione di lingua e di stile, derivata dagli
ebraismi, dall’uso dello stile profetico, salmistico, apostolico, dalla brutta
e barbara [1096]e spesso continua imitazione della scrittura, dal
misticismo della Religion Cristiana. Corruttela che è comune anche agli
scrittori cristiani che non avevano punto che fare colla Palestina, o con altri
paesi, dove la lingua greca volgare fosse guasta da mescolanza di ebraico, o d’altro
dialetto propagato fra’ giudei ec.; non erano giudei di stirpe, ec. ec. Ma
erano stranieri di setta, e quindi anche barbari di gusto. Lascio la traduzione
dei Settanta, e il Nuovo Testamento. Le stesse cause di corruzione influirono
pure sulla lingua e sullo stile de’ padri latini. Ma da queste, com’è naturale,
si preservarono gli scrittori profani contemporanei, sì greci che latini, e non
pochi degli stessi scrittori cristiani, o trattando materie profane, o anche
più volte nelle stesse materie ecclesiastiche, secondo la coltura, gli studi e
l’eleganza degli scrittori.
Non si
stimino esagerazioni le lodi ch’io fo dello stato antico, e delle antiche
repubbliche. So bene ancor io, com’erano soggette a molte calamità, molti
dolori, molti mali. Inconvenienti inevitabili nello stesso sistema magistrale
della natura; quanto più negli ordini che finalmente sono, più o meno, opera
umana! Ma il mio argomento consiste nella proporzione e nel paragone della felicità,
o se vogliamo, [1097]infelicità degli uomini antichi, con quella de’
moderni, nel bilancio e nell’analisi della massa de’ beni e de’ mali presso gli
uni e presso gli altri. Converrò che l’uomo, specialmente uscito dei limiti
della natura primitiva, non sia stato mai capace di piena felicità, sia anche
stato sempre infelice. Ma l’opinione comune e quella della indefinita
perfettibilità dell’uomo, e che quindi egli sia tanto più felice o meno
infelice, quanto più s’allontana dalla natura; per conseguenza, che l’infelicità
moderna sia minore dell’antica. Io dimostro che l’uomo essendo perfetto in
natura, quanto più s’allontana da lei, più cresce l’infelicità sua: dimostro
che la perfettibilità dello stato sociale è definitissima, e benchè
nessuno stato sociale possa farci felici, tanto più ci fa miseri, quanto più
colla pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura; dimostro che l’antico
stato sociale aveva toccato i limiti della sua perfettibilità, limiti tanto
poco distanti dalla natura, quanto è compatibile coll’essenza di stato sociale,
e coll’alterazione inevitabile che l’uomo ne riceve da quello ch’era
primitivamente: dimostro infine con prove teoriche, e con prove storiche e di
fatto, [1098]che l’antico stato sociale, stimato dagli altri imperfettissimo,
e da me perfetto, era meno infelice del moderno.
(27.
Maggio 1821.)
Altra
prova che il bello è sempre relativo. Dice il Monti (Proposta ec. vol.1. par.2.
p.8. fine) che l’orecchio è unico e superbissimo giudice della bellezza
esterna delle parole. Ora per quest’orecchio, parlando di parole italiane,
non possiamo intendere se non l’orecchio italiano, e il giudizio di detta
bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue.
La
formazione intera e principale della lingua latina, accade in un tempo
similissimo (serbata la proporzione de’ tempi) a quello della francese, cioè
nel secolo più civile ed artifiziato di Roma, e (dentro i limiti della civiltà)
più corrotto: dico nel secolo tra Cicerone e Ovidio. Ecco la cagione per cui la
lingua latina, come la francese, perdè nella formazione la sua libertà, ed ecco
la cagione di tutti gli effetti di questa mancanza, simili nelle dette due
lingue ec.
(28.
Maggio 1821.)
Odio gli
arcaismi, e quelle parole antiche, ancorchè chiarissime, ancorchè
espressivissime, bellissime, [1099]utilissime, riescono sempre
affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa. Ma i nostri scrittori
antichi, ed antichissimi, abbondano di parole e modi oggi disusati, che oltre
all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente,
mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di
affettazione o di studio ad usarli, e in somma così freschi, (e al tempo stesso
bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può
accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca. Parole e
modi, dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire. E laddove
quegli altri si possono paragonare alle cose stantivite, rancidite, ammuffite
col tempo; questi rassomigliano a quelle frutta che intonacate di cera si
conservano per mangiarle fuor di stagione, e allora si cavano dall’intonacatura
vivide e fresche e belle e colorite, come si cogliessero dalla pianta. E
sebbene dismessi e ciò da lunghissimo tempo, o nello scrivere, o nel parlare, o
in ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi,
per poi ripigliarli.
(28.
Maggio 1821.)
[1100]L’uomo non si può muovere neanche
alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise.
Ma oggi quasi nessuna modificazione dell’amor proprio può condurre alla virtù.
E così l’uomo non può esser virtuoso per natura. Ecco come l’egoismo
universale, rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù
all’individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le
mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l’egoismo individuale,
anche nell’uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso.
Perchè l’uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone
evidentemente e per ogni parte all’amor proprio suo. E perciò gli resta
solo l’egoismo, cioè la più brutta modificazione dell’amor proprio, e la più
esclusiva d’ogni genere di virtù.
(28.
Maggio 1821.)
Chiamano
moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono che il mondo creda di
essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono antiche quanto Adamo, e di più
hanno sempre durato e dominato, più o meno, e sotto differenti aspetti sino a
circa un secolo e mezzo fa, epoca vera e sola della perfezione del dispotismo,
consistente in gran parte in una certa moderazione che lo rende universale, [1101]intero,
e durevole. Dunque tutta l’antichità delle massime dispotiche, cioè del loro
vero ed universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente
parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come quel
tempo che corse da quest’epoca sino alla rivoluzione, fu veramente il tempo più
barbaro dell’Europa civile, dalla restaurazione della civiltà in poi. Barbarie
dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili: barbarie che prende diversi
aspetti, secondo la natura di quella civiltà da cui deriva, e a cui sottentra,
e secondo la natura de’ tempi e delle nazioni. Per esempio la barbarie di Roma
sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu più feroce e più viva: quella dei
Persiani fu simile nella mollezza e nella inazione e torpore, alla nostra. Ed
ecco come il tempo presente si può considerare come epoca di un nuovo (benchè
debole) risorgimento della civiltà. E così le massime liberali si potranno
chiamare risorte (almeno la loro universalità e dominio); ma non mica inventate
nè moderne. Anzi elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è
forse l’unica parte in cui l’età presente somiglia all’antichità. Puoi vedere
in tal proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol.1.
part.2. alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie
antiche rinnovate oggi.
(28.
Maggio 1821.)
Alla
p.1075. Da queste osservazioni risulta che l’uomo senza favella è altresì
incapace di concepire definitamente e chiaramente una quantità misurata [1102]in
questo modo: p.e. una lunghezza di cento passi. Giacch’egli non può concepire
questo numero definito di cento passi. Così discorrete di tutte le altre cose o
idee (e sono infinite) che l’uomo concepisce chiaramente mediante l’idea de’
numeri. E da ciò solo potrete argomentare l’immensa necessità ed influenza del
linguaggio, e di un linguaggio distinto e preciso ne’ segni, sulle idee e le
cognizioni dell’uomo.
(28.
Maggio 1821.). V. p.1394. capoverso 1.
Dal
pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio
nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime
e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle
bestie rispetto all’uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza
degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di
segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della
inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via
della voce, e de’ suoni. Inclinazione materiale e innata nell’uomo, e che
tuttavia fu la prima origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l’uomo,
ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec.
(28.
Maggio 1821.)
[1103]La poca memoria de’ bambini e de’
fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi
avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non
potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’
bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli? Essendo certo
che la memoria dell’uomo è impotentissima (come il pensiero e l’intelletto)
senza l’aiuto de’ segni che fissino le sue idee, e reminiscenze. (V. Sulzer ec.
nella Scelta di Opusc. interessanti. Milano 1775. p.65. fine, e segg.) Ed
osservate che questa poca memoria non può derivare da debolezza di organi,
mentre tutti sanno che l’uomo si ricorda perpetuamente, e più vivamente che
mai, delle impressioni della infanzia, ancorchè abbia perduto la memoria per le
cose vicinissime e presenti. E le più antiche reminiscenze sono in noi le più
vive e durevoli. Ma elle cominciano giusto da quel punto dove il fanciullo ha
già acquistato un linguaggio sufficiente, ovvero da quelle prime idee, che noi
concepimmo unitamente ai loro segni, e che noi potemmo fissare colle parole.
Come la prima mia ricordanza è di alcune pere moscadelle che io vedeva, e
sentiva nominare al tempo stesso.
(28.
Maggio 1821.)
[1104]Il verbo spagnuolo traher o traer che è manifestamente il trahere latino, si adopra alcune volte in
significati somigliantissimi a quelli del latino tractare, e de’ suoi
composti attrectare, contrectare ec. Come traer con la mano,
traer entre las manos e simili. Significati ed usi che non hanno niente che
fare coi significati o usi noti del latino trahere, nè con quelli dell’italiano trarre o tirare (ch’è tutt’uno), nè del francese tirer. Traher
vale alle volte dimenare e muovere dice il Franciosini in traher.
Ora per dimenare appunto o in senso simile si adopra spesso il verbo tractare,
o l’italiano trattare, come in Dante ec. V. la Crusca in Trattare e specialmente §.5. Ora io penso che questi significati gli avesse
antichissimamente il verbo trahere, perduti poi nell’uso dello scrivere,
e conservati però nel volgare, sino a passare ad una lingua vivente, figlia d’esso
volgare. Ecco com’io la discorro.
Io dico
che il verbo tractare al quale sono effettivamente rimasti i detti
significati, deriva da trahere, e per conseguenza gli aveva da principio
ancor questo verbo; e ne deriva così. I latini dal participio in tus (o
dal supino) di molti e molti verbi, soleano, troncando la desinenza in us,
e ponendo quella in are (o in ari se deponente) formare un nuovo
verbo, che avea forza di esprimere una continuazione, una maggior durata di
quell’azione ch’era espressa dal verbo primitivo. E in questo modo io dico che tractare
deriva da tractus, participio di trahere, e significando fra le
altre cose manu [1105]versare, significa (almeno nell’uso
suo primitivo) un’azione più continuata di quella che significava, secondo me,
il verbo trahere preso in questo medesimo senso. Veniamo alle prove.
Prima di
tutto, che tractare venga da trahere è indubitato, perchè,
massime ne’ più antichi scrittori, quel verbo ha la significazione nota di trahere,
cioè trarre, tirare, strascinare. Così anche quella di distrahere,
dilaniare. (V. il Forcellini.) Dunque derivando da trahere, ed
avendo le sue significazioni note, io dico che quelle altre che ha, e che non
paiono appartenere al verbo trahere, furono significazioni primitive, ed
oggi ignote, di questo verbo. Colla differenza che tractare propriamente
significa sempre un’azione più continuata di quelle significate da trahere,
come si può, volendo, osservare anche nei detti significati ch’esso ebbe di tirare
ec.
In
secondo luogo che i latini avessero questo costume di formare nuovi verbi dai
participi in tus di altri verbi primitivi, e questi nuovi verbi
significassero la medesima azione che i primitivi, ma più continuata e
durevole, lo farò chiaro con esempi.
Da adspicere
(verbo composto), participio, [1106]adspectus, i latini fecero adspectare.
Ognuno può sentire la maggior durata dell’azione espressa da adspectare
rispetto a quella di adspicere.
Cunctaeque profundum
Pontum adspectabant flentes.
dice
Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido Siciliano.
Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così dal
semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo
antico), participio spectus, fecero spectare. Azione
evidentemente continuatissima perchè spectantur quelle cose che
domandano lungo tempo ad essere o vedute o esaminate, come gli spettacoli ec.,
che non videntur, nè adspiciuntur (propriamente), ma spectantur
(e notate che adspicere, e specere o spicere negli
antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare
e spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale
abbiamo rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e
così gli altri composti di spectare). V. p.2275. ed Aen. 6.186. adspectans,
e osservane la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens. Così
dico dei derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum,
come exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare,
ed esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli
che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare.
(V. se vuoi la p.1388. fine.)
Da raptus
participio di rapere viene raptare cioè strascinare,
azione come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.
Così da captus
participio di capere, si fa [1107]captare, che non importa
continuazione di capere o prendere, perchè l’azione del prendere
non si può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare,
accattare e simili; azione continuata. V. il Forcellini. E da acceptus
di accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere
nel secondo e 3° esempio del Forcellini, che significano, non il semplice
ricevere, ma il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben
diverso dal frequente. V. p.1148. V. Exceptare in Virg. Georg. 3.274. e
p.2348.
Da saltus
antico participio di salire
[1]
(o dal supino saltum ch’è tutt’uno) viene saltare. E qui la forza
(dirò così) continuativa di questa formazione di verbi, è manifestissima.
Perchè salire propriamente vale saltum edere, e saltare,
vale ballare ch’è una continuazione del salire, una serie di
salti.
Così da cantus
antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che
significava primitivamente un’azione ben più continuata che il canere.
Da adventus
antico participio di advenire procede adventare, che significa l’azione
continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove advenire significa
l’atto del giungere o del sopravvenire.
[1108]Del verbo tentare dice il
Forcellini che deriva a sup. TENTUM verbi TENEO. Est
enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent quippiam
exploraturi. V.
p.2344. e p.1992. principio.
Così rictare
da rictus di ringi, dictare da dictus participio
del verbo dicere, e ductare da ductus del verbo ducere,
e nuptare da nuptus di nubere, e flexare del
vecchio Catone da flexus ec. adfectare da adfectus
participio di adficere, e adflictare da adflictus di adfligere;
e volutare da volutus di volvere; e consultare da consultus
di consulere; commentari e commentare da commentus
di comminisci e comminiscere; natare dall’antico natus o
natum di nare; e reptare (di cui v. se vuoi, Forcellini)
da reptus o reptum di repere; e offensare da offensus
di offendere; e argutare ed argutari (v. Forcell.) da argutus
di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare
da pressus di premere (gl’ital. i franc. ec. e il glossar. hanno
anche oppressare da oppressus); v. p.2052. 2349. e vectare
da vectus di vehere. V. nel Forcellini gli es. i quali dimostrano
che subvectare e convectare denotano propriamente il costume e il
mestiere di subvehere ec.
Sectari che importa (chi ben l’osserva) un’azione
più continuata e durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus,
participio di questo verbo, contratto in sectus. O piuttosto da
principio dissero secutari, e poi per contrazione sectari. E acciò
che questa sincope non si stimi un mio supposto (un ritrovato, un’immaginazione),
ecco il verbo francese exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a
dire in latino executari, composto di secutari. Anzi io credo che
questa prima forma del verbo sectari abbia durato nel volgare latino
fino all’ultimo; e lo credo tanto a cagione dei detti verbi francese e
spagnuolo, quanto perchè il nostro seguitare non par che derivi da altro
che da secutari o sequutari, come seguire da sequi.
Giacchè da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare,
come affettare da adfectare, [1109]e così altre infinite
parole. Del resto anche seguitare presso noi ha propriamente un senso
più continuato che seguire. V. p.2117. fine.
Sia poi
che l’antico volgare latino, o che quello de’ tempi bassi, o quelli finalmente
che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le nostre lingue figlie
della latina abbondano di verbi formati dal participio di altri verbi simili
latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si trovano nella buona latinità;
come usare (Glossar.) abusare ec. da usus di uti,
ec., inventare da inventus participio d’invenio, infettare
da infectus participio d’inficio, traslatare da translatus
di transferre, benchè da questo verbo gl’italiani abbiano anche trasferire;
(translatare è nel Glossario.) fissare e ficcare (fixer,
fixar) da fixus ec. (Glossar. fixare oculos.); disertare,
déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere;
v. p.2194; votare da votus di vovere; (Glossar.) da junctus
di jungere lo spagnuolo juntar, (non è nel Glossar. bensì Juncta
per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli latinobarbarici); invasare
da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè obsessus
a daemone) confessare (Glossar.) da confessus di confiteri;
e così mille altri. V. p.1527. e 2023. (I due primi verbi non si trovano nel Du
Fresne). V. p.1142. Parecchi de’ quali stanno nelle lingue nostre in cambio de’
loro primitivi latini, usciti d’uso, e pare che nel formarli non si avesse più
riguardo alla natura de’ verbi continuativi.
A questo
proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti (Proposta di alcune
correzioni ed aggiunte al Vocab. della Crusca. vol.1. par.2. Milano 1818. alla
v. allettare. p.42. seg.), il quale dice e sostiene che il nostro
ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch’è lo stesso che il
nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO, come da
LATTE ALLATTARE, da ESCA ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a
man piena; che significa Dar letto, e Perchè poi il letto è
riposo, e il riposarsi è soavissima e giocondissima cosa, [1110]ne
seguì che ALLETTARE, ossia APPRESTARE IL LETTO, divenne subito
per metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a poco a poco la prepotente forza
dell’uso fe’ sì che il senso traslato si mise in luogo del proprio e ne usurpò
le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è tortamente dedotta,
potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l’altra di DILETTARE e
DILETTO con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino delectare,
illectare, oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano niente che
fare con allicere al quale dà tutt’altra etimologia. (p.44.)
Lascio
stare che quel significato metaforico, e la successiva metamorfosi del
significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del solito
conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de’ suoi ragionamenti
si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo sottile e debole in
questo punto. Ma egli non ha veduto che adlectare (e quindi allettare)
fu formato da adlectus participio di adlicio nello stessissimo
modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si potrebbero
mentovare. Ora allettare è azione continuata, e così oblectare
che significa trastullare ec. e così dilettare ec. Laddove adlicere è propriamente l’atto del tirare, prendere, [1111]indurre colle
lusinghe. E il suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in
fraude è parimente significativo di azione non continuata. Laddove lactare
formato da lacere (diverso da quello formato da lac) significa
propriamente un’azione continuata, appresso a poco la stessa che adlectare
o allettare. V. p.2078. Giacchè anche nell’etimologia del verbo adlicere s’inganna il Monti (p.44.) facendolo derivare dal licium o liccio
degl’incantamenti amorosi. La sua etimologia, dic’egli, di cui non trovo
chi sappia darmi un sol cenno, a tutto mio credere è questa. Ma avrebbe
trovata la vera etimologia nel Forcellini v. allicio, e v. lacio.
Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è composto di ad e lacio
(che deriva da lax, fraus) mutata per la composizione la a in i,
come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec.
ec. Del resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per
porre a letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo
tanto differente dall’adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è
differente nel significato e nell’origine, e uniforme nel suono, letto
participio di leggere, da letto nome sostantivo. V. il passo di
Cicerone addotto dal Monti, e provati di sostituirvi adlicere ad adlectare,
se il puoi. In luogo che adlectare venga da lectus, (Festo)
dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere. Forcell. in Lectus
i.
Non
bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo continuativi, e che
significano continuazione o maggior durata dell’azione espressa da’ loro verbi
originari, con quello de’ verbi frequentativi, [1112]che importano
frequenza della medesima azione, e hanno al tempo stesso una certa forza
diminutiva. Questi (lasciando i frequentativi coll’infinito in essere che
non possono esser confusi co’ nostri continuativi) si formano essi pure dal
participio in us o dal supino in um, di altri verbi, troncandone
la desinenza, ma sostituendo in sua vece non la semplice terminazione infinita are,
o ari, bensì quella d’itare, o itari se il verbo da cui si
formano è deponente (o passivo.) Così da lectus participio di legere,
lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare;
da missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere,
scriptitare; da esus di edere, esitare; da sessus
o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere,
emptitare; da factus di facio, factitare; da territus
di terreo, territare; da ventus di venio, (o dal sup. ventum),
ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus
o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere,
sumptitare; da risus di ridere, risitare di Nevio. Eccetto
però il caso che il participio o supino di quel verbo dal quale si doveva
formare il frequentativo, cadesse in itus o itum, che allora
sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione itare, o itari,
fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la
desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la
semplice desinenza are o ari, con che però il frequentativo
veniva nè più nè meno a cadere in itare o itari. Così da venditus
di vendere facevano venditare (non vendititare); da meritus
di merere, meritare; (il quale par continuativo e talora denotante
costume), da pavitus antico part. di pavere, pavitare; da solitus
ec. solitare; da latitus, antico participio, o da latitum
antico sup. di latere, fecero latitare; [1113]da monitus
di monere, monitare; da domitus di domare, domitare; da dormitus
o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di liceri,
licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus,
territare; da itus o itum del verbo ire, itare;
da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus
part. di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare,
e i suoi composti; da strepitus o strepitum antico supino o
participio di strepere, e da crepitus o crepitum di crepare,
strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire
scitari, sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum
antico sup. o part. di noscere, noscitare; da agitus antico
particip. di agere, contratto poscia in agtus, e finalmente
mutato in actus, agitare. La quale eccezione merita d’esser notata,
giacchè in questi casi la formazione de’ frequentativi non differisce da quella
de’ continuativi, e si potrebbero confonder tra loro. Ed anche qualche verbo
terminato in itare o itari, ma formato da un participio o sup. in
itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta ai continuativi,
(come p.e. agitare, domitare ec. e v. Forcellini in tinnito) vale
a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato da un tal
participio o supino. V. p.1338. principio. Minitari e minitare formati
da minatus di minari e minare, sono così fatti o per
contrazione, e troncamento non solo dell’us ma dell’atus del
participio, affine di sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione
dell’a del participio in i, fatta allo stesso effetto. Similmente
rogitare da rogatus di rogare, coenitare da coenatus
di coenare. V. p.1154. V. p.1656. capoverso 1.
Mi sono
allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare distintamente tutte queste
cose, perchè non mi paiono osservate dai Gramatici nè da’ vocabolaristi. Il
Forcellini chiama indifferentemente frequentativi, tanto i verbi in itare
o itari, come quelli che io chiamo continuativi. E s’inganna, perchè [1114]la
differenza sì della formazione sì del significato, fa chiara la differenza di
queste due sorte di verbi. P.e. raptare, ch’egli chiama frequentativo di rapere e che significa strascinare, ognun vede che quest’azione
non è frequente ma continuata. E se i latini avessero voluto fare un
frequentativo di rapere, dal participio raptus avrebbero fatto raptitare
e non raptare, anzi Gellio fa menzione effettivamente di tal verbo raptitare,
9.6. nel qual luogo puoi vedere molti esempi di tali frequentativi in itare formati (com’egli pur nota) da’ participii de’ verbi originarii. E i verbi augere,
salire, jacere, prehendere o prendere, currere, mergere, defendere,
capere, dicere, ducere, facere, vehere, venire, pendere, gerere e altri
tali che hanno i loro continuativi, auctare, saltare, iactare, prehensare
o prensare, cursare, mersare, defensare, captare, dictare, ductare (che
i gramatici chiamano contrazione di ductitare e sbagliano), v. p.2340. factare,
vectare, ventare, pensare, gestare, formati tutti dal loro participio o
supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno pure i frequentativi auctitare,
saltitare, iactitare, prensitare, cursitare, mersitare, defensitare, captitare,
dictitare, ductitare, factitare, vectitare, ventitare, pensitare, gestitare,
distinti per forma e per significato proprio dai detti continuativi, e non
derivati (certo ordinariamente) da questi, (come va dicendo qua e là il
Forcellini) ma immediatamente da’ verbi originarii. V. p.1201. Il verbo videre,
da cui nasce il verbo continuativo anomalo visere (in luogo di visare),
ha pure il suo frequentativo visitare, dal participio [1115]visus
comune a videre col suo continuativo visere, e ciò per anomalia. Legere
e scribere, che hanno i loro frequentativi ec. si crede ancora che
abbiano i continuativi lectare e scriptare de’ quali v. il Forcellini
v. Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare
e scriptitare, come dice esso Forcellini ib. e v. Scripto. Così
pure del verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono
alcuni di trovare in Plauto victare (Captiv. 1.1.V.15.) Da prandere
che ha il frequentativo pransitare, noi abbiamo pransare che oggi
si dice pranzare, ma pranso agg. o partic. e sost. si trova nel
Caro e in Dante. (Alberti) V. i Diz. spagnuoli. V. p.2194. V. p.1140. e 2021.
Da mansus di manere si ha mantare (per mansare), e mansitare.
V. p.2149. fine.
Anzi non
solo i gramatici non distinguono ch’io sappia il frequentativo dal
continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch’io sappia, questo genere di
verbi, che è pur così numeroso, e importante, e che io chiamo continuativo con
voce nuova, perchè nuova è l’osservazione.
Ben è
tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e proprietà
primitive de’ verbi continuativi, frequentativi, originarii, furono molte volte
confuse nell’uso, non solo della barbara latinità, o delle lingue figlie, ma
degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da’ non antichissimi. E si
adoperò p.e. il continuativo nel significato del suo primo verbo; o perduto il
primo verbo restò solo il continuativo, e s’adoprò in vece di quello (come noi
italiani, francesi ec. diciamo saltare ec. per quello che i buoni latini
dicevano salire, verbo oggi perduto in questa significazione, e
trasferito ad un’altra ec. ec. v. p.1162. e per lo latino saltare,
diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo talvolta
prese la forza del [1116]frequentativo, o qualche volta viceversa; o
finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato o no.
Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili a
conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime, anzi
severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi appoco appoco,
danno luogo alla nascita de’ sinonimi, de’ quali v. p.1477. segg. E il
Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è spesso ed anche
sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò veruno dubita o dell’esistenza
di questo genere di verbi, o che quei tali non sieno frequentativi propriamente
e originariamente. I verbi formati nuovamente da’ participi nelle lingue figlie
della latina, non hanno ordinariamente se non la forza del positivo latino. V.
p.2022.
Questa
facoltà de’ continuativi, è una delle bellissime facoltà, non ancora osservata,
con cui la lingua latina diversificando regolarmente i suoi verbi e le sue
parole, le adattava ad esprimere con precisione le minute differenze delle
cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile partito, applicandolo con
diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a tutti i bisogni del
linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne molte e diverse
significazioni, distintissime, chiare, certe, e senza confusione; e
moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua ricchezza, e accresceva la
sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua italiana, la qual pure si è fatti
i suoi nuovi verbi frequentativi e diminutivi, formandoli da’ verbi originarii
con modificazioni di desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza
frequentativa, come appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare
ec. punteggiare, da punto o da pungere ec. ora la sola
diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare, albeggiare [1117](formato
però non da altro verbo, ma da nome, come altri pure de’ precedenti; che così
pure usa felicemente l’italiano),
[2]
arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i
loro verbi puramente diminutivi); ora l’una e l’altra insieme al modo de’ verbi
latini in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec.
(v. il Monti a questa voce, e alla v. frequentativo). E di altre tali
formazioni di verbi e d’altre voci; formazioni arditissime, utilissime a
significare le differenze delle cose, e moltiplicare l’uso delle radici, senza
confondere i significati, abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più
(credo io) che la latina, e la stessa greca. Ma de’ continuativi manca affatto,
se alle volte non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche
frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. V. p.1155. Manca pure, cred’io, la
detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare e modificare
le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per affermarlo mi
bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa lingua latina, ch’ebbe
questa bella facoltà da principio, sembra che poi andasse in disuso, e in
dimenticanza, continuando forse talvolta ad usarsi, con formare nuovi verbi di
tal fatta, ma con una nozione confusa e non precisa del valore di tal
formazione, e con significato non ben distinto dagli altri verbi; come fecero
pure de’ continuativi già formati e introdotti. [1118]Giacchè negli
stessi antichi gramatici o filologi latini de’ migliori secoli, non trovo
notizia nè osservazione positiva di questa proprietà della loro lingua. V.
p.1160.
Vo anche
più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini terminati nell’infinito
in tare o tari (dico tare, non itare) non sono
altro che continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso
andato anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo
continuativo, adoperato quindi bene spesso in vece sua. E credo che l’infinito
di detti verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo
positivo, o il supino, troncando la desinenza in are o ari, e
ponendo quella in us o in um. Come optare, secondo me,
dinota un participio optus di un verbo primitivo e sconosciuto, di cui optare
sia il continuativo. E mi conferma in questa opinione il vedere in alcuni di
questi verbi conservato per anomalia come abbiamo notato in visere, un
participio che non pare appartenente se non ad un altro verbo primitivo, e dal
qual participio medesimo io credo formato quel verbo che rimane. Per esempio il
verbo potare, che, oltre potatus, ha il participio potus.
Io credo che questo participio anomalo in detto [1119]verbo, non sia
contrazione di potatus, come dicono i gramatici, ma participio regolare
di un verbo che avesse il perfetto povi, come motus ha il
perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco,
di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus
ma notatus. E la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare,
sarebbe stata poo, chè appunto da pñv verbo greco antico e disusato in
questa e nella più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare.
(Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è
infatti continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come
può sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est
largius vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso
verbo. Onde potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato, come si può vedere ne’ due primi esempi del
Forcellini, che sono di Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch’è di Seneca,
vale lo stesso che potio, cioè bevuta, per la improprietà di
quello scrittore più moderno, e meno accurato. E vedete appunto che potio parola
derivata da potus participio del verbo perduto ch’io dico, significa
azione poco continuata, cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset,
[1120]subito illa in media potione exclamavit, (Cic.) cioè nell’atto
di bere. Laddove potatio formata da potatus di potare, significa
beveria, come ho detto, e non si potrebbe propriamente e
convenientemente esprimere con una voce formata dal verbo bibere.
Osservazione, secondo me, assai forte, e che serve a dimostrare e confermare sì
l’esistenza del detto verbo originario di potare, ed avente il
participio potus, sì tutta la mia teoria de’ verbi continuativi.
Rechiamo
un altro esempio di tali participi anomali dinotanti l’esistenza di un verbo
primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto participio, è, al mio
credere, il continuativo. Auctare, come vedemmo p.1114. è continuativo
di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio auctatus.
Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha
il participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus,
così mactus (e lo dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco
dunque evidente un antico e disusato verbo magere o maugere cioè magis
augere, di cui mactus è il participio, e mactare il
continuativo formato dal participio mactus che impropriamente se gli
attribuisce. V. p.1938. capoverso 1. e p.2136. e 2341.
Il verbo
stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo esse
formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus o stum,
[1121]piuttosto da situs o situm, contratto in stus
o stum. O forse da prima si disse sitare, come secutari, e
solutare da cui soltar per solvere, come ho detto p.1527.
e voltare per volutare ec. L’analogia fra il verbo essere
e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e
nel franc. été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare. Del
qual participio situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch’è participio appunto di ser essere. E forse sussiste
ancora il detto participio nel situs dei latini che significa collocato,
ma che spesso è usurpato dagli scrittori in significato somigliantissimo a
quello di un participio del verbo essere, e che il Vossio con pessima
grazia fa derivare da sinere. È noto che presso Plauto (Curcul. 1.1.89.)
alcuni leggono site in significato di este, dal che verrebbe situs,
così naturalmente come auditus da audite; e che l’antica
congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de
L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente
lo stesso Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova adoperato
più volte in luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione
diuturnitatis (v. sto), (e ne reca gli esempi), cioè, dico io,
secondo la primitiva proprietà di esso verbo che è continuativo di esse.
Adsentari che il Forcell. dice esser lo stesso che adsentiri, forse
non è altro che un suo continuativo o frequentativo anomalo o contratto da adsentitari
o per adsensari. Nel Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si
trova: SENTITARE, in animo sensim diiudicare. V. p.2200. V. p.1155. e
p.2145. fine e p.2324. fine.
A me par
di poter asserire, 1. che tutti o quasi tutti i verbi latini radicali (intendo
non composti, non derivati, non formati da nomi, come populo da [1122]populus,
o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad anomalie, constano sempre di
una sola sillaba radicale e perpetua, e la più parte di tre sole lettere
radicali (al modo appunto de’ verbi ebraici); come parare, docere, legere,
facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti sono par, doc, leg,
fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una sola sillaba,
come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. e così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa
ec. come puoi vedere nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib,
e la sillaba è nondimeno una sola. Talvolta di una sillaba parimente, e di sole
due lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così
anche ponere, cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po
e ce, facendo posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma
questi tali anderebbero piuttosto fra’ verbi anomali. Potranno dire che il g
di legere non si conserva nel supino lectum e nel participio; che
l’a di facere si perde nel perfetto feci, e il c di
dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c,
essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel
supino e participio in c per più dolcezza; non però si perde nè si
trascura come l’o di lego, e come le altre lettere e sillabe che
servono alla sola inflessione de’ verbi. E così [1123]dite dell’a
di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o per arbitrio, o
per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma in ogni modo, mutata
e non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo stesso
che tegsi e tegtum. V. p.1153.
2. Dico
che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola sillaba
radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente singolare
indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi ebraici nella
terza persona del perfetto ch’è la loro radice) e tre nell’infinito.
3. Dico
che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno più di una
sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona presente
singolare indicativa, più di tre sillabe nell’infinito; non sono radicali,
ancorchè paiano, ma derivati, ancorchè non si trovi da che fonte.
Bisogna
eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta congiugazione
che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in audire.
Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba radicale, non
quanto a quella di due sole [1124]sillabe nella prima e terza persona
indicativa, e di tre sole nell’infinito. Nell’infinito, audire, sentire ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella terza persona indicativa è
chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit. Nella prima persona audio,
sentio pare che n’abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si
contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe,
considerando e pronunziando per esempio l’io di audio, come
dittongo. Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi
dittonghi nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del
discorso, sì delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di
quello che somigli all’aurea latinità.
Così l’antica
pronunzia de’ dittonghi greci che si pronunziavano sciolti, non impediva che si
considerassero come formanti una sola sillaba. De’ quali dittonghi parlerò poco
appresso. V. p.1151. fine. e 2247.
Queste
considerazioni indeboliscono assai anche l’eccezione che abbiamo riconosciuta
ne’ verbi della 4. congiugazione e provano che se questi pare che abbiano 2.
sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza accidentale d’inflessione,
che proprietà essenziale del verbo assolutamente considerato, e non influisce
sul numero intiero delle sue sillabe radicali o no: numero che ne’ luoghi
specificati, è lo stesso in questi che negli altri verbi.
Lo
stesso dico de’ verbi della seconda congiugazione, dove doceo, secondo
la prosodia latina conosciuta, è trisillabo. Lo stesso di facio, e
simili. Lo stesso de’ verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro
anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due
sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano
una sola sillaba.
Secondo
la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare come costante nella
lingua latina antichissima, che la prima e terza persona singolare [1125]presente
indicativa del perfetto, fossero parimente dissillabe in tutti i verbi radicali
e regolari, al modo appunto che in ebraico la terza persona di detto tempo e
numero. V. p.1231. capoverso 2. Dei verbi della terza congiugazione, questo è
manifesto, come in legi e legit, feci e fecit, dixi
e dixit. Dei verbi della seconda, non si può disputare, ammessa la
suddetta opinione, ch’io credo certissima, (essendo naturale all’orecchio rozzo
il considerare due vocali unite come una sillaba sola, e proprio di un certo
raffinamento e delicatezza il distinguerla in due sillabe): perchè secondo essa
opinione, docui e docuit anticamente furono dissillabi. Restano
la prima e la quarta congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi
ed audivit sono trisillabi. Ora della quarta congiugazione io penso che
il perfetto primitivo fosse in ii cioè audii e audiit,
perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o quasi tutti i verbi
regolari d’essa congiugazione, a molti de’ quali manca il perfetto in ivi,
come a sentire che fa sensi. Audii ed audiit (che
troverete spessissimo scritti all’antica audi ed audit, come
altre tali i che ora si scrivono doppi) erano, secondo quello che ho
detto, dissillabi. La lettera v, io penso che fosse frapposta
posteriormente alle due i di detto perfetto, per più dolcezza. E [1126]tanto
sono lungi dal credere che la desinenza in ivi di quel perfetto, fosse
primitiva, che anzi stimo che anche la desinenza antichissima del perfetto
indicativo della prima congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si
dicesse amavi, ma amai, dissillabo secondo il sopraddetto. Nel
che mi conferma per una parte l’esempio dell’italiano che dice appunto amai,
(e richiamate in questo proposito quello che ho detto p.1124. mezzo), (come
anche udii), e del francese che dice j’aimai; per l’altra parte,
e molto più, l’esser nota fra gli eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l’ancien Orient n’a jamais connue. (Villefroy,
Lettres à ses Elèves pour servir d’introduction à l’intelligence des divines
Écritures. Lettre 6. à
Paris 1751. t.1. p.167.) V. p.2069. principio. E lasciando gli argomenti che si
adducono a dimostrare la maggiore antichità de’ popoli Orientali rispetto agli
Occidentali, e la derivazione di questi e delle loro lingue da quelli,
osserverò solamente che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale
la latina ha certo comune l’origine, o derivi dalla greca, o le sia, come
credo, sorella. E di più dice Prisciano (l. I. p.554. ap. Putsch.) (così lo
cita il Forcell. init. litt. u nella mia ediz. del 400. sta p.16. fine)
che anticamente la lettera u multis italiae populis in usu non erat. E
che il v consonante fosse da principio appo i latini una semplice [1127]aspirazione,
e questa leggera, si conosce, secondo me dal vedere ch’esso sta nel principio
di parecchie parole latine gemelle di altre greche, che in luogo d’essa lettera
hanno lo spirito lene o tenue, come öów ovis, vinum oänow, video eàdv, viscus o viscum Þjòw. (Talora anche in luogo di spirito denso come nßòw, onde gli Eoli ??uiòw, i latini filius.) V. Encyclop. Grammaire. in H. pag.214.
col.2. sul principio, e in F. ec. E ch’elle sieno parole gemelle, è consenso
di tutti i gramatici. Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini
cangiarlo in s (e così per un sigma lo scrivevano i greci anticamente),
come in ìpnow che presso i latini si disse prima sumnus
(Gell.) e poi somnus ec. V. p.2196. Anzi di questa cosa non resterà più
dubbio nessuno se si leggerà quello che dice il Forcellini (v. Digamma. e
vedilo), e Prisciano (p.9. fine-11. e vedilo). Da’ quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacchè
dagli eoli prese assai, com’è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli
Eoli era un’aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole
comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva alle
vocali in mezzo alle parole per ischifare l’iato, come in amai, amplia
?it termina ?itque ha un’iscrizione presso il Grutero
(V. Encyclop. Grammaire, art. F. Cellario, Orthograph. Patav. Comin. 1739.
p.11-15.). E v. il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della
quarta congiugazione. Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l’antico v latino fu (come oggi fra’ tedeschi) lo stesso che una f, non resta
dubbio che non fosse aspirazione, giacchè la f non fu da principio
lettera, ma aspirazione, e lieve. E così viceversa gli spagnuoli che da prima
dicevano fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo,
fondo, formiga, forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar,
huso, higo, huìr, hierro, hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca,
hender ec. V. p.1139. e 1806. In somma si vede chiaro che la primitiva e
regolare uscita de’ perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii,
trasmutata in avi ed [1128]ivi per capriccio, per
dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare, corrotta e popolare,
che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle parole, col successo del
tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e convertirsi in regola, come
vediamo nella nostra e in tutte le lingue. V. p.1155. capoverso ult. e p.2242.
capov.1. e 2327.
Queste
osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed avendo veduto che
tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola sillaba radicale,
verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu tutta composta di
monosillabi, come è probabile e naturale che fossero tutte le lingue primitive
(balbettanti come fanno i fanciulli che da principio non pronunziano mai se non
monosillabi; (come pa, ma, ta) poi due sole sillabe per parola,
accorciando, e contraendo, o troncando quelle che sono più lunghe; e
finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a pronunziar parole d’ogni misura,
in forza per altro della imitazione, e dell’esempio che hanno di chi le
pronunzia, il che non avevano i primi formatori delle lingue) e come è tuttavia
la cinese, meno forse discosta di qualunque altra lingua nota, dal suo primo
stato, a causa della maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come
bisogna discorrere.
Ho detto
che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non composti e non derivati
da nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi non primitivi, perchè tutti i
metafisici moderni s’accordano, che tutte le lingue son cominciate e derivano
da’ nomi, e il vocabolario primitivo di tutti i popoli, fu sempre una semplice
nomenclatura (Sulzer). È dunque indubitato che anche quei verbi latini che
paiono radicali, derivano da nomi sconosciuti, giacchè le radici d’ogni lingua
furono i nomi soli, e volendo esprimere azioni, [1129]non s’inventarono
certo nuove radici, che non sarebbero state intese (giacchè gran tempo dovè
passare prima che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la
nomenclatura era già stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè
da’ nomi. Ora vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non
hanno veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno una sola sillaba
radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte
furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta la
lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i verbi pacare,
regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e
perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola sillaba e
3. sole lettere radicali, 3. sillabe all’infinito ec. E tuttavia non gli
possiamo chiamare radicali perchè resta notizia de’ nomi da cui sono formati, e
son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di
questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state fra le
prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente rex,
e dux nella prima società. Così l’antico precare e lacere,
che cadrebbono sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e
lax monosillabi. Così sperare da spes. Così arcere
da arx che significa luogo alto, cima, altezza (idea certo primitiva
nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. V. p.1204. Così quiescere
da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive.
Lactare da lac. V. p.2106. principio. [1130]Se così
discorressimo intorno agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non
presi poi manifestamente dal greco, o d’altronde) che hanno una sola sillaba
radicale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse più
volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi. Legere
lo fanno derivare da l¡gv; e lex Cicerone e Varrone a
legendo. Ma la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo.
Oltre ch’è più facile, più conforme al meccanico dell’etimologia, ed al solito
progresso delle parole il derivare legere da lex che viceversa.
Io penso che lex sia la radice di legere ed avesse primitivamente
un significato perduto, diverso da quello di legge, ed atto a produr
quelli di legere. Fax vale face, e deriva, come pare, dal greco,
ed è tutt’altra parola da quella ch’io voglio dire. Penso cioè che facere
derivi da un antichissimo monosillabo fax di significato analogo, e ne
trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex, pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è composta di ars e fax,
la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax,
cambiato in fex per forza della composizione, come factus diviene
fectus ne’ composti, adfectus, effectus, confectus ec. e facere
[1131]nel perfetto ha feci, e così iacere ha ieci,
e jactus fa adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi
da un antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps,
anceps, auceps ec. Fra’ quali anceps, io credo assai più con Festo
che sia derivato dall’antica preposizione amphi rispondente alla greca ŽmfÜ, e troncata in am, e quindi in an dalla composizione (nel
che tutti convengono), e da caps appartenente a capere, di quello
che a caput, come piace ad altri, fra’ quali il Forcellini. Giacchè mi
pare che risponda letteralmente al greco Žmfilaf¯w composto appunto di amfÜ e di lamb‹nv capio, piuttosto che ad Žmfik‹rhnow, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi
adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io credo poi
che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput (ne’ di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps).
La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei
c.5.) ed io per lo contrario capere da caput, o dalla stessa
radice; dalla quale però io credo derivato prima caput, e poi capere,
o che essa radice, significasse da principio caput. Giacchè, lasciando
che questo è nome, e quello è verbo, è ben più naturale, [1132]che prima
sia stata nominata la parte principale del corpo umano, e poi l’azione del
prendere. E non so se possa qui aver niente che fare il nostro cappare
(volgarmente capare), che significa pigliare a scelta, e deriva
da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè cosa per cosa,
o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose.
E così capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo,
o pigliare un capo cioè una cosa, nominando la parte principale
pel tutto, o prendendo la metafora dall’essere il capo la parte principale dell’uomo:
onde i latini, (ed anche oggi gl’italiani testa, e i francesi tant
par tête, cioè tant par chaque personne. Alberti) dicevano caput
per uomo, o persona, o individuo umano. V. ancora il §.6.7
e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese e spagnuolo ec.
V. chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§.
della Crusca, e così anche i Lessici greci. V. p.1691.
La
radice monosillaba dell’antico specere o spicere si troverebbe
similmente ne’ composti auspex, haruspex, cioè spex o spax.
Così di iungere in coniux o coniunx, cioè iux o iunx
ec. V. p.1166. fine. 2367. principio.
E così
si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi, o quasi tutti,
che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli diversamente, e
differenziandoli con variazioni di significato, e con innumerabili inflessioni,
composizioni, modificazioni di ogni sorta, giungessero i latini a cavare
infinite parole, infinite significazioni, esprimerne le minime differenze delle
cose che da principio si confondevano e accumulavano [1133]in ciascuna
delle dette poche parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto
alla necessità quanto all’utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del
discorso, e in somma da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura)
cavare tutta una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno
state. E così denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec. Così la
Chinese ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di
tutte le parole latine derivate, composte ec. da uno di questi monosillabi,
come p.e. dux, che somministrerebbe un’infinita figliuolanza, senza
contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de’ verbi o nomi derivati
o composti ec. ne’ loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e modi, e voci
(attiva e passiva); e si vedrebbe per l’una parte quanto le vere radici sien
poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale difficoltà di porle
in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può fare intendere e
servire; per l’altra parte quanta sia l’immensa fecondità di una sola radice, e
le diversissime cose, e differenze loro, ch’ella si adatta ad esprimere
mediante i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e ben coltivata.
Raccogliendo
il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si facessero in maggior
numero e con più diligenza che non si è fatto finora, (della qual diligenza e
profondità gl’inglesi e i tedeschi ci hanno già dato l’esempio anche in questi
particolari, massime negli [1134]ultimi tempi, come Thiersch ec.) si
semplificherebbe infinitamente la classificazione derivativa delle parole,
ossia delle famiglie loro; l’analisi delle lingue si spingerebbe quasi sino
agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a conoscere gran parte delle
lingue primitive; (v. Scelta di opusc. interess. Milano 1775. vol.4. p.61-64.)
lo studio dell’etimologie diverrebbe infinitamente più filosofico, utile ec. e
giungerebbe tanto più in là di quello che soglia arrestarsi; facendosi una
strada illuminata e sicura per arrivare fin quasi ai primi principii delle
parole, e le etimologie stesse particolari, sarebbero meno frivole; si
conoscerebbero assai meglio le origini remotissime, le vicende, le gradazioni,
i progressi, le formazioni delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e
spesso la loro vera) natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime
bellissime ed utilissime verità, non solamente sterili e filologiche, ma
fecondissime e filosofiche, atteso che la storia delle lingue è poco meno (per
consenso di tutti i moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana;
e se mai fosse perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia
delle nazioni. V. p.1263. capoverso 2.
Osservo
che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la greca, contro
quello che può parere a prima giunta, per causa della sua minore antichità vera
o supposta.
1. L’infinità
e l’immensa varietà delle modificazioni che la lingua greca poteva dare alle
sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo spazio della sua letteratura, e
nel grandissimo numero de’ suoi scrittori, a poterlo ed a farlo, (principal
causa della sua potenza e ricchezza), reca un grande impedimento a scoprire [1135]i
primitivi elementi, e le vere ed ultime radici di essa lingua, in mezzo alla
confusione alla selva delle innumerabili e differentissime diversificazioni di
significato, di forma ec. che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci
rimangono. Puoi vedere la p.1242. marg. fine.
2. Le
diversissime relazioni ch’ebbero i popoli greci con popoli stranieri d’ogni
sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le spedizioni d’ogni
genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori a quei primi tempi che noi
possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che hanno certo influito
assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue ricchezze per l’una parte,
per l’altra mandate molte sue proprie ed antichissime radici in disuso, ed
altre svisatene ed alteratene (v. in questo proposito il luogo di Senofon.
della lingua Attica); recano altro gravissimo impedimento al nostro fine.
Trattandosi massimamente di relazioni con popoli le cui lingue sono quali del
tutto sconosciute, quali malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse
maggiori relazioni con forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni.
Il che 1° diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2° la lingua latina essendo
già formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca,
(dico quando incominciarono [1136]le grandi ed estese relazioni de’
latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro,
nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della lingua
latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi
sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali
riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava quando
Roma o non era ancor nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi inglesi che
hanno cercato di provare l’affinità del sascrito colle lingue antiche Europee,
sebben credono la greca derivata dall’origine stessa che la latina, hanno
tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni, dicendo che la
penisola d’Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole (della
Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi
tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi
diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio.
n.13. p.38. fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci
ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la
lingua lat. ne abbia meglio conservate le prime forme. L’H derivata dall’Heth
dell’alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era un’aspirazione
densa o aspra (Encyclop. planches des caractères) simile all’j spagnuolo
(Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere aspirativo,
laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove
antichissimamente era pur segno d’aspirazione o spirito. La f e il v mancanti all’alfabeto Fenicio (Encyclop. l.c.) mancarono pure come vedemmo all’antico
alfabeto latino V. p.2004-2329. (e la p.2371. fine)
3. E
questa che son per dire è la ragione principale. Tutti sanno, e dalle cose
ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si allontanino [1137]immensamente
dalla loro prima e rozza forma mediante la coltura. Una lingua non colta, e
parlata da un popolo poco in relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo
tempo o qual era da principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente
vi si possa ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e
perfezionata solo negli ultimi tempi dell’antichità. Giacchè l’epoca del suo
perfezionamento è quella di Cicerone. Ed oltre parecchi monumenti rozzi, ed
anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale trasformazione
della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti scrittori di lingua
assai meno rozza della prima, e meno colta della Ciceroniana. Mediante le quali
cose, come per gradi, possiamo risalire, se non altro, assai vicino ai
principii della lingua latina.
Ora per
lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua greca appartiene non
solo alla più lontana epoca dell’antichità che noi conosciamo distintamente, ma
anzi ad un’epoca ancora tenebrosa e favolosa. E il più antico monumento della
scrittura greca che ci rimanga, è forse anche (eccetto i libri sacri) la più
antica scrittura [1138]che si conosca: dico Omero. E questo scrittore
non solamente non è rozzo, ma tale che non ha pari di pregio in veruno de’
secoli susseguenti. Nè tale avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta,
o quasi. Bisogna dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga
serie di tempi e di scrittori ne’ quali la lingua di rozza e impotente
divenisse appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i Plauti, i
Lucrezi che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono
Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di loro. Anzi da
Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca. V. dunque la gran
differenza degli ostacoli allo scoprimento della prima lingua greca, paragonati
con quelli per la prima lingua latina. Possiamo dire che nella lingua latina
abbiamo la stessa antichità della greca, e contuttociò un’antichità meno antica
e più vicina a noi.
Io credo
però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle origini
greche. Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed arrivando alla
fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa. O se il latino è
derivato dal greco, certo n’è derivato in antichissima età, e così verremo ad
illuminare mediante le origini latine, quest’antichissima età della lingua
greca. V. p.1295.
Se è
vera l’opinione del Lanzi che la lingua [1139]Etrusca non sia fuori che
un misto dell’antichissimo latino e dell’antichissimo greco, detta lingua, e il
suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche. E vicendevolmente le
osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter giovare notabilmente alla
intelligenza e rischiaramento della lingua Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l’altra
parte altrettanto interessante.
Alla
p.1127. E lo pronunziavano così leggermente, che ora sebbene ne resta un
vestigio nella scrittura, convertito nel segno dell’aspirazione, è svanito però
del tutto dalla pronunzia, anche come semplice aspirazione. Similmente i
francesi, per quello che noi diciamo fuori o fuora e gli
spagnuoli fuera dal lat. foras o foris, dicono hors,
aspirando però l’h. In luogo di voce i Veneziani dicono ose
dileguato il v. Il f greco, non è, come si sa, che un p aspirato, come si vede anche nelle mutazioni gramaticali e sostituzioni
dell’una di tali lettere all’altra. Mancava, come si dice, al primitivo
alfabeto greco detto Cadmeo o Fenicio, e vi fu aggiunto, come dicono, da
Palamede (Plin. 7.56.) insieme col x e col J che sono un k ed un t aspirati (Servius ad Aen. 2. vers.81.) V. Fabric. B. G. I. 23. §.2. e il
Lessico dell’Hofmanno, v. Literae. È anche probabile che mancasse all’Alfabeto
ebraico e che il b non fosse che un p. lettera che oggi manca a
detto alfabeto. V. p.1168. L’alfabeto chiamato Devanagari ossia quello della
lingua sascrita, (dalla quale alcuni dotti inglesi fanno derivar la latina)
sebbene composto di 50 lettere manca, della f, e invece la detta lingua
adopera un b, o un p aspirati. (Annali di Scienze e lettere.
Milano 1811, n.13, p.43.) ec. ec. (5. Giugno 1821.). Considera ancora il nome
greco di Giapeto, da Jafet, ebreo o fenicio ec.
[1140]Alla p.1115. E perchè meglio si
veda la differenza reale tra i frequentativi e i continuativi, ogni volta che
questi verbi erano usati dagli scrittori, secondo il loro valor proprio,
consideriamo quel passo di Virgilio (Aen. 2.458. seq.) dove dice Enea che salì
alla sommità della reggia di Priamo assediata da’ Greci:
Evado ad
summi fastigia culminis: unde
Tela manu
miseri IACTABANT irrita Teucri.
Per poco
che s’abbia l’orecchio avvezzo al latino, facilmente si vede come impropria e
debole in questo luogo sarebbe la parola iaciebant invece di iactabant.
Ma quanto male vi starebbe anche iactitabant, cioè il frequentativo di iacere,
si vedrà ponendo mente che detta parola avrebbe significato lanciare spesso, ed
anche languidamente; laddove iactabant, continuativo, significa lanciavano
assiduamente, e a distesa senza veruna intermissione. E così questo verbo
riesce proprissimo, ed ottimamente quadra al bisogno. E l’azione qui viene ad
essere continuativa, e non frequentativa, che è troppo poco ad una resistenza
ostinata quale Virgilio voleva esprimere. V. dunque la differenza fra il
continuativo e il frequentativo, e se iactare sia frequentativo come
dicono i gramatici. Nè mi si dica che Virgilio voleva esprimere una resistenza
debole e inutile, e però volle usare una parola che esprimesse certo languore
di azione. Debole e inutile, [1141]rispetto alle forze superiori de’
greci, non già debole rispetto alle forze degli assediati, anzi tanta quanta
più si poteva. E Virgilio vuol descrivere una resistenza quanto più vana, tanto
più disperata. E così quel miseri e quell’irrita che esprimono l’inutilità
della resistenza fanno un bello e vivo contrapposto collo iactabant che
esprime lo sforzo, l’infaticabilità, l’affanno, l’ostinazione, la ferocia, la
fermezza, la pienezza della resistenza, e rende questo luogo sommamente
espressivo in virtù della proprietà delle parole, al solito di Virgilio. La
qual bellezza, e la piena forza e il vero senso di questo verbo nel detto luogo
e in altri simili, come ancora di altri tali verbi in tali usi, e le bellezze d’altri
siffatti luoghi, non credo che sieno state mai sentite da nessun moderno, per
non essersi mai posto mente alla vera proprietà, alla propria forza, natura,
indole di questo genere di verbi che chiamo continuativi. Servio spiega,
IACTABANT: Spargebant, quasi nihil profutura, senso che non ha che far
niente con quello che abbiamo osservato, e che deriva dal credere iactare
un verbo tra frequentativo e diminutivo, come iactitare o presso a poco;
e che tuttavia credo essere il senso nel quale questo e mille altri luoghi
simili ed analoghi sono stati e sono intesi da tutti.
[1142]Alla p.1109. Fra’ quali da depositus
di deponere il verbo depositare o dipositare italiano, e
lo spagnuolo depositar e il latinobarbaro depositare, verbo che
continua quanto si può l’azione del deporre, significando il deporre una cosa
che non si debba ripigliare così tosto, o il deporla raccomandandola, e
commettendola alla fede, o ponendo in cura e custodia altrui, che ognun vede
essere azione più lunga del deporre, e quanto il deporre sia più semplice. Il
Glossar. latino barbaro ha similmente assertare ec. da assertus
ec. usitare frequentativo ec. da usus ec. conservato in italiano,
come pure il suo participio in francese ec. V. il detto Glossar.
Molti di
così fatti verbi che si stimano di origine o barbara o recente, e nati ne’
tempi della bassa latinità, o ne’ principii delle lingue nostre, io credo che
sieno antichi continuativi latini o perduti o non ammessi nell’uso de’ buoni
scrittori, e pervenuti alla lingue nostre mediante il latino volgare.
Portiamone alcune prove.
Versare è continuativo di vertere
dal suo participio versus. Il Forcellini lo chiama frequentativo. E io
domando se in questi esempi ch’egli adduce (v. gli esempi del primo §.) versare importa frequenza o continuazione. E così quando Orazio disse
Vos
exemplaria graeca
Nocturna
versate manu, versate diurna
facilmente
si vede che dicendo vertite avrebbe detto assai meno, e significata l’assiduità molto impropriamente. Così discorrete del passivo versari che [1143]significa
un’azione o passione della quale non so qual possa essere di sua natura più
continua. Così di conversari, adversari ec. Da versare o da transversus,
participio di transvertere, deriva transversare, e da questo il traversare,
l’attraversare, e l’intraversare italiano, il francese traverser,
e lo spagnuolo travessar e atravessar. Ma il verbo transversare
escluso dagli onori del Vocabolario sta relegato ne’ Glossari, come in
quello del Du Cange che l’interpreta transire, trajicere; e il
Forcellini lo rigetta appiè del suo Vocabolario nello spurgo delle voci trovate
senza autorità competente ne vecchi Dizionari latini, e lo spiega transverse
ponere. Nè la recente Appendice al Forcellini lo toglie di quel posto o lo
ricorda in veruna guisa. Ora ecco questa parola barbara in un gentilissimo
poemetto o idillio del secolo di Augusto o del susseguente, dico in quel
poemetto che s’intitola Moretum, (attribuito da alcuni a Virgilio, da
altri ad un A. Settimio Sereno o Severo, poeta Falisco del tempo de’
Vespasiani) ad imitazione del quale, (cosa finora, ch’io sappia, non osservata)
il nostro Baldi scrisse il famoso Celeo, dove quasi traduce i primi versi del
poemetto latino. Dice dunque l’autore d’esso poemetto
[1144]Contrahit admistos nunc fontes
atque farinas:
TRANSVERSAT durata MANU, liquidoque coactos
Interdum grumos spargit sale.
(v.45.
seqq.)
Cioè vi
passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta colla
mano. Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di origine
antica, e latina pura.
Potrebbe
darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè
rivolgere e dimenare fra le mani. Nondimeno la spiegazione che danno il Gloss.
e il Forcell. a transversare, la prep. trans, e il significato
della voce transversus ec. par che confermino la mia interpretazione. C’è
anche il verbo transvertere di cui v. Forcell. e di cui transversare
par che debba essere il continuativo.
Tiriamo
innanzi con altro esempio. Da arctus o arcitus antico participio di
arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale v.
Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo arctare
che significa stringere constringere, non già momentaneamente come
quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere continuatamente, ed in modo che
l’azione dello stringere non sia un puro atto, ma un’azione. O da
arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che
significa ne’ buoni scrittori latini ristringere. Ma ne’ Glossari latino
barbari questo verbo si trova in significato di costringere o forzare,
e in questo senso l’adoperò Paolo giureconsulto l’esempio del quale è
registrato negli stessi vocabolari latini: e in questo senso assai più che in
quello di ristringere (oggi, si può dire dimenticato) s’adopera in
Italia coartare e coartazione, quantunque la Crusca non dia
questo significato a coartare, [1145]e dandolo a coartazione,
s’inganni credendo che nell’unico esempio che riporta, questa parola sia presa
in detto senso, giacchè v’è presa nel senso di restrizione; conforme ha
dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce Coartazione. vol.1. par.2.
p.166.). Il quale condanna come barbare le parole coartare e coartazione
prese in forza di Costrignimento, Sforzamento. Ora io credo che questo
significato non sia nè barbaro in italiano, nè moderno nel latino, ma antico ed
usitato nel latino volgare, quantunque non ammesso nelle buone scritture.
Primieramente
osservo che coarctare è continuativo di coercere, e coercere,
come ognun sa, ha ne’ buoni latini un significato metaforico (più comune forse
del proprio) che somiglia molto a quello di forzare. Anzi alcuni
gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra autorità
incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti
attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae
cohabitare COERCUIT, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli
eruditi è creduto apocrifo, e dell’età mezzana, tuttavia non è forse d’autorità
nè di tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario
latino. Laonde, se coercere [1146]significava forzare, o
cosa somigliante, è naturalissimo che il suo continuativo coarctare
avesse, almeno nel volgare latino, lo stesso o simile significato.
In
secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in
tutte le lingue che ne derivano. Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine
exemplo monerem: deinde ut in posterum ipse AD EANDEM TEMPERANTIAM
ADSTRINGERER, cum me hac epistola quasi pignore obligavissem, dice
Plinio minore (l.7. ep.1.). Che altro vuol dire se non costringersi,
forzarsi, obbligarsi (com’egli poi spiega) alla temperanza? Altri
usi di adstringere (e parimente di obstringere, constringere, e
del semplice stringere latino) similissimi a quelli di forzare
sono noti ai gramatici. E cogere che in senso metaforico (più comune
ancora del proprio) significa forzare, ed è contrazione di coagere,
che altro significa propriamente se non se in unum colligere, congregare,
condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo continuativo coactare
si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare. Presso noi stringere,
astringere, costringere, [1147]oltre i significati propri hanno
anche il metaforico di sforzare. Presso i francesi astreindre e contraindre
si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre manca del
primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera
questa significazione propria, come figurata. Il che avviene ancora al secondo
e terzo dei detti verbi italiani. Presso gli spagnuoli apretar che
significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare;
e constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere)
non serba altro significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere
per significato proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico. Il legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le
significazioni metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare
[3]
in italiano, in francese, [1148]in ispagnuolo ognuno sa che obligare,
obliger, obligar si adopra continuamente nell’espresso significato di costringere.
Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di coercere),
oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella
bassa latinità, ma nell’antico volgare latino, il senso di forzare.
Alla
p.1107. Quantunque il Forcellini chiama acceptare frequentativo di accipere,
sed, aggiunge, eiusdem fere significationis. Ora la differenza della
significazione la può sentire ne’ detti esempi ogni buon orecchio,
sostituendovi il verbo accipere. E quanto al frequentativo, osservi
ciascuno che differenza passi dal ricevere annualmente una tale o tale entrata,
ch’è azione continua rispettivamente alla natura del ricevere, al ricevere
frequentemente; azione che non importa ordine, nè regola, nè determina il come,
nè il quando nè con quali intervalli si riceva.
Ed a
questo proposito porterò un luogo di Plauto, dove Arpage venuto per pagare un
debito [1149]del suo padrone, dice a Seudolo servo del creditore Tibi
ego dem? Risponde Seudolo
Mihi hercle
vero, qui res rationesque, heri
Ballionis
curo, argentum adcepto, expenso, et cui debet,
dato. (Pseud. 2.2. v.31. seq.)
Ecco tre
continuativi, e nella loro piena forza e proprietà: adceptare da adceptus
di adcipere, expensare da expensus di expendere, e datare
da datus di dare. Crediamo noi che Plauto abbia posti a caso
questi tre verbi in fila, tutti d’una forma, in cambio de’ loro positivi? Ma
qui stanno e debbono stare i continuativi in luogo de’ positivi, perchè questi
esprimono una semplice azione, laddove qui s’aveva a significare il costume di
far quelle tali azioni. Datare alcuni dicono ch’è lo stesso che dare.
(Indice a Plauto). Vedete come s’ingannino, e sbaglino la proprietà dell’idioma
latino. Il Forcellini lo chiama frequentativo di dare, e portando un
passo di Plinio maggiore, Themison (medico) binas non amplius
drachmas (di elelboro) datavit, spiega dare consuevit. Ma il
costume è cosa continua (quando anche l’azione non è continua) e non già
frequente, e la frequenza viceversa non importa costume. E quando Plauto in
altro luogo (Mostell. 3.1. v.73.) dice Tu solus, credo, foenore argentum
datas; [1150]e Sidonio (lib.5. ep.13.), ne tum quidem domum
laboriosos redire permittens, cum tributum annuum DATAVERE, usano il
continuativo in luogo del positivo, perchè hanno a significare non il semplice
atto di dare, ma il costume di dare, che è cosa nè semplice nè frequente, ma
continua.
Da sputus
o sputum di spuere, sputare. Iamdudum sputo sanguinem, dice
Plauto, cioè soglio sputar sangue, e non avrebbe potuto dire spuo.
V. in tal proposit. Virgil. (Georg. 1.336.) receptet. Ricettare e
raccettare in italiano non è azione venti volte più continua, o durevole
ec. di ricevere? V. anche resultat Georg. 4. 50. ed osserva il risultare
ital. franc. e spagn. Puoi vedere p.2349.
Da
ostentus di ostendere, participio, a quel che pare, più antico di ostensus, ebbero i latini il continuativo ostentare.
Altera manu fert lapidem, panem OSTENTAT altera
disse
Plauto (Aulul. 2.2. v.18.), e non avrebbe potuto dir propriamente ostendit,
volendo significar uno che quasi ti mette quel pane sotto gli occhi, perchè tu
non solamente lo veda, ma lo guardi. E Cicerone metaforicamente (Agrar. 2.
c.28.): Agrum Campanum quem vobis OSTENTANT, ipsi cuncupiverunt.
Ponete ostendunt invece di ostentant, e vedrete come l’azione
diventa più breve, e la sentenza snervata e inopportuna. Lo stesso dico delle
altre metafore di ostentare per iactare, gloriari, venditare e
simili, tutti significati continuati.
Alla
p.1166. Quello che dico de’ verbi in tare si deve anche estendere ad
altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per anomalia
de’ participi o supini da cui derivano; come pulsare (che anticamente, e
soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si scrisse anche pultare)
[1151]è continuativo di pellere dall’anomalo participio pulsus,
e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto. Voglio
però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è
contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è diverso il frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s’egli
sia propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in
questo luogo di Cicerone (De Nat. Deor. 1. c.41.) cum SINE ULLA
INTERMISSIONE PULSETUR. Così da responsus o responsum di respondere,
viene responsare continuativo.
Num ancillae aut servi tibi
Responsant? eloquere: impune non erit.
(Plaut. Menaechm. 4.2. v.56. seq.)
Cioè ti
sogliono rispondere arrogantemente, non già ti rispondono semplicemente
ovvero ti rispondono spesso. E nel significato metaforico di resistere
il verbo responsare è parimente continuativo, e così quando significa eccheggiare,
che è cosa più continuata del rispondere, e per nulla frequente, come ognun
vede. (9. Giugno 1821.). Così da cessus di cedere viene cessare,
il quale chiamano frequentativo, sebbene io non sappia veder cosa più
continuata di quella ch’esprime questo verbo. V. p.2076.
Alla
p.1124. marg. E chiunque porrà mente ai versi de’ comici, e altresì di Fedro, e
degli altri Giambici latini, o se n’abbiano opere intere (come Catullo, le
tragedie di Seneca) o frammenti, ci troverà molte altre licenze proprie di
quelle sorte di versi, e note agli eruditi; ma anche [1152]potrà di
leggeri avvertire che dovunque s’incontrano due o più vocali alla fila, o nel
principio o nel mezzo o nel fine delle parole, quelle vocali per lo più e quasi
regolarmente stanno per una sillaba sola, come formassero un dittongo,
quantunque non lo formino, secondo le leggi ordinarie della prosodia. Fuorchè
se dette vocali si trovano appiè de’ versi, dove bene spesso (come ne’ versi
italiani) stanno per due sillabe, ma spesso ancora per una sola, come in questo
verso di Fedro:
Repente
vocem sancta misit Religio.
(lib.2.
fab.11 al.10. vers.4.) Questo è un giambo trimetro acataletto, cioè di sei
piedi puri, e la penultima breve, non è la sillaba gi di Religio,
ma la sillaba li. Similmente in quel verso di Catullo, sebbene in questo
e nelle leggi metriche, più diligente assai degli altri, (Carm.18. al.17.
vers.1.)
O
Colonia quae cupis ponte ludere ligneo
la
penultima dovendo esser lunga, non è la sillaba gne di ligneo, ma
la sillaba li, s’è vera questa lezione di ligneo per longo
come altri leggono. Oltre che questo verso trocaico stesicoreo, dovendo essere
di quindici sillabe, sarebbe di sedici, se ligneo fosse trisillabo. (La
parola ligneo è qui un trocheo, piede di una lunga e una breve, detto
anche coreo). E quello che dico de’ latini, dico anche dei greci. Nel primo
verso della Ricchezza di Aristofane
ƒÙw Žrgal¡on prgm„ ¤stÜn Î Zeè kaÜ
YeoÜ,
[1153]la parola Žrgal¡on è trisillaba. E notate che scrivendo
ƒÙw Žrgal¡on
prgm„ ¤stƒ Î Zeè kaÜ YeoÜ,
senza
nessuna fatica questo verso riusciva giambo trimetro o senario puro, secondo le
regole della prosodia greca. Dal che si vede che quei poeti i quali scrivevano,
come dice Tullio dei Comici, a somiglianza del discorso, (Oratoris
cap.55.) adoperavano quasi regolarmente siffatte vocali doppie ec. come
dittonghi, e conseguentemente che l’uso quotidiano della favella (tenace dell’antichità
molto più che la scrittura) le stimava e pronunziava per dittonghi, o sillabe
uniche, sì nella Grecia come nel Lazio. Puoi vedere la nota del Faber al
2. verso del prologo di Fedro, lib.1. e quella pure del Desbillons nelle Addenda
ad notas, p. LI. fine.
Alla
p.1123. Anzi, secondo me, da principio si diceva legitus, tegitus, agitus,
quindi per contrazione, legtus, tegtus, agtus, e finalmente per più
dolcezza, lectus, tectus, actus. E chi se ne vuol persuadere, ponga
mente al verbo agitare, il quale, secondo quello che abbiamo osservato e
dimostrato finora, è formato dal participio (o dal sup.) di agere. [1154]E
quindi s’inferisce che l’antico e primo participio di agere non fu actus
ma agitius da cui venne agitare, come poi da actus actitare.
V. il Forcell. in Caveo, fine. e p.2368. Lo stesso dico di cogitare
o venga da agitare, o dall’antico coagitus di cogere. V.
p.2105. capoverso 1. E similmente come da lectus di legere
derivarono lectare e lectitare, così dall’antico legitus,
il verbo legitare mentovato da Prisciano.
(10.
Giugno 1821.). V. p.1167.
Alla
p.1113. marg. Se però rogitare non deriva da un antico participio rogitus
di rogare (come domitus di domare, crepitus ovvero il sup.
crepitum di crepare, e tali altri) del che mi dà forte sospetto
la nostra voce rogito participio sostantivato da rogare, in vece
di rogato. Da lactatus allattato, lactitare ec. Restitare non
saprei se da restatus, o restitus, ambedue inusati, e se da resisto,
o resto. V. p.2359. La bassa latinità diceva parimente rogitus us
nello stesso significato, ed anche addiettivamente rogitus a um, e roitus
in luogo appunto di rogatus, del che v. il Du Cange. Del resto anche da paratus
di parare, da imperatus d’imperare, da volatus o volatum
di volare, da vocatus di vocare (v. Forcell. circa vocitare
che par verbo continuativo dinotante costume), e da mussatus di mussare
i latini fecero paritare, imperitare, volitare, vocitare, e mussitare; e
generalmente pare che questo fosse il costume nel formare o i frequentativi o i
continuativi da’ participii in atus della prima congiugazione; di
cambiare cioè l’a del participio in i, per isfuggire il cattivo
suono p.e. di mussatare, o mussatitare. (Eccetto però datare ec.) Così da mutuatus di mutuare fecero mutitare sincopato
da mutuitare se crediamo a quelli che derivano questo verbo mutitare
dal precedente mutuare. Altri lo derivano da mutare, e fa
parimente al caso nostro.
[1155]Alla p.1148. Lo spagnuolo pintar,
cioè dipingere derivato certo dal participio del verbo pingere,
sembra che se non altro dinoti un antico participio pinctus, in vece di pictus,
participio regolare e proprio di pingere, come tinctus di tingere,
cinctus di cingere, planctus o planctum di plangere
ec. (e v. p.1153. capoverso ult. donde raccoglierai che il primo e vero
participio passivo di tali verbi era pingitus, tingitus ec.) e
conservatosi, a quel che pare, nel volgare latino. (11. Giugno 1821.). Non
diciamo noi pinto, dipinto ec.? Pitto solamente in poesia come il
Rucellai nelle Api. I francesi peiNt ec.
Alla
p.1121. Così dubitare deriva da dubitus o dubitum o dubiatum
(v. p.1154.) di un antico dubiare mentovato da Festo, e conservato nell’antico
italiano. Questo però terminando in itare può anche, secondo il detto
alla p.1113. essere un verbo tra frequentativo e diminuitivo, sul gusto di haesitare
da haerere, che somiglia anche nel significato. V. p.1166. fine.
(11 Giu.
1821.)
Alla
p.1117. Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’ gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir
facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno
significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i continuativi
latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa, un’azione più
languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più un’azione meno
perfetta. V. p.1212. capoverso 1. e p.2328.
(11.
Giugno 1821.)
Alla
p.1128. Da queste osservazioni apparisce che la desinenza italiana della prima
persona attiva singolare del perfetto indicativo, dico la desinenza in ai,
è la vera e primitiva desinenza latina di detta persona, conservatasi per tanti
secoli dopo sparita dalle scritture, o senza mai esservi ammessa, mediante il
volgare latino; e per tanti altri, mediante la nostra lingua che gli [1156]è
succeduta. Desinenza conservatasi anche nella scrittura francese, nostra
sorella, ma perduta nella pronunzia, conforme alla qual pronunzia gli spagnuoli
(altri nostri fratelli) scrivono e dicono amè ec. Voce senza fallo derivata
dall’antichissimo amai, mutato il dittongo ai nella lettera e,
forse a cagione del commercio scambievole ch’ebbero i francesi e gli spagnuoli,
e le lingue e poesie loro ne’ principii di queste e di quelle: commercio
notabilissimo, lungo, vivo, e frequente; e conosciuto dagli eruditi, (Andrès
t.2. p.281. fine, e segg.) e che in ordine alla forma di molte parole e frasi è
la sola cagione per cui la lingua spagnuola somiglia alla latina meno della
nostra, quantunque in genere somigli e la lat. e la nostra assai più della
francese. Così nel futuro amarè ec. ec. somiglia alla lingua francese
pronunziata.
Quanto
alla cagione per cui si trasmise col tempo alle lettere a ed i il
digamma eolico, e poi il v, affine d’evitare, come dicono, l’iato,
secondo il costume eolico, osserverò alcune cose che gioveranno anche a tutta
questa parte del nostro discorso, e dalle quali potremo forse dedurre che il
detto costume non venne veramente dal popolo, come ho detto p.1128. il quale
anzi pare che conservasse la pronunzia antica fino a tramandarla ai nostri
idiomi, [1157]ma venne piuttosto, o nella massima parte, dagli
scrittori, o dal ripulimento della rozza lingua latina antica.
Il
concorso delle vocali suol essere accetto generalmente alle lingue (se non
altro de’ popoli meridionali d’occidente) tanto più, quanto elle sono più
vicine ai loro principii, ovvero ancora quanto sono più antiche, e quanto più
la loro formazione si dovè a tempi vicini alla naturalezza de’ costumi e de’
gusti. Per lo più vanno perdendo questa inclinazione col tempo, e col
ripulimento, e si considera come duro e sgradevole il concorso delle vocali che
da principio s’aveva per fonte di dolcezza e di leggiadria. La lingua latina
che noi conosciamo, cioè la lingua polita e formata e scritta non ama il concorso
delle vocali, perch’ella fu polita e formata e scritta in tempi appunto politi
e civili, e i più lontani forse dell’antichità dalla prima naturalezza; nell’ultima
epoca dell’antichità; presso una nazione già molto civile ec. Per lo contrario
la lingua greca stabilita e formata, e ridotta a perfette scritture in tempi
antichissimi, gradì nelle scritture il concorso delle vocali, lo considerò come
dolcezza e dilicatezza; e perciò la lingua greca che noi conosciamo e possiamo
conoscere, cioè la scritta, [1158]ama il concorso delle vocali,
specialmente quella lingua che appartiene agli scrittori più antichi, e nel
tempo stesso più grandi, più classici, più puri, e più veramente greci.
E
siccome la prosodia greca era già formata ai tempi d’Omero, (sia ch’egli la
trovasse, o la formasse da se) la latina lo fu tanti e tanti secoli dopo, così
fra la poesia dell’una e dell’altra lingua si osserva una notabile differenza
in questo proposito, la quale conferma grandemente il mio discorso. Ed è che
nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un’altra che
incominci per vocale, l’ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla
seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All’opposto nella
poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per
sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie
via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso
caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.
Parimente
la lingua italiana antica, quella lingua de’ trecentisti, che quanto alla
dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159]solo
non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua
è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s’è allontanata dalla condizione
primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da
quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e
come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia.
Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo
stile), o affettati o no, di questo e de’ due ultimi secoli, par ch’abbiano una
somma paura che due o più vocali s’incontrino, e storcono le parole in mille
maniere per evitare questo disastro.
E così
stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell’indole sua, e del
ripulimento di esse lingue. E accadde, io penso, anche alla lingua greca.
Giacchè, lasciando quello che si può notare negli scrittori greci più recenti,
i dittonghi che da principio, e lungo tempo nel seguito si pronunziavano
sciolti, si cominciarono a pronunziar chiusi, e questo costume, come osservò il
Visconti, risale fino al tempo di Callimaco, se è veramente di Callimaco un
epigramma che porta il suo nome, dove alle parole naixÜ
kalòw si fa che l’eco
risponda llòw ¦xei (epig.30), la qual cosa dimostra
che lo scrittore dell’epigramma pronunziava nechi ed echi come i
greci moderni, per naichi ed echei. E come io non [1160]dubito
che i latini anticamente non pronunziassero i loro dittonghi sciolti siccome i
greci, così mi persuado facilmente che a’ tempi di Cicerone e di Virgilio li
pronunziassero chiusi come oggi si pronunziano.
Alla
p.1118. Perchè meglio s’intenda questa teoria de’ verbi continuativi, ne osserveremo
e ne distingueremo la natura più intimamente ed accuratamente che non abbiamo
fatto finora. Atto ed azione propriamente, differiscono tra loro. L’atto,
largamente parlando, non ha parti, l’azione sì. L’atto non è continuato, l’azione
sì. Questi due verbali actus ed actio, sì nel latino come nell’italiano,
(ed anche nel francese ec.) e non solamente questi, ma anche gli altri di
simile formazione, a considerarli esattamente, differiscono in questo, che il
primo considera l’agente come nel punto, il secondo come nello spazio, o nel
tempo. Certo non si dà cosa veramente e assolutamente indivisibile, ma se
considereremo le opere dell’uomo o di qualunque agente, vedremo che alcune ci
si presentano come indivisibili, e non continuate, altre come divisibili e
continuate. Quando per tanto il verbo positivo latino significa atto, il verbo
continuativo significa azione. [1161]P.e. vertere significa atto,
versare azione. Il voltare non può farsi veramente in un punto
solo, ma la lingua necessariamente considera l’atto del voltare come
indivisibile e non continuato. Laddove quello che in latino si chiama versare,
come il voltare per un certo tempo una ruota, si considera naturalmente come
azione continuata, fatta non già nell’istante, ma nello spazio, e composta di
parti. Questa dunque è azione, quello è atto, e quest’azione è composta di
molti di quegli atti. Spessissimo avviene che ciò che l’uomo o la lingua
considera come atto sia più durevole di un’azione dello stesso genere. Come,
per non dipartirci dall’esempio recato, l’azione del voltare una ruota per lo
spazio, poniamo, di una mezz’ora, è più breve dell’atto di voltare sossopra una
gran pietra, che non si possa rivolgere senza l’opera d’una o più ore. E
tuttavia quell’azione in latino si esprimerebbe col verbo continuativo versare,
quest’atto benchè più lungo dell’azione, non potrebbe mai dirsi versare,
ma si esprimerebbe col positivo vertere. Perchè quest’atto, ancorchè
lungo, rappresentandocisi complessivamente al pensiero, ci desta un’idea unica,
non [1162]continuata, semplice: laddove quell’azione ci si presenta come
moltiplice, composta, e continuata. Similmente jacere significa atto, jactare,
azione.
Quando
poi il verbo positivo latino esprime esso stesso non atto, ma azione, come sequi,
ec. il continuativo significa la stessa azione più lunga e durevole, o più
continua o costante, come sectari ec.
E
finalmente spesse volte il continuativo significa l’usanza, il costume di fare
quella tale azione o atto significato dal verbo positivo, come acceptare, datare,
captare (v. il Forcellini), secondo che abbiamo veduto, significano il
costume di ricevere, dare, prendere. (Forse captare nel senso
p.e. di captare aves o pisces appartiene piuttosto alla classe
precedente de’ continuativi dall’atto all’azione.) Noi abbiamo appunto volgere,
voltare (cioè volutare), e voltolare, o rivolgere, rivoltare
ec. positivo, continuativo e frequentativo.
Queste
osservazioni debbono sempre più farci ammirare la sottigliezza, e la squisita
perfezione della lingua latina, che forse non ha l’uguale in simili prerogative
e facoltà.
(12.
Giugno 1821.). V. p.2033. fine.
Alla
p.1115. marg. in fine. Che se il verbo salire è stato usato dall’Ariosto,
dall’Alamanni, dal Caro e da altri nel significato dell’italiano saltare,
come afferma il Monti (Proposta ec. Esame di alcune voci, alla v. ascendere.
vol.1. par.2. p.65.), e bene, ciò non prova che quel verbo abbia tale
significazione in nostra lingua, ma solo presso gli scrittori, e detto verbo in
tal senso non è veramente italiano, ma latinismo, [1163]come tanti
altri, e latinismo non lodevole, a differenza di molti altri, e non meritevole
di passare in uso o nel discorso o nelle scritture. Il francese saillir
ha conservato alcuni significati figurati del latino salire, e lo
spagnuolo salir per uscire (nel qual senso anche l’italiano salire fu adoprato dall’Ariosto) si avvicina pure al metaforico latino di salire
per celeriter emergere. E v. se lo spagnuolo salir ha altri
significati.
Il
miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o
minorare nell’uomo la ragione e la riflessione, e l’uso e gli effetti loro.
(13.
Giugno 1821.)
Domandato
il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella ch’è di tutti, cioè
il senso comune.
(13.
Giugno 1821.)
Altra
prova dell’antico odio nazionale. Presso gli antichi latini o romani,
forestiero e nemico si denotavano colla stessa parola hostis. V.
Giordani nella lettera al Monti, in fine, (Proposta ec. vol.1. par.2. p.265.
fine. alle voci Effemeride. Endica. Epidemia.) il Forcellini, e il mio pensiero
su questa voce, p.205. fin. dove si porta anche l’esempio simile, della lingua
Celtica.
(13.
Giugno 1821.)
[1164]I Toscani che dicono bi ci di,
perchè dicono effe, emme, enne, erre, esse (v. la Crusca) e non effi,
emmi ec.? anzi iffi, immi ec.?
(13.
Giugno 1821.)
A quello
che ho notato altrove dell’antichità della nostra frase gridare a testa,
ec. aggiungi delle francesi, crier à pleine tête, à tue tête, du haut de sa
tête, delle quali v. l’Alberti v. Tête, e v. pure i Diz. spagnuoli.
(13.
Giugno 1821.)
L’invidia,
passione naturalissima, e primo vizio del primo figlio dell’uomo, secondo la S.
Scrittura, è un effetto, e un indizio manifesto dell’odio naturale dell’uomo
verso l’uomo, nella società, quantunque imperfettissima, e piccolissima.
Giacchè s’invidia anche quello che noi abbiamo, ed anche in maggior grado; s’invidia
ancor quello che altri possiede senza il menomo nostro danno; ancor quello che
ci è impossibile assolutamente di avere, e che neanche ci converrebbe; e
finalmente quasi ancor quello che non desideriamo, e che anche potendo avere
non vorremmo. Così che il solo e puro bene altrui, il solo aspetto dell’altrui
supposta felicità, ci è grave naturalmente per se stessa, ed è il soggetto di
questa passione, la quale per conseguenza non può derivare se non dall’odio
verso gli altri, derivante dall’amor proprio, ma derivante, se m’è lecito di [1165]così
spiegarmi, nel modo stesso nel quale dicono i teologi che la persona del Verbo
procede dal Padre, e lo Spirito Santo da entrambi, cioè non v’è stato un
momento in cui il Padre esistesse, e il Verbo o lo Spirito Santo non esistesse.
(13.
Giugno 1821.)
La
convenienza al suo fine, e quindi l’utilità ec. è quello in cui consiste la
bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella.
(13.
Giugno 1821.)
Tutti
quanti i giovani, benchè qual più qual meno, sono per natura disposti all’entusiasmo,
e ne provano. Ma l’entusiasmo de’ giovani oggidì, coll’uso del mondo e coll’esperienza
delle cose che quelli da principio vedevano da lontano, si spegne non in altro
modo nè per diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche
durando la gioventù, e la potenza naturale dell’entusiasmo.
(13.
Giugno 1821.)
Quante
controversie sul significato di quelle parole di Orazio intorno a Cleopatra
vinta nella battaglia Aziaca: (Od.37. lib.1. v.23. seq.)
Nec
latentes
Classe cita
REPARAVIT oras!
[1166]V. il Forcellini e i comentatori. E
nessuno l’ha bene inteso. Acrone: NEC LATENTES CLASSE CITA REPARAVIT ORAS: fines
regni latentes: id est non colligit denuo exercitum ex intimis regni partibus.
Porfirione altro antico Scoliaste: NEC LATENTES C. C. R. ORAS: hoc est: Nec
fugit in latentes, id est intimas Aegypti regiones ut vires inde repararet.
Nè mai s’intenderà e spiegherà perfettamente senza l’antico italiano, il quale
c’insegna un significato del verbo reparare che non è conosciuto ai
Lessicografi latini. Ed è quello di ricoverarsi, nel qual senso i nostri
antichi dicevano, ed ancor noi possiamo dire, riparare o ripararsi a
un luogo o in un luogo. Orazio dunque vuol dire, e dice espressamente: Non
si ricoverò, non rifuggi alle recondite, alle riposte parti d’Egitto. Come
se in luogo di reparavit avesse detto petiit, ma reparavit
ha maggior forza di esprimere la fuga e il timore.
Alla
p.1155. marg. Così nictare e nictari derivano dall’antico
participio nictus o supino nictum dell’antico e inusitato nivere,
o come altri vogliono, di niti. V. p.1150. fine.
(14.
Giugno 1821.)
Alla
p.1132. Così nelle parole simplex, duplex, [1167]triplex,
multiplex e altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del
verbo plicare (i greci dicono pl¡kein) del quale io credo che sia
continuativo anomalo il verbo plectere ne’ significati di piegare,
intrecciare e simili.
(14.
Giugno 1821.). V. p.2225. capoverso 1.
Alla
p.1154. principio. E lo stesso dico de’ verbi d’altre forme. Come l’antico
participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da noscitus,
come notare da notus. Così di pascere dal verbo pascitare
formato da pascitus in luogo di pastus. E non solo di altre
forme, anche d’altre congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus
facilmente rilevasi da nocitus e nociturus di nocere,
verbo che non differisce materialmente da docere se non che d’una
lettera: da placitus di placere, verbo regolarissimo della stessa
congiugazione seconda, e da molti altri simili participii. Se doctus
fosse il vero participio lo sarebbe plactus dirittamente in vece di placitus.
Da coerceo non coarctus o coerctus, ma coercitus,
sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il
participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de’
quali sono più usitati partum e partus, deducesi però
necessariamente da pariturus. E parturus, ch’io sappia, non si
dice mai. V. p.2009. e 2200. capoverso 2.
Io stimo
probabile che il verbo sollicitare intorno all’origine del quale vanno a
tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto [1168]da
quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè dal verbo lacere)
che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e anticamente
faceva, secondo me, adlicitus. E così penso che sollicitare sia
lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere
(altro composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus
abbiamo effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il
significato appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio. Questa
però non intendo di darla se non come congettura.
Alla
p.1139. Del che si potrebbono addurre molte prove che lascieremo agli eruditi,
contentandoci di questa sola osservazione la quale dimostrerà che al più il b ebraico era un
p, che talora si aspirava, e somigliante al f de’ greci ch’è un p aspirato, come abbiam detto. L’alfabeto
Fenicio dal quale derivò l’alfabeto greco, e per conseguenza il latino, o
derivato dal greco, o dalla medesima fonte del greco, era lo stesso che il
Samaritano, e l’alfabeto Samaritano era l’antico alfabeto ebraico. Ora che l’alfabeto
fenicio mancasse della lettera f, o al [1169]più si servisse in
sua vece di un p aspirato si dimostra, fra le molte altre prove, ed
oltre quello che abbiamo detto, che il f mancava all’antico alfabeto greco
detto Cadmeo o Fenicio; da questo, che i latini chiamavano, com’è noto, i
Cartaginesi originari di Fenicia, Poeni, Poenici, Punici, cioè Fenici,
gr. FoÛnikew, servendosi come vedete di un p semplice in
luogo di un p aspirato che usavano i greci in questo nome, e della f che vi usiamo noi. E così pure chiamavano non solamente phoeniceum, ma
anche poeniceum e puniceum senza aspirazione, quel colore che i
greci chiamavano foinÛkeow e per contrazione foinikoèw. Il che anche può dimostrare che gli antichi latini (il cui alfabeto
derivò pure, come vedemmo, dal Fenicio) mancavano di un carattere proprio ad
esprimere la f, ed anche forse della pronunzia di questa lettera. Ovvero
che il f de’ greci da’ quali essi presero forse i detti nomi
(specialmente quelli del detto colore che derivano da foÝnij palma), si pronunziava anche come un p semplice. V.
Forcellini in H. Pontedera p.14. (leggi assolutamente le sue prime 2
lettere, necessarie a questo mio discorso). I greci stessi scrivevano
anticamente PH per F V. Encyclop. in H. p.215.
(15.
Giugno 1821.)
L’ardore
giovanile è la maggior forza, l’apice, la perfezione, l’Žkm¯ della natura umana. Si consideri dunque la convenienza di quei sistemi
politici, nei quali l’Žkm¯ dell’uomo, cioè l’ardore e la [1170]forza
giovanile, non è punto considerata, ed è messa del tutto fuori del calcolo,
come ho detto in altro pensiero.
(15.
Giugno 1821.)
Si
consideri per l’una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l’uso della moneta.
Oltre ch’ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta mai ad un punto
di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta, di prima necessità ad
un commercio vivo ed esteso, e questo commercio scambievole vivo ed esteso,
tanto delle nazioni, quanto degl’individui di ciascuna, essendo forse la
principal fonte dei progressi della civiltà, o della corruzione umana. E se
bisognassero prove di una proposizione così manifesta, si potrebbe addurre, fra
gli altri infiniti de’ popoli selvaggi ec., l’esempio di Sparta che, avendo
poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del
mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta,
e quasi stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti
gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi
indietro.
Per l’altra
parte si consideri l’immensa [1171]difficoltà, l’immenso spazio che ha
dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a ridurre all’uso suo
quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così difficili a trarsi in
luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar sospetto che potessero mai
esser lavorate, e solamente modificate e cambiate alquanto di forma. Anzi prima
di trovare i metalli. E dopo tutto ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere
in rappresentanti di tutte le cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de’
pezzi di materia per se stessa (massime anticamente) o inutile, o poco utile,
disadatta, pesantissima, e (riguardo ai metalli che formarono le prime monete,
cioè rame o ferro ec.) bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse
effettivamente prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che
a’ tempi d’Omero, o almeno a’ tempi troiani (benchè certo non incolti), o
mancava, o era di poco e raro uso la moneta.
E qui
torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre sì grandi,
numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo necessario e
principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172]perfezione e
felicità del genere umano, cioè l’incivilimento; e dico al ritrovamento dell’uso
della moneta.
Osservate
poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense fatiche e miserie
che son necessarie per proccurar la moneta alla società. Cominciate dal lavoro
delle miniere, ed estrazion dei metalli, e discendete fino all’ultima opera del
conio. Osservate quanti uomini sono necessitati ad una regolare e stabile
infelicità, a malattie, a morti, a schiavitù (o gratuita e violenta, o
mercenaria) a disastri, a miserie, a pene, a travagli d’ogni sorta, per
proccurare agli altri uomini questo mezzo di civiltà, e preteso mezzo di
felicità. Ditemi quindi 1. se è credibile che la natura abbia posta da
principio la perfezione e felicità degli uomini a questo prezzo, cioè al prezzo
dell’infelicità regolare di una metà degli uomini. (e dico una metà,
considerando non solo questo, ma anche gli altri rami della pretesa perfezione
sociale, che costano il medesimo prezzo.) Ditemi 2. se queste miserie de’
nostri simili sono consentanee a quella medesima civiltà, alla quale servono. È
noto come la schiavitù sia [1173]difesa da molti e molti politici ec. e
conservata poi nel fatto anche contro le teorie, come necessaria al comodo,
alla perfezione, al bene, alla civiltà della società. E quello che dico della
moneta, dico pure delle derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante
le stesse o simili miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si
hanno per necessarie alla perfezione della società. V. p.1182.
E vedete
da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie)
contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere
senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili,
anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine. Sicchè la perfetta
civiltà non può sussistere senza la barbarie perfetta, la perfezione della
società senza la imperfezione (e imperfezione nello stesso senso e genere in
cui s’intende la detta perfezione); e tolta questa imperfezione, si
taglierebbero le radici alla pretesa perfezione della società.
Torno a
domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati
e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire
al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè l’uomo.
[1174]E notate che l’uso della moneta
quanto è necessario a quella che oggi si chiama perfezione dello stato sociale,
tanto nuoce a quella perfezione ch’io vo predicando; giacchè il detto uso è l’uno
de’ principalissimi ostacoli alla conservazione dell’uguaglianza fra gli uomini,
e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e della virtù
ec. ec. e l’una delle principalissime cagioni che introducono, e appoco appoco
costringono la società all’oppressione, al dispotismo, alla servitù, alla
gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono la vita morale ed
intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto erano nazioni. (16.
Giugno 1821.). Quel che si è detto della moneta si può dire di mille altri usi
ec. necessari alla società o civiltà, e pur d’invenzione ec. difficilissima,
come la scrittura, la stampa ec.
Ho detto
più volte che la letteratura francese è precisamente letteratura moderna, ed è
quanto dire che non è letteratura. Perchè considerando bene vedremo che i tempi
moderni hanno filosofia, dottrina, scienze d’ogni sorta, ma non hanno
propriamente letteratura, e se l’hanno, non è moderna, ma di carattere antico,
ed è quasi un innesto dell’antico sul moderno. L’immaginazione ch’è la base
della letteratura strettamente considerata, [1175]sì poetica come
prosaica, non è propria, anzi impropria de’ tempi moderni, e se anche oggi si
trova in qualche individuo, non è moderna, perchè non solamente non deriva
dalla natura de’ tempi, ma questa l’è sommamente contraria, anzi nemica e
micidiale. E vedete infatti che la letteratura francese, nata e formata in
tempi moderni, è la meno immaginosa non solo delle antiche, ma anche di tutte
le moderne letterature. E per questo appunto è letteratura pienamente moderna,
cioè falsissima, perchè il predominio odierno della ragione quanto giova alle
scienze, e a tutte le cognizioni del vero e dell’utile (così detto), tanto
nuoce alla letteratura e a tutte le arti del bello e del grande, il cui
fondamento, la cui sorgente e nutrice è la sola natura, bisognosa bensì di un
mezzano aiuto della ragione, ma sommamente schiva del suo predominio che l’uccide,
come pur troppo vediamo nei nostri costumi, e in tutta la nostra vita d’oggidì.
Quanto
più cresce il mondo rispetto all’individuo, tanto più l’individuo impiccolisce.
I nostri antichi, conoscendo pochissima parte di mondo, [1176]ed essendo
in relazione con molto più piccola parte, e bene spesso colla sola loro patria,
erano grandissimi. Noi conoscendo tutto il mondo, ed essendo in relazione con tutto
il mondo, siamo piccolissimi. Applicate questo pensiero ai diversissimi aspetti
sotto i quali si verifica che essendo cresciuto il mondo, l’individuo s’è
impiccolito sì fisicamente che moralmente; e vedrete esser vero in tutti i
sensi che l’uomo e le sue facoltà impiccoliscono a misura che il mondo cresce
in riguardo loro.
(16.
Giugno 1821.)
Ho detto
altrove che il troppo, spesse volte è padre del nulla. Osserviamolo ora nel
genio e nelle facoltà della mente. Certi ingegni straordinarissimi che la natura
alcune volte ha prodotti quasi per miracolo, sono stati o del tutto o quasi
inutili, appunto a cagione della soverchia forza o del loro intelletto o della
loro immaginazione, che finiva nel non potersi risolvere in nulla, nè dare
alcun frutto determinato.
1.
Questi tali geni sommi hanno consumato rapidamente il loro corpo e le stesse
loro facoltà mentali, lo stesso genio. La soverchia delicatezza de’ loro organi
li rende e più facili a consumarsi, e più facili a guastarsi, rimanendo
inferiori di facoltà agli organi i meno delicati, e i più imperfetti.
Testimonio Pascal, morto di 39 [1177]anni, ed era già soggetto a una
specie di pazzia. Testimonio Ermogene che forse fu uomo insigne e
straordinario, sebbene il suo secolo non gli permettesse di parer tale anche a
noi, durante quel poco di tempo che gli durò l’uso delle sue facoltà mentali.
Testimonio quel Genetlio di cui parla Esichio Milesio e Suida, il quale non era
che un portento di memoria; ma quello ch’io dico dell’intelletto o della
fantasia, dico pure della memoria, e si sono spesso veduti uomini che erano
portenti di memoria da giovani, divenir maraviglie di dimenticanza da vecchi, o
ancor prima. V. il Cancellieri, Degli uomini di gran memoria ec. S’io volessi
qui noverare gli uomini insigni che hanno sofferto dal lato del loro fisico,
non per altro che a cagione del loro troppo ingegno; e le morti immature che
paiono essere inevitabili agli uomini di genio straordinariamente prematuro, e
prematuramente sviluppato e coltivato, non finirei mai. V. in proposito del
Chatterton famoso poeta morto di 19 anni, lo Spettatore di Milano, Quaderno 68.
p.276. Parte straniera.
2.
Questi geni straordinari, penetrano in certi [1178]misteri, in certe
parti della natura così riposte; scuoprono e vedono tante cose, che la stessa
copia e profondità delle loro concezioni, ne impedisce la chiarezza tanto
riguardo a essi stessi, quanto al comunicarle altrui; ne impedisce l’ordine,
insomma vince le loro stesse facoltà, e non è capace, a cagione dell’eccesso,
di essere determinata, circoscritta, e ridotta a frutto. La forza della loro
mente soverchia la capacità della stessa mente, perchè insomma la natura, e la
copia delle verità esistenti è molto maggiore della capacità e delle facoltà
dell’uomo. E il troppo vedere, il troppo concepire, rende questi tali ingegni,
sterili e infruttuosi; e se scrivono, i loro scritti o sono di poco conto, ed
anche aridi espressamente e poveri (come quelli di Ermogene); o certo minori
assai del loro ingegno. Come quegli animali inetti alla generazione per l’eccesso
della forza generativa (i muli). E la stupidità della vita è ordinariamente il
carattere di tali persone, o mentre ancora son giovani, o da vecchi, come
narrano che fosse detto a Pico Mirandolano. Quello che dico dell’intelletto e
della filosofia, dico pure della immaginazione e delle arti che ne derivano.
Esempio del Tasso, della sua pazzia, dell’essere i suoi [1179]componimenti,
quantunque bellissimi, certo inferiori alla sua facoltà, ed a quegli stessi
degli altri tre sommi italiani, a niuno de’ quali egli fu realmente minore. E
lo stesso dico eziandio di qualunque altra facoltà e disciplina particolare.
Non è
verisimile che la lingua chinese si sia conservata la stessa per sì lunga serie
di secoli, a differenza di tutte le altre lingue. Eppure i suoi più antichi
scrittori s’intendono mediante le stesse regole appresso a poco, che servono ad
intendere i moderni. Ma la cagione è che la loro scrittura è indipendente quasi
dalla lingua, come ho detto altrove, e (come pure ho detto) la lingua chinese
potrebbe perire, e la loro scrittura conservarsi e intendersi nè più nè meno.
Così dunque io non dubito che la loro antica lingua, malgrado l’immutabilità
straordinaria di quel popolo, se non è perita, sia certo alterata. Il che non
si può conoscere, mancando monumenti dell’antica lingua, benchè restino
monumenti dell’antica scrittura. La quale ha patito bensì anch’essa, e va
soffrendo le sue diversificazioni; ma i caratteri (indipendenti dalla lingua
nel chinese) non essendo nelle mani e nell’uso del popolo, (massime nella
China, [1180]dove l’arte di leggere e scrivere è sì difficile)
conservano molto più facilmente le loro forme essenziali e la loro
significazione, di quello che facciano le parole che sono nell’uso quotidiano e
universale degl’idioti e de’ colti, della gente d’ogni costume, d’ogni
opinione, d’ogni naturale, d’ogni mestiere, d’ogni vita, e accidenti di vita.
(A questo proposito ecco un passo di Voltaire portato dal Monti Proposta ec.
vol.2. par.1. p.159. Quasi tutti i vocaboli che frequentemente cadono nel
linguaggio della conversazione, ricevono molte digradazioni, lo svolgimento
delle quali è difficile: il che ne’ vocaboli tecnici non accade, perchè più
preciso e meno arbitrario è il loro significato.) E lo vediamo pur nel
latino, perduta la lingua, e conservati i caratteri, quanto alle forme
essenziali, e al valore. Così nel greco ec. Ora nella China, conservato l’uso,
la forma, e il significato de’ caratteri antichi, è conservata la piena
intelligenza delle antiche scritture, quando anche oggi si leggessero con
parole e in una lingua tutta diversa da quella in cui gli Antichi Chinesi le
leggevano.
(17.
Giugno 1821.)
Dell’antico
significato di fabula onde favella, e di mèJow v. le note Variorum al 1. lib. di Fedro, prologo, verso ult.
Noi
diciamo fuso sostantivo mascolino singolare, e fusa plurale
femminino, secondo la proprietà della lingua nostra di dare a parecchie voci
nel plurale, la desinenza del neutro plurale latino, del che vedi il Ciampi De
usu linguae italicae saltem a saeculo sexto, dove mostra come molti di
questi nostri plurali femminini in a derivino da un latino popolare [1181]ec.
Queste tali desinenze italiane pare che indichino de’ neutri latini
corrispondenti, e quel fusa dell’italiano pare che indichi un neutro
latino fusum, o almeno il suo plurale fusa, come da brachia facciamo
le braccia, da cornua, le corna, da genicula, diminutivo
di genua (Forcellini), le ginocchia, da poma, le poma, da ossa,
le ossa, da fila, le fila, da membra, le membra, da fundamenta,
le fondamenta, da castella, le castella, da labia, le labbia,
da labra, le labbra, da gesta, le gesta, da ligna, vestigia,
le legna, le vestigia, da ova, le uova, da terga, le terga,
da flagella, le flagella, le cervella, ec. le vestimenta, le
ornamenta (v. la Crusca in vestimento), ec. le corna, le ciglia
ec. da vasa, le vasa (Crusca, e Tansillo, Podere, capit.3. terz.2.) ec.
Notate che quando gesto significa gestus us, non diciamo le
gesta ma i gesti. E allora solo diciamo le gesta, quando gesto
si piglia in senso neutro, e vuol dire cosa fatta, come in Corn. Nep. Obscuriora
sunt eius gesta pleraque. (V. il Gloss. in Gesta.) Così diciamo interiori
aggettivamente, ma le interiora (ed anche però gl’interiori)
assolutamente per entragni, cioè in senso neutro, come Vegezio, Torsiones
vocant, et interiorum incisiones. V. p.2340. fine. Ma nè fusum nè fusa non si trovano ne’ Vocabolari latini, ma solamente fusus che fa nel
plurale fusi. Or ecco ne’ frammenti di Simmaco scoperti dal Mai (Q.
Aurelii Summachi V. C. Octo Orationum ineditarum partes. Orat.3. scil. Laudes
in Gratianum Augustum, cap.9. Mediol. 1815. p.35.): Et vere si fas est
praesagio futura conicere, iamdudum aureum saeculum currunt FUSA Parcarum.
Così ha il Codice Ambrosiano antichissimo, cioè di verso la metà del sesto
secolo almeno, vale a dire un secolo al più dopo la morte dell’autore. E che
non sia sbaglio di scrittura si conosce anche dal vedere che scrivendo fusi guasterebbesi quel ritmo di cui Simmaco era tanto vago e sollecito, e così
perpetuo seguace, come può sapere ognuno che l’abbia [1182]letto, e come
si può notare a prima giunta anche negli altri scrittori di quella età e delle
circonvicine, e generalmente di tutti gli scrittori latini e greci di corrotta
e affettata eleganza e rettorica. Questa voce fusa è stata notata dal
Mai nell’Indice rerum notabiliorum, e dal Furlanetto nell’Appendice al
Forcellini. V. pure il Forcell. e il Gloss. in saccus, sextarius, poichè
noi diciamo le sacca, le staia. Dal che si potrebbe dedurre che l’antico
volgo latino dicesse similmente murum, pugnum, fructum, lectum,
sostantivo, digitum, anellum, risum, nel genere neutro, o almeno nel
plurale, (oltre il mascolino che abbiamo in tali plurali anche noi) mura,
pugna, fructa, lecta, digita, anella, risa, come noi diciamo le mura, le
pugna, le frutta, le letta, le dita, le anella, le risa, e simili,
quantunque non resti notizia precisa di queste voci latine, come fino a pochi
anni addietro non si aveva notizia della voce che abbiamo veduta e che restava
pure nell’italiano. Fructa e mura neutri plurali si ritrovano
anche nel latino barbaro. (Du Cange.) Lectum sostantivo neutro è
usato da Ulpiano nel Digesto, e v. Forcellini. (18. Giugno 1821.). Risus us
dicono i buoni latini. Eppure essi dicono jussus us e parimente jussum
i; e così altri tali verbali della quarta congiugazione (che risus è
un puro verbale) gli fanno talora neutri della seconda, come pur gustum i,
per gustus us, ec. su di che v. p.2146. e 2010. se vuoi.
Alla p.1173.
Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di uso o di lusso,
difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti travagli e
disastri, ma che d’altra parte si considerano appresso a poco come necessari
alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche necessari al commercio
fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di tali bisogni, non
sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi della pretesa felicità
del genere umano.
[1183]Il pensiero precedente intorno all’effettiva
necessità di tanti oggetti di lusso ec. per mantenere e dar motivo al
commercio, necessario alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno
effettivamente e per se stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di
essere ampliato: perchè i detti oggetti costando infiniti travagli all’umanità,
si vede come sia necessaria alla civiltà l’inciviltà, alla perfezione l’imperfezione
(nel senso in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e
delicatezza e raffinatezza ec. la barbarie della società.
(18.
Giugno 1821.)
Quello
che ho detto altrove intorno alla diversa impressione che fanno ne’ fanciulli i
nomi propri (e si può aggiungere le parole di ogni genere), e alle diverse idee
che loro applicano di bellezza o di bruttezza, secondo le circostanze
accidentali di quell’età, serve anche a dimostrare come sia vero che il bello è
puramente relativo, e come l’idea del bello determinato non derivi dalla
bellezza propria ed assoluta di tale o tale altra cosa, ma da circostanze affatto
estrinseche al genere e alla sfera del bello.
Ed
ampliando questa osservazione, se noi vorremo vedere come i fanciulli appoco
appoco si formino [1184]l’idea delle proporzioni e delle convenienze
determinate e speciali; e come senz’alcuna idea innata nè di proporzioni nè di
convenienze particolari e applicate, giungano pur brevemente a giudicar quella
cosa bella e quell’altra brutta, e quella buona, e quell’altra cattiva; e ad
accordarsi più o meno col giudizio universale intorno alla bruttezza o bellezza,
bontà o il suo contrario, senza però averne nell’intelletto o nella
immaginazione alcun tipo; consideriamo per modo di esempio il progresso delle
idee de’ fanciulli circa le forme dell’uomo, e vediamo come appoco appoco
arrivino a giudicare e a sentire la bellezza e la bruttezza estrinseca degl’individui
umani.
Il
fanciullo quando nasce non ha veruna idea del quali sieno e debbano essere le
forme dell’uomo: (eccetto per quello ch’ei sente materialmente e può concepire
delle sue proprie membra e parti, mediante l’esperienza de’ sensi.) (Ma
se egli non ha l’idea di dette forme, e questo è costante presso tutti gl’ideologi,
come potrà averla della loro bellezza? Come potrà aver l’idea della qualità,
non avendo quella del soggetto? E così discorrete di tutti gli altri oggetti
suscettibili di bellezza, di nessuno de’ quali il fanciullo ha idea innata.
Come dunque potrà avere idea della bellezza, prima di aver la menoma idea di
quelle cose che ponno esser belle? Poniamo un essere non soltanto possibile, ma
reale, e che noi pur sappiamo ch’esista, senza però conoscerlo in altro conto.
Che idea abbiamo noi della sua bellezza o bruttezza? Ma se è assolutamente ignoto quel bello e quel brutto che appartiene a forme ignote ec., dunque il
bello non è assoluto.) L’acquista però ben presto col vedere, toccare ec. E
vedendo p.e. in tutte le persone che lo circondano, il naso o la bocca di
quella tal misura che noi chiamiamo proporzionata, si forma necessariamente e
naturalmente l’idea che quella tal parte dell’uomo sia e debba essere di quella
tal misura. Ecco subito l’idea di una proporzione non assoluta, ma relativa;
idea non innata, ma acquisita, non derivata [1185]dalla natura nè dall’essenza
delle cose, nè da un tipo e da una nozione preesistente nel suo intelletto, nè da
un ordine necessario, ma dall’assuefazione del senso della vista circa quel
tale oggetto, e dall’arbitrio della natura che ha fatto realmente la maggior
parte degli uomini in quel tal modo.
Acquistata
così per solissima assuefazione l’idea delle proporzioni o convenienze,
il fanciullo si forma facilmente quella delle sproporzioni e sconvenienze, che
è sempre e necessariamente posteriore a quella dei loro contrari, e perciò l’idea
del brutto e del cattivo è posteriore a quella del buono e del bello, (il che
non sarebbe se fosse assoluta e primitiva e ingenita nell’uomo, e appartenente
all’essenza e natura della sua mente e della sua facoltà concettiva) e deriva
non da un tipo, ma dalla detta idea in questo modo che son per dire. Seguendo l’esempio
che abbiamo scelto, se il fanciullo vede un naso molto più lungo o più corto di
quello ch’è assuefatto a vedere, concepisce subito il senso della sproporzione
e sconvenienza, cioè di una mera contraddizione con la sua propria abitudine
di vedere, e forma il giudizio dello sproporzionato e sconveniente, ossia
del brutto. Ed eccolo ben presto d’accordo col giudizio universale degli uomini
circa la bellezza e la bruttezza determinata, [1186]senza averne portata
nè ricevuta dalla natura o dalla ragione verun’idea.
Ma ecco
prove più trionfanti di questa mia proposizione, cioè che l’idea d’ogni
proporzione, d’ogni convenienza, d’ogni bello, d’ogni buono determinato e
specifico, e di tutti i loro contrari, deriva dalla semplice assuefazione.
1. Se
quel naso sarà poco più lungo, o quella bocca poco più larga, quantunque lo sia
tanto che basti ad eccitare negli uomini il giudizio e il senso della
bruttezza, il fanciullo non concepirà questo giudizio nè questo senso in verun
modo. Che la cosa vada così, n’è testimonio l’esperienza di chiunque è stato
fanciullo, e vorrà sovvenirsi di ciò che gli accadeva in quell’età. E qual è la
ragione? La ragione è che il fanciullo avendo acquistato solamente una scarsa e
debole idea delle proporzioni, perchè poco ha veduto, e poco ha confrontato, ha
parimente una scarsa ed inesatta e non sottile nè minuta idea delle
sproporzioni, e non se n’accorge nè le sente, se non quando quel tale oggetto
si oppone vivamente e fortemente alla sua abitudine. Solamente col molto
vedere, egli arriva a formarsi senza pensarvi, un giudizio, un discernimento,
un senso fino per distinguere il bello dal brutto. Alle volte per l’opposto
pare al fanciullo notabilissima una sproporzione o sconvenienza, che gli altri
neppure osservano. E ne deduce un senso di bruttezza che gli altri non provano.
La ragione è la poca assuefazione, l’aver poco veduto, il che gli fa trovare
strano quello che non è strano, e brutto quindi o assai brutto, quello che non
è brutto, o poco. Come ciò, se il brutto fosse assoluto? Un fanciullo raccontava
che una persona aveva due nasi, perchè aveva osservata sul suo naso una piccola
differenza di colore, in parte più rosso, in parte meno. E di questa cosa
nessun altro si avvedeva senz’apposita osservazione. Che vuol dir [1187]questo?
Se l’idea del bello e del brutto determinato, fosse assoluta e naturale ed
innata, avrebbe mestieri il fanciullo di crescere, e di esercitare i suoi
sensi, e di esperienza, per acquistare un’idea, non dico perfetta, ma
sufficiente, della bellezza o bruttezza determinata? Il vedere che ne ha
bisogno, non dimostra evidentemente che il giudizio e il senso della bruttezza
o bellezza deriva unicamente dall’assuefazione e dal confronto, e che
nessun oggetto al mondo sarebbe nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo, se non
ci fosse con che confrontarlo, massime nella sua specie? E ciò viene a dire che
nessuna cosa è bella nè buona assolutamente, e per se stessa; e quindi non
esiste un bello nè un buono assoluto.
Il
perfezionamento del gusto in ogni materia, sia nelle arti, sia riguardo alla
bellezza umana, sia in letteratura ec. ec. si considera come una prova del
bello assoluto, ed è tutto l’opposto. Come si raffina il gusto de’ pittori,
degli scultori, de’ musici, degli architetti, de’ galanti, de’ poeti, degli
scrittori? Col molto vedere o sentire di quei tali oggetti sui quali il detto
gusto si deve esercitare; coll’esperienza, col confronto, coll’assuefazione.
Come dunque questo gusto può dipendere da un tipo assoluto, universale,
immutabile, necessario, naturale, preesistente? Quello ch’io [1188]dico
de’ fanciulli, dico anche de’ villani, e di tutti quelli che si chiamano o di
rozzo, o di cattivo, o di non formato gusto in ogni qualsivoglia genere di
cose: lo dico di chi non è avvezzo a vedere opere di pittura, il quale ognuno
sa e dice che non può giudicare del bello pittorico; lo dico di chi non è
accostumato alla lettura de’ buoni poeti, il quale non può mai giudicare del
bello poetico, del bello dello stile ec. ec. ec. Come il giudizio e il senso
del fanciullo intorno al bello, è da principio necessariamente grossolanissimo,
cosa che dimostra evidentemente come il detto giudizio dipenda dall’assuefazione,
così il giudizio e il senso della massima parte degli uomini circa il bello,
resta sempre imperfettissimo non per altro, se non perchè la massima parte
degli uomini non acquista mai una tal esperienza da poter formare quel giudizio
minuto, esatto e distinto, che si chiama gusto fino. Cioè 1. non considera bene
le minute parti degli oggetti, per poterle confrontare, e formarsene quindi l’idea
della proporzione determinata, idea ch’egli non ha. 2. non ha l’abito
di confrontare minutamente, ch’è l’unico mezzo di giudicare
minutamente della proporzione e sproporzione, bellezza o bruttezza, buono o
cattivo. Così andate discorrendo, e applicate queste osservazioni a tutte le
facoltà e cognizioni umane. E dal vedere che il senso [1189]del bello è
suscettivo di raffinamento e accrescimento sì ne’ fanciulli, e sì negli uomini
già formati, deducete ch’esso non è dunque innato nè assoluto, giacchè quello
che ha bisogno di essere acquistato e formato non è ingenito; e quello che
essendo suscettivo di accrescimento è per conseguenza suscettivo di
cangiamento, non è nè può essere assoluto.
Dunque
io non riconosco negli individui veruna differenza di naturale disposizione ed
ingegno a riconoscere e sentire il bello ed il brutto ec.? Anzi la riconosco,
ma non l’attribuisco a quello a cui si suole attribuire: cioè ad un sognato
magnetismo che trasporti gl’ingegni privilegiati verso il bello, e glielo
faccia sentire, e scoprire senza veruna dipendenza dall’assuefazione, dall’esperienza,
dal confronto; ad una simpatia dell’ingegno con un bello esistente nella natura
astratta; ad un favore della natura che si riveli spontaneamente a questi geni
privilegiati ec. ec. Tutti sogni. Il genio del bello, come il genio della
verità e della filosofia, consiste unicamente nella delicatezza degli organi
che rende l’uomo d’ingegno 1. facile ed inclinato a riflettere, ad osservare, [1190]a
notare, a scoprire le minute cose, e le minime differenze: 2. a paragonare, e
nel paragone ad essere diligente, minuto, e ritrovare le minime disparità, le
minime somiglianze, le menome contrapposizioni, i menomi rapporti: 3. ad
assuefarsi in poco tempo, e con poca esperienza, poco vedere ec. poco uso
insomma de’ sensi, poco esercizio materiale delle sue facoltà, contrarre un’abitudine:
4. a potere, mediante quello che già conosce, indovinare in breve tempo anche
quello che non conosce, in virtù della gran forza comparativa che gli viene
dalla delicatezza de’ suoi organi; la qual forza fa ch’egli ne’ pochi dati che
ha, scuopra tutti i possibili rapporti scambievoli, e ne deduca tutte le
possibili conseguenze. Per esempio (non uscendo dalla materia che abbiamo
scelta) un fanciullo provvisto di quello che si chiama genio, ha meno bisogno
di vedere, di quello che n’abbia un altro d’ingegno ottuso e torpido, per
formarsi un’idea della bellezza umana; perchè concepisce più presto l’idea
delle proporzioni determinate, mediante una più minuta ed attenta
considerazione degli oggetti che vede, ed una più esatta comparazione di questi
oggetti fra loro. V.g. quel fanciullo d’ingegno [1191]torpido non si
accorgerà della piccola differenza di struttura che è fra quella bocca o quella
fronte che vede, e quelle ch’è accostumato a vedere. Un fanciullo d’ingegno
fino, penetrante, arguto, riflessivo, cioè di organi delicati, mobili, rapidi,
pieghevoli, pronti, si accorgerà o subito, o più presto, di detta differenza, e
concepirà il senso e il giudizio della sproporzione, e della bruttezza; perchè
gli oggetti che ha veduti gli ha osservati meglio, e osserva meglio questo che
or vede, e gli uni e l’altro gli fanno o gli hanno fatto, più viva, più chiara
e più costante impressione; dal che deriva la maggior facilità ed esattezza
della comparazione ch’egli fa in questo punto; comparazione ch’è l’unica fonte
dell’idea delle proporzioni e convenienze. Ecco tutto il genio. Così discorrete
proporzionatamente di tutte le altre età, e di tutti gli altri oggetti e
facoltà, e vedrete come il genio di qualunque sorta, non sia mai altro che una
facoltà osservativa e comparativa, derivante dalla delicatezza, e
più o meno perfetta struttura degli organi, che è quello che si chiama maggiore
o minore ingegno.
2. Se un
fanciullo ha dintorno a se persone o di forme notabilmente diverse, o di forme
tutte brutte, e che tutte convengano in una certa specie di bruttezza, l’idea
ch’egli si forma della bellezza, e della proporzione, è incertissima nel primo
caso, e sta solamente sui generali (cioè su quelle sole proporzioni che sono
comuni a tutte le persone che lo circondano): e nel secondo caso, egli
concepisce espressamente per bello, quello [1192]ch’è brutto, e che poi
col più e più vedere altre persone, arriva finalmente a riconoscere per brutto.
Qui chiamo in testimonio l’esperienza di tutti gli uomini del mondo, acciò mi
dicano quanto l’idea loro circa la bellezza e la bruttezza si sia venuta
cambiando secondo l’età, cioè a misura dell’esperienza della loro vista: e come
quasi tutti abbiano da fanciulli giudicate belle delle fisonomie, delle persone
ec. che in altra età sono loro sembrate brutte, e tali sembravano anche agli
altri. Il che deriva 1. dalla ragione ora detta, 2. dalla poca pratica di
vedere che ristringeva la facoltà del loro giudizio, e l’idea che essi avevano
delle proporzioni, limitandola necessariamente e in ogni caso, alla sola idea
delle proporzioni generali e comuni a tutti gli uomini, 3. da circostanze
affatto estrinseche al bello: p.e. la nostra balia ci par sempre bella, e così
tutte quelle persone che ci accarezzano da fanciulli ec. ec. Allora il giudizio
della bellezza era effetto di queste tali impressioni (e non del bello). E si
giudicava poi bello appoco appoco, quello che somigliava a queste tali fisonomie,
sulle quali ci eravamo formata l’idea del bello umano, ancorchè fossero
bruttissime. E siccome le impressioni della fanciullezza sono vivissime, così
per effetto loro, [1193]e delle così dette simpatie ed antipatie, che
sono uno de’ loro effetti, accade che per lungo tempo e forse sempre, ci
troviamo inclinati a giudicare favorevolmente di persone bruttissime, ma
somiglianti a quelle che da piccoli ci parvero belle, e massime di queste
medesime; le quali, ancorchè brutte, non ci parranno mai più, brutte veramente;
ma solo il nuovo abito di vedere, e quindi il nuovo modo che abbiamo contratto
di giudicare della bellezza, ce le faranno giudicare, ma non parer brutte. E ci
bisognerà sempre una riflessione, ed un confronto espresso colle nostre nuove idee
del bello, per giudicar brutte quelle persone, che a prima vista, e senza
considerazione, non ci parranno mai tali. Massime se il nostro ingegno è
torpido e difficile a contrarre nuove abitudini: perchè nel caso contrario più
facilmente ci riesce di formare intorno all’estrinseco di quelle persone un
giudizio conforme alle nuove idee del bello che abbiamo acquistato colla
maggiore esperienza de’ sensi. Prove più certe che l’idea del bello non sia nè
assoluta, nè innata, nè naturale, nè immutabile, nè dipendente da un tipo (col
quale avremmo potuto paragonare quelle fisonomie), non credo che si possano
desiderare.
[1194]3. L’uomo, se ben considereremo,
non giudica mai della bellezza nè della bruttezza, se non comparativamente, e l’idea
del bello è sempre comparativa e quindi relativa. Noi giudichiamo della
bellezza estrinseca dell’uomo, sia reale, sia imitata, molto più finamente che
di qualunque altro bello fisico. Perchè? Perchè naturalmente facciamo ed
abbiamo fatto maggiore attenzione alle forme de’ nostri simili, che di
qualunque altro oggetto, e ne abbiamo notate le menome parti, le possiamo
paragonare fra loro, e quelle di un individuo con quelle di un altro, o della
generalità; e in questo modo, abbiamo distinta e minuta ed esatta l’idea acquisita delle proporzioni e convenienze relative alla figura dell’uomo, e delle
sproporzioni e sconvenienze, che è quanto dire della bellezza e della bruttezza
umana. Ma poniamo un individuo umano che non abbia mai veduto alcuno de’ suoi
simili. Egli non saprà giudicare della bruttezza o bellezza loro in nessun
modo, quando ne vegga qualcuno, massimamente se ne vede qualcuno isolato. Se
però egli non avrà posta molta attenzione alle sue proprie forme, alla sua
fisonomia, specchiandosi p.e. nelle fontane ec. Ed allora il giudizio ch’egli
porterà delle forme di quel tal uomo, sarà pur comparativo, cioè comparativo
alla sua propria [1195]forma, e quindi non si accorderà col giudizio
generale, o solamente a caso. E se egli avrà avuta molta pratica di qualche
altra specie di animali, come cani o cavalli ec. egli sarà molto meglio a
portata di giudicare della bellezza di questi, che di quella dell’uomo. E nel
detto giudizio sarà meglio d’accordo col giudizio comune degli uomini. Dico
degli uomini, e non già di quegli stessi animali, i quali, come gli uomini,
ponendo maggiore attenzione alle forme de’ loro simili, ne giudicano molto
diversamente, e più distintamente ed esattamente degli uomini: in proporzione
però della facoltà de’ loro organi molto meno disposti o meno esercitati ad
osservare, a paragonare, a riflettere, di quelli dell’uomo, e massime dell’uomo
o del fanciullo incivilito più o meno. Bensì è vero che quel tal uomo che
abbiamo supposto, si sentirà forse inclinato verso quel suo simile più di
quello che fosse verso qualunque altra specie d’animali, con cui fosse
addomesticato; e massimamente se quel suo simile è di diverso sesso. Ma questa
è inclinazione materiale ed innata della natura sua, del tutto indipendente
dall’idea del bello, e dal giudizio delle forme: è inclinazione e p‹Jow ossia passione, e non idea. E questo tal uomo, vedendo molti suoi simili
tutti in un tratto per la prima volta, non conoscerà fra loro, nelle loro forme
e fisonomie ec. quasi alcuna differenza, come è già noto che accade p.e. all’Europeo
che vede per la prima volta degli Etiopi, o de’ Lapponi. Tutti gli paiono
appresso a poco della stessa forma e fisonomia, e nessuno più bello nè più
brutto [1196]degli altri. Questo appunto accade al fanciullo, nel primo
veder uomini che gli accade, e va poi appoco appoco acquistando l’idea ed il
senso della loro bellezza o bruttezza, per sola comparazione, cominciando a
notare le minute parti, e paragonandole, e scoprendo le minute differenze negl’individui.
Questo è ciò che ci accade negli animali, i quali tutti ci paiono appresso a
poco p.e. della stessa fisonomia (dentro i limiti di una stessa specie); e
quando anche facendoci l’occhio appoco appoco, arriviamo a portare un giudizio
comparativo circa la bellezza comparativa delle loro forme, 1. questo ci
accade solamente negli animali che più si trattano e più si osservano, come
cavalli, cani, buoi ec. chè della bellezza p.e. del lione individuo, nessun
uomo ch’io sappia, nè si arroga, nè pensa pure di giudicare: 2. questo giudizio
è certo assai meno esatto di quello degli stessi animali di quella specie, ed è
credibile che bene spesso sia contrarissimo al giudizio degli stessi animali,
perchè noi giudichiamo delle loro forme colle idee che abbiamo delle
proporzioni (diverse dalle loro), e comparativamente piuttosto ad altre specie,
e ad altri oggetti, che alla propria specie loro, del che dirò poco appresso.
Un bambino e un animale confondono facilmente un pupazzo, una statua, una
pittura ec. cogli oggetti che rappresentano, perchè sopra questi hanno fatta
poca osservazione: meno facilmente però, o meno durevolmente, se l’oggetto
rappresentato è della propria specie e forma, perchè nella forma della loro
specie hanno posta naturalmente più attenzione.
Quell’uomo
che io ho supposto, se non avesse [1197]bene osservato il suo proprio
colore, e vedesse un Nero e un Bianco allo stesso tempo, non saprebbe punto
decidere qual de’ due fosse più bello, nè qual de’ due colori meglio convenisse
alla specie umana. E se non avesse bene osservate le sue proprie forme, e
vedesse al tempo stesso un Lappone, un italiano, un Patagone, non saprebbe
decidere quale di queste tre forme fosse più bella, e non sentirebbe differenza
di bellezza o bruttezza in nessuno di loro. Il che dimostra ch’egli non ha
veruna regola o norma innata ed assoluta per giudicare del bello, neppure
umano.
L’uomo
non può mai formarsi l’idea di una bellezza isolata, vale a dire che il bello
assoluto non esiste, nè altrove, nè nella idea, nella fantasia, nell’intelletto
naturale e primitivo dell’uomo. Figuratevi che ci sia mostrato un oggetto
forestiero, e che questo sia il primo e l’unico che noi vediamo nel suo genere.
Noi o non giudichiamo in nessun modo della sua bellezza o bruttezza, nè la
sentiamo; ovvero ne giudichiamo comparativamente ad altri generi di cose, e ad
altre proporzioni, e così per lo più andiamo errati, e probabilmente
giudicheremo brutto un oggetto che nel suo paese è giudicato bellissimo, e che
lo è nel suo genere effettivamente; o viceversa. Figuratevi [1198]di
vedere un uccello Americano di specie da voi non prima veduta. Questa è specie
e non genere, e voi per giudicarne potete paragonarla alle altre specie di
uccelli che conoscete. Tuttavia probabilmente sbaglierete il giudizio; voglio
dire, p.e. vi parranno sproporzioni quelle che agli Americani assuefatti a
vederne, parranno proporzioni, e bellezza: e viceversa agli Americani parranno
sproporzionati e brutti molti uccelli di specie e di forme assai differenti dai
loro, e ch’essi non sono accostumati a vedere. Così discorrete d’ogni sorta di
oggetti o naturali o artifiziali.
E
passando da queste osservazioni, al buono e al cattivo, vedrete come nessuna
cosa possibile sia buona nè cattiva, nè più o meno perfetta ec. isolatamente,
ma solo comparativamente; e che per conseguenza non esiste il buono nè il
cattivo assoluto, ma solo il relativo.
Voglio
prevenire un’obbiezione. Diranno che l’uomo naturalmente, e senza osservazione
ed esame preferisce un altro uomo, o una donna giovane a una vecchia, e che
quindi l’idea della bellezza è assoluta.
1.
Potrei dire che al fanciullo non accade così prima di avere acquistata coll’esperienza
de’ sensi, [1199]la facoltà comparativa: ed aggiungerei che io mi
ricordo di aver da fanciullo giudicato belli alcuni vecchi, e più belli ancora
di altre persone ch’erano giovani. E ciò per le ragioni dette p.1191.
fine-1193.
2.
Ma la vera e piena risposta è che questo non appartiene alla sfera della
bellezza.
Il
metafisico non deve lasciarsi imporre dai nomi, ma distinguere le diverse cose
che si denotano sotto uno stesso nome. V. in tal proposito p.1234-36. e
specialmente p.1237. Un colore isolato e vivo, che piace, si chiama bello, e
non è. Un suono isolato che diletta, senza gradazioni nè armonia, non
appartiene al bello. Bellezza non è altro che armonia e convenienza. Bruttezza
è sproporzione e sconvenienza. Queste sono proposizioni non contrastate da
nessun filosofo, per poco che abbia osservato. Quali cose si convengano o
disconvengano insieme, si crede che la natura dell’uomo l’insegni, e che
dipenda dall’ordine primordiale e necessario delle cose, e questo io lo nego.
La quistione è qui. Dove non entra armonia nè convenienza, la quistione non
entra. Una cosa che piace senza armonia nè convenienza, appartiene alla sfera
di altri piaceri. Quel colore vivo, ci diletta, perchè i nostri organi son così
fatti, che quella sensazione li solletichi gradevolmente. [1200]Questa è
sensazione (dipendente dall’arbitrio della natura circa le quali cose sieno
piacevoli a questa o a quella specie di esseri) e non idea; e quindi il detto
piacere, benchè venga per la vista, non appartiene alla bellezza, più di quello
che vi appartenga il piacere che dà un cibo alle papille del nostro palato, o
il piacere venereo ec. (Lascio che anche questi tali piaceri non sono assoluti
neppure dentro i limiti di una sola specie, anzi neppure di un solo individuo,
e dipendono sommamente, almeno in gran parte, dall’assuefazione.) L’uomo è più
inclinato al suo simile giovane, che al suo simile vecchio. Così anche gli
altri animali. Questa non è idea, ma inclinazione, tendenza, e passione; ed è
fuori della teoria del bello, perch’è fuori ancora della sfera dell’armonia. Le
tendenze sono innate e comuni a tutti gli uomini; le idee no. Ma nel detto caso
la mente non giudica; bensì il fisico dell’uomo si sente inclinato, e
trasportato. Non tutti i piaceri che vengono per la vista appartengono alla
bellezza, sebbene gli oggetti che producono i detti piaceri, si chiamano
ordinariamente belli; ma quelli soli che derivano dall’armonia e convenienza,
sì delle parti fra loro, sì del tutto col suo fine.
Io credo
poi ancora che la stessa idea dell’uomo che le cose debbano convenire fra
loro, non sia innata ma acquisita, e derivi dall’assuefazione in questo
modo. Io sono avvezzo a vedere p.e. negli uomini [1201]le tali e tali forme.
Se ne vedo delle differenti e contrarie, le chiamo sconvenienti, perchè elle mi
producono un effetto contrario alla mia assuefazione. Sviluppate quest’idea.
Perchè
la parzialità è sempre odiosa e intollerabile, quando anche colui che favorisce
o benefica alcuno più degli altri, non tolga niente agli altri del loro dovuto,
nè di quello che darebbe loro in ogni caso, nè li disfavorisca in nessun modo?
Per l’odio naturale dell’uomo verso l’uomo, inseparabile dall’amor proprio. E
v. in questo proposito la parabola del padre di famiglia e degli operai del
Vangelo.
Alla
p.1114. verso il fine. Il Forcellini ora fa derivare i continuativi da’
frequentativi, (come ductare da ductitare) ora questi da quelli.
I continuativi da’ frequentativi non derivano mai. Quanto ai frequentativi da’
continuativi, io non nego che talvolta non possano essere derivati dai
participi o supini di questi ultimi, cangiata l’a di detti participii o
supini, in i, secondo quello che abbiamo stabilito p.1154. Nel qual caso
i verbi continuativi venivano a diventar positivi relativamente al
frequentativo che se ne formava. P.e. saltitare può forse anche venire
da saltatus di saltare, cambiata l’a in i, ed essere
frequentativo o diminutivo non di salire, ma di saltare, cioè
ballare. Infatti esso non vale saltellare, ma ballonzare o ballonzolare.
Questo però, posto che talvolta avvenga, avviene di rado, e la massima parte de’
frequentativi derivano immediatamente da’ positivi, e sono affatto indipendenti
da’ continuativi degli stessi verbi, o abbiano questi, o non abbiano
continuativi. Ed è curioso che il Forcellini bene spesso chiama p.e. cursare
frequentativo di currere, e cursitare che cosa? frequentativo di cursare.
V. p.2011.
(21.
Giugno 1821.)
[1202]Alla p.767. Le parole che per se
stesse sono meri suoni, e così le lingue intere, in tanto sono segni delle
idee, e servono alla loro significazione, in quanto gli uomini convengono
scambievolmente di applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di
essa. Ora il principal mezzo di questa convenzione umana, in una società
alquanto formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano di
questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente, ed
esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto impotenti, o
poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue finchè non sono
estesamente applicate alla scrittura. Come convenire scambievolmente in tutta
una nazione, di dare a quella tal parola quella tal significazione certa
determinata e stabile, e di riconoscerla universalmente per segno di quella tal
cosa o idea? Come arricchire la lingua, accrescere le significazioni di una
stessa parola, stabilire l’uso e l’intelligenza comune di una metafora o
traslato, dare alla lingua una tal facoltà di tale o tal formazione di voci o
di modi che significhi regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee?
Come poi regolare ed uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la
nazione la sintassi, le inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa
parola, ec. ec.? Tutte queste cose sono impossibili [1203]senza la
scrittura, perchè manca il mezzo di una convenzione universale, senza cui la
lingua non è lingua ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si
estende. Le scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche
dopo che quegli che le fece, non può più parlare. Gl’individui di una nazione
non possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno. Ed un
individuo, ancorchè di sommo ingegno, non può mettere in uso una parola, una
frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune e stabilirne l’intelligenza
colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi e solo istantaneamente
possono partecipare), se non lentissimamente e difficilissimamente. Ora le
lingue le più estese sono sempre nate dall’individuo, e vi fu sempre il primo
che inventò e pronunziò quella parola, quella frase, quel significato ec. In
qualunque modo si sieno formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano
cominciato ad intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi
della favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta,
sinchè una lingua non è stata applicata alla scrittura; perchè la convenzione
individuale di ciascheduno, non può essere se non lentissima e difficilissima.
Di più è certo che l’uso di tutte le lingue nel loro nascere fu ristretto [1204]a
una piccolissima società, dove la convenzione era meno difficile, perchè fra un
piccolo numero d’individui. Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare,
ordinare, perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata
da una nazione, dove la convenzione che deriva dall’uso è lentissima, difficilissima,
e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l’unico mezzo di
convenzione universale (senza cui la lingua comune non può ricevere nè
miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le scritture quella che
1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne’ suoi principii, e nelle sue
regole, vale a dire la letteratura largamente considerata. Perchè la scrittura
non letterata, o non importante in qualunque modo per se stessa, come lettere
cioè epistole ec. ec. è soggetta quasi agli stessi inconvenienti della viva
voce, cioè si comunica a pochi, (forse anche a meno di quelli a cui si comunica
la voce di un individuo) e non è uniforme nè costante nelle sue qualità.
Insomma si richiede un genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre,
stabilire, regolare e mantenere la convenzione universale circa la lingua.
Alla
p.1129. Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a parecchi di
questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al parer nostro, cioè
fanno derivare i nomi da’ verbi, come vedremo [1205]di lex da legere,
e come rex da regere, laddove noi regere da rex,
conforme porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del
progresso naturale delle idee. Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome
da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l’azione
stessa del comandare. L’idea dell’azione la più materiale, e per conseguenza l’idea
espressa da’ verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata
da’ nomi. V. in proposito la p.1388-91. Dico posteriore ad esser significata,
non sempre però posteriore nella concezione; ma benchè anteriore nella
concezione (come in questo esempio) l’uomo stabilì prima un segno per esprimere
colui che la faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè
quegli che comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un
segno l’idea metafisica di ciò che questi faceva. Perchè questa idea benchè
seconda nell’ordine, fu la prima idea ch’egli concepisse chiaramente, in
modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno. Così che ella è
anteriore come idea chiara, benchè posteriore come idea semplicemente. E quello
che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l’ordine e la successione non
delle idee assolutamente ma delle idee chiare che l’uomo ha concepite, giacchè
queste sole egli ha potuto e può significare. V. Sulzer p.53. Ma bisogna
perdonare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che
il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione in
quelle cose che ripugnano all’analisi e alla scienza dell’umano intelletto.
(22.
Giugno 1821.)
Alla
p.1201. Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava una cavalla
pregna dicendo, [1206]Tu gravida, e io no? Io credo che un padre
storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli sani, e non
provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli, che facilmente
si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome di antipatia, quasi
fosse una passione innata, e senza causa morale. Del che si potrebbero portare
infinite prove di fatto, come dell’odio delle madri brutte verso le figlie
belle, e delle persecuzioni che bene spesso fanno per tal cagione a giovani
innocentissime, senza che nè queste nè esse medesime vedano bene il perchè.
Così de’ padri di poco ingegno o in qualunque modo sfortunati, verso i figli di
molto ingegno, o in qualunque modo avvantaggiati su di loro. Così (e questa è
cosa generalissima) de’ vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli,
(anzi massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che
i vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i giovani,
ancorchè innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi. Così tra
fratelli e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l’amor proprio inseparabile dai
viventi, produce e quasi si trasforma nell’odio degli altri oggetti, anche di
quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati (al nostro stesso amor
proprio) e resi più cari.
(22.
Giugno 1821.)
[1207]Quante cose si potrebbero dire
circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia
delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi dell’orecchio sulla
bellezza esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni,
assuefazioni; ed intorno alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle
lettere e delle pronunzie ec. In un luogo parrà graziosa una pronunzia
forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un’altra pur forestiera;
secondo i differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo,
contrasti che ora producono il senso della grazia, ora l’opposto ec. ec. V.
p.1263. Lascio le differentissime armonie de’ periodi della prosa parlata o
scritta, secondo, non solamente le diverse lingue e nazioni e climi, ma anche i
diversi tempi, e i diversi scrittori o parlatori d’una stessa lingua e nazione,
e d’un medesimo tempo. Osserverò solo alcune cose relative all’armonia de’
versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non
solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia,
nè li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche
piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè
nella rima. La quale sarebbe sembrata spiacevolissima e barbara agli antichi
greci e latini, ec. alle cui lingue si poteva adattare niente meno che alle
nostre, ed a quelle stesse forme di versi che usavano, che bene spesso o
somigliano, o sono a un dipresso le medesime che parecchie delle nostre,
massimamente italiane. E di più sarebbe stata loro più facile, stante il
maggior numero di consonanze che avevano, ed anche [1208]il maggior
numero di parole, considerando se non altro (per non entrare adesso nel
paragone della ricchezza) l’infinita copia e varietà delle inflessioni di
ciascun loro verbo o nome ec. Così che avrebbero potuto usar la rima meglio di
noi, e più gradevolmente, cioè più naturalmente, forzando meno il senso, il
verso, l’armonia della sua struttura, il ritmo, ec. E nondimeno la fuggivano
tanto quanto noi la cerchiamo, ed a noi stessi, avvezzi all’armonia de’ loro
versi, parrebbero barbari e disgustosi ponendovi la rima.
Se
esistesse un’assoluta armonia, cioè a dire un’assoluta convenienza e relazione
fra i suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia
stimata la più armonica del mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo
sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo ignorante della lingua, quanto l’italiano
adulto nè più nè meno. E se quest’assoluta armonia, e questi versi
assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se
stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all’italiano che allo straniero
e al fanciullo.
Tutti
coloro che non sanno il latino o il greco, di qualunque nazione sieno, non
sentono armonia veruna ne’ versi latini o greci, se pur non sono assuefatti
lungamente ad udirne per qualsivoglia circostanza, [1209]ed allora
notandone appoco [appoco] le minute parti, e le minute corrispondenze, e
relazioni, e regolarità, non si formano l’orecchio a sentirne e gustarne l’armonia.
Il qual processo è necessario anche a chi meglio intenda il latino ed il greco.
Il
nostro volgo trova una certa armonia negl’inni ecclesiastici ec. e nessuna ne
troverebbe in Virgilio. Perchè? perchè gl’inni ecclesiastici somigliano sì per
la struttura, l’andamento e il metro, sì bene spesso per la rima, ai versi
italiani che il volgo pure è avvezzo a udire e cantare per le strade. E poi,
perch’egli è avvezzo ad udire appunto quei tali barbari versi e metri latini.
Un
italiano assai colto, ma non avvezzo a legger poesia nostra, leggendogli una
canzone del Petrarca, mi disse quasi vergognandosi, che trovava privo d’armonia
quel metro, e che il suo orecchio non ne era punto dilettato. Il qual metro
somiglia a quello delle odi greche composte di strofe, di antistrofe, e d’epodo,
ed ha un’armonia così nobile e grave, ed atto alla lirica sublime. Soggiunse ch’egli
non sentiva il diletto dell’armonia fuorchè nelle ottave, e in qualcuno de’
nostri metri che chiamiamo anacreontici. Notate ch’egli non aveva punto [1210]quell’orecchio
che si chiama cattivo.
Domandate
a un francese, ancorchè bene istruito dell’italiano o dell’inglese, s’egli
sente verun’armonia ne’ versi sciolti più belli, o ne’ versi bianchi degl’inglesi.
Ciascuna
nazione ha avuto ed ha i suoi metri particolari, tanto per la struttura di
ciascun verso, quanto per la loro combinazione, disposizione e distribuzione,
ossia per le strofe ec. E questi in proporzione della differenza maggiore o
minore de’ climi, opinioni, assuefazioni, tempi (giacchè le stesse nazioni
altri n’avevano anticamente, altri poi, altri oggi) ec. ec. sono diversissimi,
e spesso affatto o inarmonici, o disarmonici per gli stranieri, secondo la
misura dell’essere straniero, come noi verso i francesi dall’una parte,
dall’altra verso gli orientali ec. ec. È impossibile allo straniero il sentirvi
armonia nè diletto, senza una di queste condizioni 1. lungo uso di quella
lingua; ma non basta, anzi è nullo quest’uso, se non vi si aggiunge il lungo
uso di quella poesia. 2. somiglianza o affinità di quei metri co’ metri della
propria nazione; come fra quelli degl’italiani e degli spagnuoli. La difficoltà
del sentire l’armonia de’ versi stranieri è maggiore o minore in proporzione ch’ella
è più o meno diversa dall’armonia de’ nostrali, o da quella o quelle a cui
siamo avvezzi. 3. abito fatto ad altre armonie forestiere affini a quella di
cui si tratta. 4. orecchio esercitato a tante e sì diverse armonie, che
mediante una forza riflessiva, osservativa, e comparativa straordinariamente
accresciuta, sia in grado di avvertire e conoscere o subito o ben presto la
natura di quelle combinazioni forestiere, gli elementi di quell’armonia, e il
ritorno de’ loro regolati rapporti rispettivi; sia in grado di assuefar presto l’orecchio, ed abbia una facilità di contrarre abitudine, ch’è propria
degli animi e degl’ingegni pieghevoli e adattabili, cioè in somma de’ grandi
ingegni; ec. ec. e possa in poco tempo arrivare a [1211]scoprire e
discernere in detta armonia quello che i nazionali ci scuoprono.
È
impossibile al nazionale avvezzo, e formato l’orecchio all’armonia de’ suoi
metri, per quanto sia chiamata barbara, dura, dissonante ec. dagli stranieri,
il non sentirla meglio, e il non trovarla più dilettevole di qualunque altra
armonia forestiera, ancorchè giudicata bellissima ec. Fuorchè formando (che è
difficilissimo e forse non accade mai) un’assuefazione nuova che vinca la passata.
Chi di
noi sente l’armonia de’ versi orientali, o delle strofe loro? Non parlo de’
versi tedeschi o inglesi, o della prosa tedesca misurata ec. in ordine agl’italiani.
I quali molto più presto e facilmente riconoscono un’armonia ne’ versi
francesi, perchè lingua ed armonia più affine alla loro.
Si
pretende, ed è probabilissimo che parecchi libri scritturali sieno metrici. Ma
in quali metri sieno composti nessuno l’ha trovato, benchè molti l’abbiano
cercato. E non si potrà mai trovare se non a caso, non essendoci regola che c’insegni
qual fosse quella che agli Ebrei pareva armonia rispetto alle parole. E ciò per
qual altra ragione, se non perchè non esiste armonia assoluta? Se esistesse, la
regola sarebbe trovata, massime esistendo tutte intere e ordinate quelle
parole, che si pretendono aver formato un’armonia. [1212]
Alla
p.1155. Alle volte, anzi bene spesso dinotano l’appoco appoco, il corso il
progresso dell’azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene spesso di
esprimere appunto la lentezza dell’azione, e non si usano ad altro fine. Ovvero
esprimono formalmente la debolezza dell’azione, ed hanno come una forza
diminutiva uguale o simile a quella de’ verbi latini terminati in itare.
Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli adoprano in simili
significati.
Non è
ella cosa notissima, comunissima, frequentissima, e certa per la esperienza
quasi di ciascuno, che certe persone che da principio, o vedendole a prima
giunta, ci paion brutte, appoco appoco, assuefacendoci a vederle, e scemandosi
coll’assuefazione il senso de’ loro difetti esteriori, ci vengono parendo meno
brutte, più sopportabili, più piacevoli, e finalmente bene spesso anche belle,
e bellissime? E poi perdendo l’assuefazione di vederle, ci torneranno forse a
parer brutte. Così dico di ogni altro genere di oggetti sensibili o no. Molti
de’ quali che per una primitiva assuefazione di vederli e trattarli ci parvero
belli da principio, cioè prima di esserci formata un’idea distinta e fissa del
bello; veduti poi dopo lungo intervallo, ci paiono brutti e bruttissimi. Che
vuol dir ciò? Se esistesse un bello assoluto, la sua idea sarebbe continua,
indelebile, inalterabile, uniforme in tutti gli uomini, nè si potrebbe o
perdere o acquistare, o indebolire o rinforzare, o minorare o accrescere, [1213]o
in qualunque modo cambiare (e cambiare in idee contrarie, come abbiamo veduto)
coll’assuefazione, dalla quale non dipenderebbe.
(24.
Giugno 1821.)
Da
qualche tempo tutte le lingue colte di Europa hanno un buon numero di voci
comuni, massime in politica e in filosofia, ed intendo anche quella filosofia
che entra tuttogiorno nella conversazone, fino nella conversazione o nel
discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato. Non parlo poi delle voci
pertinenti alle scienze, dove quasi tutta l’Europa conviene. Ma una grandissima
parte di quelle parole che esprimono cose più sottili, e dirò così, più
spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le
nostre medesime ne’ passati secoli; ovvero esprimono le stesse cose espresse in
dette lingue, ma più sottilmente e finamente, secondo il progresso e la
raffinatezza delle cognizioni e della metafisica e della scienza dell’uomo in
questi ultimi tempi; e in somma tutte o quasi tutte quelle parole ch’esprimono precisamente
un’idea al tempo stesso sottile, e chiara o almeno perfetta ed intera;
grandissima parte, dico, di queste voci, sono le stesse in tutte le lingue
colte d’Europa, eccetto piccole modificazioni particolari, per lo più nella
desinenza. Così che vengono a formare una specie di piccola lingua, o un
vocabolario, strettamente universale. E dico strettamente universale, cioè non
come è universale la lingua francese, ch’è lingua secondaria [1214]di
tutto il mondo civile. Ma questo vocabolario ch’io dico, è parte della lingua
primaria e propria di tutte le nazioni, e serve all’uso quotidiano di tutte le
lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta. Ora la massima
parte di questo Vocabolario universale manca affatto alla lingua italiana
accettata e riconosciuta per classica e pura; e quello ch’è puro in tutta l’Europa,
è impuro in Italia. Questo è voler veramente e consigliatamente metter l’Italia
fuori di questo mondo e fuori di questo secolo. Tutto il mondo civile facendo
oggi quasi una sola nazione, è naturale che le voci più importanti, ed
esprimenti le cose che appartengono all’intima natura universale, sieno comuni,
ed uniformi da per tutto, come è comune ed uniforme una lingua che tutta l’Europa
adopera oggi più universalmente e frequentemente che mai in altro tempo,
appunto per la detta ragione, cioè la lingua francese. E siccome le scienze
sono state sempre uguali dappertutto (a differenza della letteratura), perciò
la repubblica scientifica diffusa per tutta l’Europa ha sempre avuto una
nomenclatura universale ed uniforme nelle lingue le più difformi, ed intesa da
per tutto egualmente. Così sono oggi uguali (per necessità e per natura del
tempo) le cognizioni metafisiche, filosofiche, politiche ec. la cui massa e il
cui sistema semplicizzato e uniformato, è comune oggi [1215]più o meno a
tutto il mondo civile; naturale conseguenza dell’andamento del secolo. Quindi è
ben congruente, e conforme alla natura delle cose, che almeno la massima parte
del vocabolario che serve a trattarle ed esprimerle, sia uniforme generalmente,
tendendo oggi tutto il mondo a uniformarsi. E le lingue sono sempre il
termometro de’ costumi, delle opinioni ec. delle nazioni e de’ tempi, e seguono
per natura l’andamento di questi.
Diranno
che buona parte del detto vocabolario deriva dalla lingua francese, e ciò
stante la somma influenza di quella lingua e letteratura nelle lingue e
letterature moderne, cagionata da quello che ho detto altrove. Ma venisse
ancora dalla lingua tartara, siccome l’uso decide della purità e bontà delle
parole e dei modi, io credo che quello ch’è buono e conveniente per tutte le
lingue d’Europa, debba esserlo (massime in un secolo della qualità che ho
detto) anche per l’Italia, che sta pure nel mezzo d’Europa, e non è già la
Nuova Olanda, nè la terra di Jesso. E se hanno accettate, ed usano
continuamente le dette voci, quelle lingue Europee che non hanno punto che fare
colla francese, quanto più dovrà farlo, e più facilmente, e con più naturalezza
e vantaggio la nostra lingua, ch’è sorella carnale della francese? Le origini
di dette parole, a noi [1216]riescono familiari e domestiche, perchè in
gran parte derivano dal latino, benchè applicate ad altre significazioni che non
avevano, nè potevano aver nel latino, mancando i latini di quelle idee.
Spessissimo vengono dal greco, che a noi non è più, anzi meno alieno, di quello
che sia alle altre lingue colte moderne. Spesso sono interamente italiane cioè
stanno già materialmente nel nostro linguaggio, benchè in significato diverso,
e meno sottile, o meno preciso, perchè i nostri antichi non poterono aver
quelle idee, che oggi abbiamo noi, non perciò meno italiani di loro, nè quelle
idee sono meno italiane perchè i nostri antichi non le arrivarono a concepire,
o solo confusamente, secondo la natura de’ tempi, e lo stato dello spirito
umano.
Si
condannino (come e quanto ragion vuole) e si chiamino barbari i gallicismi, ma
non (se così posso dire) gli europeismi, che non fu mai barbaro quello che fu
proprio di tutto il mondo civile, e proprio per ragione appunto della civiltà,
come l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa
scienza d’Europa.
Osservate
p.e. le parole genio, sentimentale, dispotismo, analisi, analizzare,
demagogo, fanatismo, originalità ec. e tante simili che tutto il mondo
intende, tutto il mondo adopera in una stessa e precisa significazione, e il
solo italiano non può adoperare (o non può in quel significato), perchè? perchè
i puristi le scartano, e perchè i nostri antichi, non potendo aver quelle idee,
non poterono pronunziare nè scrivere quelle parole in quei sensi. Ma così
accade in ordine alle stesse parole, a tutte le lingue del mondo che pur non
hanno scrupolo di adoperarle. Piuttosto avrebbero scrupolo e vergogna di non
saper esprimere un’idea chiara per loro, e chiara per tutto [1217]il
mondo civile, mentre per la espressione delle idee chiare son fatte e inventate
e perfezionate le lingue. Come infatti noi, non volendo usar queste parole, non
possiamo esprimere le idee chiare che rappresentano, o dobbiamo esprimere delle
idee chiare e precise (e ciò nella stessa mente nostra), confusamente e
indeterminatamente: e poi diciamo che l’italiano è copiosissimo, e basta a
tutto, ed avanza. Sicchè bisogna tacere, o scriver cose da bisavoli, e poi
lagnarsi che l’italiana letteratura e filosofia resta un secolo e mezzo
addietro a tutte le altre. E come no, senza la lingua?
Aggiungo
che quando anche potessimo ritrovare nel nostro Vocabolario o nella nostra
lingua, o formare da essa lingua altre parole che esprimessero le stesse idee,
bene spesso faremmo male ad usarle perchè non saremmo intesi nè dagli
stranieri, nè dagli stessi italiani, e quell’idea che desteremmo non sarebbe nè
potrebbe mai esser precisa; e non otterremmo l’effetto dovuto e preciso di tali
parole, che è quanto dire, le useremmo invano, o quasi come puri suoni.
1. Fu
tempo dove agli uomini ed agli scrittori bastava di giovare, di farsi
intendere, di rendersi famosi dentro i limiti della propria nazione. Ma oggi,
nello stato d’Europa che ho detto di sopra, non acquista fama nè grande nè
durevole quello scrittore il cui nome e i cui scritti non passano i termini del [1218]proprio paese. Nè in questa presente condizione di cose può molto
e immortalmente giovare alla sua patria chi non viene almeno indirettamente a
giovare più o meno anche al resto del mondo civile. Nel rimanente quella gloria
o quel nome che fu ristretto a una sola nazione fu sempre, ed anche anticamente
poco durevole, nella stessa nazione ancora. Fra mille esempi, basti nominare i
Bardi; molti de’ quali si sa confusamente e genericamente che furono
famosissimi nelle loro nazioni, ed oggi p.e. nella Scozia appena resta il nome
e la memoria oscura di pochissimi degli stessi antichi Bardi Scozzesi. Quello
che dico degli scrittori, dico anche degli altri generi di persone famose ec.
ma degli scrittori in maggior grado, perchè i fatti degli uomini poco durano, e
poco si possono stendere ma le voci e i pensieri loro consegnati agli scritti,
sopravvivono lunghissimo tempo, e possono giovare a tutta l’umanità; nè lo
scrittore, massimamente in questo presente stato del mondo, si deve contentare
della utilità della sua sola patria, potendo con quel medesimo che impiega per
lei, proccurare il vantaggio di tutte le altre nazioni.
2. Ho
detto che difficilmente ci faremmo intendere, e susciteremmo precisamente l’idea
che vorremmo significare, e che è precisamente espressa dalle parole [1219]corrispondenti
già usitate in Europa. La filosofia (con tutti quanti i diversissimi suoi rami)
è scienza. Tutte le scienze giunte ad un certo grado di formazione e di
stabilità hanno sempre avuto i loro termini, ossia la loro propria
nomenclatura, e così propria, che volendola cambiare, si sarebbe cambiato
faccia a quella tale scienza. Com’è avvenuto che la rinnovazione della Chimica,
ha portato la rinnovazione della sua nomenclatura, e di tutta quella parte di
nomenclatura fisica o d’altre scienze, che apparteneva, o era influita dalle
cognizioni chimiche vecchie o nuove. E la nomenclatura di qualunque scienza è
stata sempre così legata con lei, che dovunque ell’è entrata, v’è anche entrata
quella stessa nomenclatura, comunque e dovunque formata, e comunque pur fosse
inesatta nell’etimologie ec. purchè fosse esatta nell’intendimento e nel senso
che le si attribuiva. La Chimica ha nuova nomenclatura, perch’è scienza nuova e
diversa dall’antica. E così accade alle altre scienze quando si rinnuovano o in
tutto o in parte. Perdono l’antica nomenclatura, e ne acquistano altra, che
diviene però universale come la prima. E quando fra diverse e lontane nazioni
poco note o strette fra loro, trovate differenza di nomenclatura in una
medesima scienza, certo è che quella scienza è diversa notabilmente nelle
rispettive nazioni e lingue. V. p.1229. Quindi i termini di tutte le scienze,
esatte o no, ma alquanto stabilite sono stati sempre universali, nè sarebbe mai
possibile nel trattarle, l’adoperare altri termini da quelli universalmente
conosciuti, intesi e adoperati, senza nuocere sommamente alla chiarezza, e
toglier via la precisione. La qual precisione non deriva propriamente e
principalmente da altro se non dalla convenzione che applica a quella parola
quel preciso significato, bene spesso metaforico, ma passato in proprissimo.
Mutando la parola, è tolta via la forza della convenzione, e quindi, benchè la
nuova parola equivalga quanto alla sua origine, alla sua proprietà intrinseca
ec. non equivale quanto all’effetto, perchè il [1220]lettore o uditore
non concepisce più quell’idea precisa e netta che concepiva mediante la parola
usitata, la qual era aiutata dalla convenzione, o sia dall’assuefazione di
attribuirgli e d’intenderla in quel preciso significato. Converrebbe rinnovare
appoco appoco l’assuefazione, applicandola a queste nuove parole, il che
porterebbe necessariamente un lungo intervallo di oscurità e confusione nella
intelligenza degli scrittori, finchè la nuova nomenclatura non arrivasse a
prendere nella mente nostra in tutto e per tutto il posto dell’usitata, e a
farvi, per così dire, quel letto che questa vi aveva già fatto. Nè questo
sarebbe il solo danno, o difficoltà; ma converrebbe che questa nuova
nomenclatura diventasse universale, altrimenti restringendosi a una sola
nazione o lingua, ne seguirebbero i danni che ho specificati all’articolo 1. e
le nazioni non s’intenderebbero fra loro nelle idee che denno essere da per
tutto egualmente precise, e precisamente intese. E se una sola fosse la nazione
che in qualunque scienza avesse una nomenclatura diversa dalle altre nazioni,
quella nazione in ordine a quella scienza sarebbe come fuori del mondo e del
secolo, tanto per l’effetto de’ suoi scrittori sugli stranieri, quanto (ch’è
peggio) per l’effetto degli scrittori stranieri su di lei. [1221]Posto
poi il caso ch’ella arrivasse a rendere quella nomenclatura universale, ognun
vede che siamo da capo colla quistione, e che la universalità resterebbe, e
solo avrebbe fatto passaggio inutilmente (e con danno temporaneo) da una ad
altra nomenclatura: ed allora io dico che sarebbe pazzo quello scrittore o quel
paese che non vi si volesse uniformare.
La
filosofia dunque ha i suoi termini come tutte le altre scienze. E siccome l’odierna
filosofia è così 1. raffinata, 2. dilatata nelle sue parti e influenze, così che
si può dire che tutta la vita umana oggi è filosofica, o almeno è tutta
soggetta alle speculazioni della filosofia; perciò accade che i termini
filosofici sieno moltissimi, e cadano spessissimo nel discorso familiare, e
regnino in grandissima parte delle cognizioni, delle discipline, degli scritti
presenti. E perchè questi termini, come ho detto, sono in gran parte uniformi
per tutta Europa, perciò oggi il linguaggio di tutta Europa nelle espressioni
delle idee sottili o sottilmente considerate, è presso a poco uniforme, anche
nella conversazione.
Ed è ben
ragionevole che la filosofia divenuta scienza così profonda, sottile, accurata,
ed appresso a poco uniforme e concorde da per tutto (a differenza delle antiche
filosofie), e, quel ch’è notabilissimo nel nostro proposito, sempre più chiara
e certa nelle sue nozioni, e determinata, abbia [1222]i suoi termini
stabili e universalmente uniformi, massime in tanta uniformità, e stretto
commercio d’Europa: quando anche le vecchie, informi ed oscure, incerte,
mal determinate, e sciocche filosofie che s’insegnavano nelle scuole, ebbero la
loro nomenclatura stabile e universale, fuor di cui non sarebbero state intese
in nessuna parte d’Europa, benchè tanto meno uniforme ed unita fra se. Di
questi termini dell’antica filosofia, di questi termini scolastici
universalmente adoperati ne’ bassi tempi e fino agli ultimi secoli, abbonda la
lingua italiana. E perchè ebbero la fortuna d’essere usati da’ nostri vecchi,
perciò questi termini, quantunque derivati da barbare origini, e appartenenti a
scienze che non erano scienze, si chiamano purissimi in Italia; e i termini
dell’odierna filosofia, derivati dalla massima civiltà d’Europa, appartenenti
alla prima delle scienze, e questa condotta a sì alto grado, si chiamano
impurissimi, perchè ignoti agli antichi; quasi che a noi toccasse il venerare e
il conservare, e non lo scusare per l’una parte, per l’altra discacciare l’ignoranza
antica. E che l’ignoranza de’ passati dovesse esser la misura e la norma del
sapere dei presenti.
[1223]Se dunque l’odierna filosofia,
quella filosofia che abbraccia per così dire tutto questo secolo, tutte le cose
e tutte le cognizioni presenti, ha e deve avere i suoi termini costanti, ed
uniformi in qualunque luogo ella è trattata, noi dobbiamo adottarli ed usarli,
e conformarci a quelli che tutto il mondo usa. E non è più tempo di cambiarli,
e formarci una nomenclatura filosofica italiana, cioè cavata tutta dalle fonti
della nostra lingua. Questo avrebbe potuto essere, se la massima parte dell’odierna
filosofia fosse derivata dall’Italia. Ed allora le altre nazioni, senza veruna
ripugnanza avrebbero usata nella filosofia, la nomenclatura fabbricata in
Italia. Ma avendo lasciato far tutto agli stranieri, ed arrivar questa scienza
a sì alto grado senza quasi nessuna opera nostra, o dobbiamo seguitare a non
curarla, ignorarla, e non trattarla; o volendo trattarla ci conviene adottare
quella nomenclatura che troviamo già stabilita e generalmente intesa, fuor
della quale non saremmo bene intesi nè dagli stranieri, nè da’ nostri medesimi,
come apparisce dalle sopraddette ragioni. Alle quali aggiungo come corollario,
dimostrato dal fatto, che tutte quelle parole che [1224]hanno espressa
precisamente e sottilmente un’idea sottile e precisa, di qualunque genere, e in
qualunque ramo delle cognizioni, sono state o sempre o quasi sempre universali,
ed usate in qualsivoglia lingua da tutti quelli che hanno concepita e voluta
significare quella stessa idea strettamente. E quella tale idea è passata dal
primo individuo che la concepì chiaramente, agli altri individui, e alle altre
nazioni, non altrimenti che in compagnia di quella tal parola. Appunto perchè
questa fina precisione di significato, non deriva nè può derivare se non da una
stretta e appositissima convenzione, difficilissima a rinnovare, e a
moltiplicare secondo le lingue.
Per
tutte queste ragioni, sarebbe opera degna di questo secolo, ed utilissima alle
lingue non meno che alla filosofia, un Vocabolario universale Europeo che
comprendesse quelle parole significanti precisamente un’idea chiara, sottile, e
precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue
colte. E massimamente quelle parole che appartengono a tutto quello che oggi s’intende
sotto il nome di filosofia, ed a tutte le cognizioni ch’ella abbraccia. Giacchè
le scienze materiali, o le scienze esatte non hanno tanto bisogno di questo
servigio, essendo bastantemente riconosciute e fisse le loro nomenclature, e le
idee che queste significano non essendo così facili [1225]o a sfuggire,
o ad oscurarsi e confondersi e divenire incerte e indeterminate, come quelle
della filosofia. Dovrebbe chi prendesse questo assunto definire e circoscrivere
colla possibile diligenza il significato preciso di tali parole o termini, e
recarne dalle diverse lingue dov’elle sono in uso, esempi giudiziosamente
scelti di scrittori veramente accurati e filosofi, e massime quegli esempi dov’è
contenuta una definizione filosofica dell’idea significata dalla parola; esempi
che non sarebbero difficili a trovarsi in tanta copia di scrittori
profondissimi e sottilissimi e acutissimi di questo e del passato secolo, e
anche del precedente. In maniera simile si contenne Samuele Johnson nel
Dizionario della lingua inglese, lingua che sa veramente esser filosofica, ed abbonda
di scrittori di tal genere. Se il compilatore di tal Dizionario fosse italiano,
ci renderebbe anche gran servigio, ponendovi gli esempi de’ migliori italiani
che hanno trattato simili materie; e in caso che si trovassero voci italiane
perfettamente corrispondenti, sia nel Vocabolario nostro sia ne’ nostri buoni
scrittori qualunque, sia nell’uso, farebbe utilissima cosa, ponendole a fronte
ec. con che verrebbe a fare un Vocabolario italiano filosofico, cosa veramente
da sospirarsi, e per conoscere e per mostrare e per usare le nostre ricchezze,
se ne abbiamo.
Questo
Vocabolario che sarebbe utilissimo a tutta l’Europa, lo sarebbe massimamente
all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole che tutta l’Europa
pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva,
senz’averne alcuna da surrogar loro. E la lingua italiana dovrebbe adottare le
dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si sieno corrotte coll’adottarle, [1226]tutte le altre lingue europee. E non dovrebbe volere, anzi
vergognarsi, che un tal vocabolario essendo Europeo, non fosse italiano quasi
che l’italiano non fosse Europeo, nè di questo secolo ec. E dovrebbe
riconoscerle per voci nobilissime, perchè inseparabilmente spettanti e legate
alla più nobile delle scienze umane ch’è la filosofia. V. p.1231. fine.
Con ciò
non vengo mica a dire ch’ella debba, anzi pur possa adoperare, e molto meno
profondere siffatte voci nella bella letteratura e massime nella poesia. Non v’è
bontà dove non è convenienza. Alle scienze son buone e convengono le voci
precise, alla bella letteratura le proprie. Ho già distinto in altro luogo le
parole dai termini, e mostrata la differenza che è dalla proprietà delle voci
alla nudità e precisione. È proprio ufficio de’ poeti e degli scrittori ameni
il coprire quanto si possa le nudità delle cose, come è ufficio degli
scienziati e de’ filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono a
questi, e sconvengono per lo più a quelli; a dirittura l’uno a l’altro. Allo
scienziato le parole più convenienti sono le più precise, ed esprimenti un’idea
più nuda. Al poeta e al letterato per lo contrario le parole più vaghe, ed
esprimenti idee più incerte, o un maggior numero d’idee ec. Queste almeno gli
denno esser le più care, e quelle altre che sono l’estremo opposto, le più
odiose. V. p.1234. capoverso 1. e 1312. capoverso 2. Ho detto e ripeto che i
termini in letteratura e massime in poesia faranno sempre pessimo e bruttissimo
effetto. Qui peccano assai gli stranieri, e non dobbiamo imitarli. Ho detto che
la lingua francese (e intendo quella della letteratura e della poesia) si
corrompe per la profusione de’ termini, ossia delle voci di nudo e secco
significato, perch’ella si compone oramai tutta quanta di termini, abbandonando
e dimenticando le parole: che noi non dobbiamo mai nè [1227]dimenticare
nè perdere nè dismettere, perchè perderemmo la letteratura e la poesia,
riducendo tutti i generi di scrivere al genere matematico. Le dette voci ch’io
raccomando alla lingua italiana, sono ottime e necessarie, non sono ignobili,
ma non sono eleganti. La bella letteratura alla quale è debito quello che si
chiama eleganza, non le deve adoperare, se non come voci aliene, e come si
adoprano talvolta le voci forestiere, notando ch’elle son tali, e come gli
ottimi latini scrivevano alcune voci in greco, così per incidenza. I diversi
stili domandano diverse parole, e come quello ch’è nobile per la prosa, è
ignobile bene spesso per la poesia, così quello ch’è nobile ed ottimo per un
genere di prosa, è ignobilissimo per un altro. I latini ai quali in prosa non
era punto ignobile il dire p.e. tribunus militum o plebis, o centurio,
o triumvir ec. non l’avrebbero mai detto in poesia, perchè queste parole
d’un significato troppo nudo e preciso, non convengono al verso, benchè gli
convengano le parole proprie, e benchè l’idea rappresentata sia non solo non
ignobile, ma anche nobilissima. I termini della filosofia scolastica,
riconosciuti dalla nostra lingua per purissimi, sarebbero stati barbari nell’antica
nostra poesia, come nella moderna, ed anche nella prosa elegante, s’ella gli
avesse adoperati come parole sue proprie. [1228]E se Dante le profuse
nel suo poema, e così pur fecero altri poeti, e parecchi scrittori di prosa
letteraria in quei tempi, ciò si condona alla mezza barbarie, o vogliamo dire
alla civiltà bambina di quella letteratura e di que’ secoli, ch’erano però
purissimi quanto alla lingua. Ma altro è la purità, altro l’eleganza di una
voce, e la sua convenienza, bellezza, e nobiltà, rispettiva alle diverse
materie, o anche solo ai diversi stili: giacchè anche volendo trattar materie
filosofiche in uno stile elegante, e in una bella prosa, ci converrebbe fuggir
tali termini, perchè allora la natura dello stile domanda più l’eleganza e
bellezza che la precisione, e questa va posposta. (Del resto in tal caso, la
filosofia è l’uno de’ principali pregi della letteratura e poesia, sì antica
che moderna, atteso però quello che ho detto p.1313. la quale vedi.) Io dico
che l’Italia dee riconoscere i detti termini ec. per puri, cioè propri della
sua lingua, come delle altre, ma non già per eleganti. La bella letteratura, e
massime la poesia, non hanno che fare colla filosofia sottile, severa ed
accurata; avendo per oggetto in bello, ch’è quanto dire il falso, perchè il
vero (così volendo il tristo fato dell’uomo) non fu mai bello. Ora oggetto
della filosofia qualunque, come di tutte le scienze, è il vero: e perciò dove
regna la filosofia, quivi non è vera poesia. La qual cosa [1229]molti
famosi stranieri o non la vedono, o adoprano (o si conducono) in modo come non
la vedessero o non volessero vederla. E forse anche così porta la loro natura
fatta piuttosto alle scienze che alle arti ec. Ma la poesia quanto è più
filosofica, tanto meno è poesia.
Alla
p.1219. marg. La filosofia e le scienze greche passarono ai latini, passarono
agli Arabi; e portarono nel latino e nell’Arabo le loro voci greche. Gli Arabi
vi ggiunsero alcune cose, e inventarono qualche scienza, o parte di scienze; e
i nomi Arabi insieme con dette aggiunte e invenzioni, sono diffusi
universalmente in Europa. Così sempre è accaduto negli antichi, ne’ mezzani, ne’
moderni tempi. La filosofia Chinese p.e. ha nomenclatura diversa dalla nostra,
ed ognun sa quanto ella ne differisca: oltre ch’ella non può in nessun modo
chiamarsi scienza esatta nè simile all’esatte, come la moderna nostra. Così
dico delle altre scienze chinesi. Così della filosofia degli Ebrei, che avendo
altra nomenclatura, ha, rispetto alla nostra, un’idea di originalità, massime
in quelle parti dove i loro nomi differiscono da quelli della filosofia latina, [1230](divenuti poi comuni in Europa ec.) nella qual lingua conosciamo i
libri Ebraici. Oltre che l’Ebraica filosofia è pure inesatta come ho spiegato
di sopra, e quindi tanto meno copiosa ne’ termini, e meno precisa ne’ loro
significati. ec. ec. ec.
(26.
Giugno 1821.)
Da repere
che anche il Forcellini dice esser metatesi di §rpv, oltre l’inerpicare del
quale ho detto altrove, ed oltre il latinismo repere che nella Crusca ha
un esempio di Dante, e uno del Soderini, ebbero i nostri antichi anche ripire,
voce italiana d’uso, e volgare in quei tempi, come sembra, e adoprata anch’essa
nel significato di inerpicarsi, Žn¡rpein, o di salire, montar su, come puoi
vedere ne’ due esempi delle Storie Pistolesi nella Crusca, e in questi della Storia
della Guerra di Semifonte scritta da M. Pace da Certaldo, Firenze 1753. il
quale autore fu tra il 200 e il 300. Gli Fiorentini appoggiate le scale di
già RIPIVANO (p.37): e Videro... alcuni già avere appoggiate le scale, e
far pruova di RIPIRE. (p.46.) Esempi portati nella Lettera a V. Monti di
Vincenzo Lancetti, Proposta di alcune Correzioni ed Aggiunte al Vocab. della
Crusca, vol.2. par.1. Milano 1819. Appendice, p.284. Quindi ripido,
cioè Erto, Malagevole a salire, spiega la Crusca, e ripidezza astratto
di ripido, voci non latine: e da repere, repente, per molto
erto, ripido, dice la Crusca, che ne porta due [1231]esempi del
trecento. Il Du Cange non ha niente in proposito.
Alla
p.1229. E infatti gran parte, e forse la maggiore delle poesie straniere,
riescono e sono piuttosto trattati profondissimi di psicologia, d’ideologia ec.
che poesia. E quivi la filosofia nuoce e distrugge la poesia, e la poesia
guasta e pregiudica la filosofia. Tra questa e quella esiste una barriera
insormontabile, una nemicizia giurata e mortale, che non si può nè toglier di
mezzo, e riconciliare, nè dissimulare. E così dico proporzionatamente del resto
della bella letteratura propriamente e veramente considerata.
(27.
Giugno 1821.)
Alla
p.1125, marg. - ossia le radici de’ verbi ebraici chiamati perfetti, tutte
composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche gl’imperfetti
fuorchè i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per contrazione
perdono la seconda radicale nella terza singolare del Preterito di Kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i Quiescenti detti in Ghaiin
Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però una sola sillaba nella
radice. Questo genere di radici dissillabe e trilettere, io credo che sia
comune e regolare anche nell’Arabo, nel Siriaco e in altre lingue orientali.
(27.
Giugno 1821.)
Alla
p.1126. Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che non hanno, nè
possono avere nell’italiano un preciso equivalente, cioè preciso nella
significazione, e preciso nell’intelligenza e nell’effetto. [1232]Perchè
se qualcuna di tali voci ha già nell’uso o dello scrivere o del parlare
italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso effetto,
quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle nostre radici, o
riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la stessa idea in modo da
suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza oscurità nè veruna minima
incertezza, e senza niente di vago o di dissimile, nella mente del lettore, o
uditore; non nego, anzi affermo, che in tal caso (che quando si ponga ben mente
a tutte e a ciascuna delle dette condizioni sarà rarissimo) faremo bene a
preferir queste voci nostre, alle sopraddette, benchè universali, e benchè in
tal caso pure, non saremmo in diritto di riprenderle come impure, mentre son
pure, cioè comunemente usate, e precisamente intese in tutta l’Europa.
(27.
Giugno 1821.)
La
trattabilità e facilità della lingua francese, ond’ella è così agevole a
scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l’adopra o l’ascolta, sì
pel nazionale, non deriva dall’esser ella uno strumento pieghevole e souple (qualità
negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall’essere un piccolo strumento, e
quindi manuale, eémetaxeÛristow, maneggiabile, [1233]facile a rivoltarsi per
tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec.
(27.
Giugno 1821.)
Quello
che ho detto de’ termini filosofici comuni oggi a tutta Europa, bisogna anche
estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti, alle manifatture, agli
oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e nazione abbiano ricevuto il
nome, lo conservano in gran parte per tutte le lingue e nazioni, e così è
sempre accaduto. Quanto però al Vocabolario ch’io propongo, il comprendervi
questi nomi, sarebbe anche meno necessario di quelli appartenenti alle scienze
esatte o materiali.
Alla
p.1212. Talvolta anche adopriamo i detti modi, a espresso fine di denotare
azione interrotta, e il di quando in quando, come p.e. dicendo il Tasso
viene ornando i suoi versi di falsi ornamenti, vogliamo dire, di quando
in quando gli orna ec. e vogliamo significare minor continuità che se
dicessimo orna i suoi versi ec. il che verrebbe a dire che lo facesse
sempre o quasi sempre; o se dicessimo suole ornare ec.
(28.
Giugno 1821.)
Alla
p.1212. principio. Se esistesse un’armonia assoluta in ordine ai suoni
articolati o alle parole, tutte le versificazioni in qualunque lingua e tempo,
avrebbero [1234]avuto ed avrebbero le stesse armonie, e renderebbero le
stesse consonanze, che in un batter d’occhio si ravviserebbero dal forestiero,
come dal nazionale, e dal contemporaneo ec. Quando per lo contrario il
forestiero non solo non vi trova alcuna conformità coll’armonia della versificazione
sua nazionale, ma bene spesso non si accorge nè si può accorgere che quella
tale sia versificazione, se non se n’accorge per la materia, e per essere
scritta in linee distinte, o per la rima, che non ha punto che fare col ritmo,
nè colla misura.
(28.
Giugno 1821.)
Alla
p.1226. marg. fine. L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della
grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il
risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e senza
veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o elementi d’idee.
Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza
ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima
parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o quasi
tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che mancassero
assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già stabilito dagl’ideologi [1235]che
il progresso delle cognizioni umane consiste nel conoscere che un’idea ne contiene
un’altra (così Locke, Tracy ec.), e questa un’altra ec.; nell’avvicinarsi
sempre più agli elementi delle cose, e decomporre sempre più le nostre idee,
per iscoprire e determinare le sostanze (dirò così) semplici e universali che
le compongono (giacchè in qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni
meccaniche ancora ec. gli elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in
quanto non sono perfettamente semplici e primi); (v. in questo proposito la
p.1287. fine) così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere
idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle
idee madri, mediante l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto
naturalmente di queste idee madri, risolvendole nelle loro parti, elementari o
no (che il giungere agli elementi delle idee è l’ultimo confine delle
cognizioni); e distinguendo l’una parte dall’altra, con dare a ciascuna parte
distinta il suo nome, e formarne un’idea separata, laddove gli antichi
confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono oggi
altrettante distinte idee) in un’idea sola. Quindi la secchezza che risulta
dall’uso de’ termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa
scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della
poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente
nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato,
incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea
composta di molte parti, e legata [1236]con molte idee concomitanti; ma
non si ottiene colle parole precise o co’ termini (sieno filosofici, politici,
diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali
esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa. Nudità e secchezza
distruttrice e incompatibile colla poesia, e proporzionatamente, colla bella
letteratura.
P.e. genio nel senso francese, esprime un’idea ch’era compresa nell’ingenium, o
nell’ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti dell’idea
espressa da ingenium. E tuttavia quest’idea suddivisa, espressa da genio,
non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte idee, ed è
composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e distinguersi. Non è
idea semplice benchè non si possa facilmente dividere nè definire dalle parti,
o dal’intima natura. Lo spirito umano, e seco la lingua, va sin dove può; e l’uno
e l’altra andranno certo più avanti, e scopriranno coll’analisi le parti dell’idea
espressa da genio, ed applicheranno a queste parti o idee nuovamente
scoperte, cioè distinte, nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non è amor proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch’è la qualità del secolo, e in italiano non si può significare.
Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue moderne fin dai loro
principii, era voce sconosciuta in detto senso alle lingue antiche, e non però
era sconosciuta l’idea ec. ma non bene distinta da mente, animo ec. ec.
ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per quella facoltà sì
notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo con questi nomi,
ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benchè da esse derivino. Ed
altri nomi non avevano per dinotarla, sicchè anche queste parole
(italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine.
(28.
Giugno 1821.)
[1237]Nè solamente col progresso dello
spirito umano si sono distinte e denominate le diverse parti componenti un’idea
che gli antichi linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse
parti, o idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse
voci non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe ad
altre idee, non si sapevano per l’addietro distinguer da queste, e si
denotavano con una stessa voce, benchè fossero essenzialmente diverse e d’altra
specie o genere. V. p.e. quello che ho detto p.1199-200. circa il bello, e
quello ch’essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè appartiene alla
sfera della bellezza, benchè ne’ linguaggi comuni, si chiami bello, e l’intelletto
volgare non lo distingua dal vero bello.
Da
queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1. che quelli
i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità nelle lingue,
pretendono formalmente d’impedire l’andamento, e rompere il corso, e fermare
immobilmente e per sempre il progresso dello spirito umano, posto il quale, la
lingua necessariamente progredisce, e si arricchisce di parole sempre più
precise, distinte, sottili, uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238]vicendevolmente
senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e non d’altra,
che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il quale non può
stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue nuove scoperte e
osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove significazioni fisse, certe,
determinate, indubitabili, riconosciute; e di più, uniformi, perchè se non sono
uniformi, il progresso dello spirito umano sarà inevitabilmente ristretto a
quella tal nazione, che parla quella lingua dove si sono formate le dette nuove
parole; o a quelle sole nazioni che le hanno bene intese e adottate.
2. Che
tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll’essenza della poesia, e
l’abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in filosofia, o discorso di
scienze ec. la bella letteratura.
Già non
accade avvertire che tali parole universali in Europa, non riuscirebbero nè
nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai lettori italiani,
di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia non sieno
riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè ammesse ne’
Vocabolari. E di questo è cagione 1. l’uso giornaliero [1239]del parlare
italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di barbaro, che
l’uso di siffatte parole. 2. l’uso di molti scrittori italiani moderni, i quali
parimente vorrei che non meritassero altro rimprovero fuorchè di avere
adoperato tali voci. 3. l’intelligenza e l’uso del francese, familiare agl’italiani
come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel quale son ricevute e
comuni, e per via e mezzo del quale ci sono ordinariamente pervenute o tutte o
quasi tutte simili parole. Circostanza notabile e favorevolissima all’introduzione
di tali voci in nostra lingua, mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle
voci loro appartenenti, ci vengono pel canale di una lingua sorella, e già
ridotte in forma facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci
familiarizzato l’orecchio mediante l’uso fattone da essa lingua 1° sì comune in
Italia e per tutto, 2°. sì affine alla nostra.
(29.
Giugno, dì di S. Pietro. 1821.)
Spesso è
utilissimo il cercar la prova di una verità già certa, e riconosciuta, e non
controversa. Una verità isolata, come ho detto altrove, poco giova, massime al
filosofo, e al progresso dell’intelletto. Cercandone la prova, se ne conoscono
i rapporti, e le ramificazioni (sommo scopo della filosofia): e si scoprono
pure [1240]bene spesso molte analoghe verità, o ignote, o poco note, o
dei rapporti loro, sconosciuti ec.: si rimonta insomma bene spesso dal noto all’ignoto,
o dal certo all’incerto, o dal chiaro all’oscuro, ch’è il processo del vero
filosofo nella ricerca della verità. E perciò i geometri non si contentano di
avere scoperta una proposizione, se non ne trovano la dimostrazione. E Pitagora
immolò un’Ecatombe per la trovata dimostrazione del teorema dell’ipotenusa,
della cui verità era già certo, ed ognuno poteva accertarsene colla misura.
Però giova il cercare la dimostrazione di una verità già dimostrata da altri,
senza aver notizia della dimostrazione già fatta. Perchè i diversi ingegni
prendendo diverse vie, scoprono diverse verità e rapporti, benchè partendo da
uno stesso punto, o collimando a una stessa meta o centro ec.
(29.
Giugno 1821.)
Una
delle principali, vere, ed insite cagioni della vera e propria ricchezza e
varietà della lingua italiana, è la sua immensa facoltà dei derivati, che mette
a larghissimo frutto le sue radici. Osserviamo solamente le diverse formazioni
che dalle sue radici ella può fare de’ verbi frequentativi o diminutivi. Colla
desinenza in eggiare come da schiaffo, [1241]da vezzo,
da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare,
vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare, (e così da vano o
vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e spalleggiare ec. e
da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare);
in icciare come da arso arsicciare; in icchiare, come da canto
canticchiare; in ellare come da salto saltellare; in erellare,
come pur da salto salterellare, e da canto canterellare; in olare,
come da spruzzo spruzzolare, da vòlto voltolare, da rotare,
rinfocare, rotolare, rinfocolare, da giuocare, giuocolare, da muggire
o mugghiare, mugolare, muggiolare, mugiolare; in igginare, come
da piovere piovvigginare; in uzzare, come da taglio
tagliuzzare; in acchiare come da foro foracchiare; in ecchiare,
come da morso, roso, sonno, morsecchiare, rosecchiare, sonnecchiare; (e
così punzecchiare che anche si dice punzellare); in azzare
come da scorrere scorrazzare, da volare svolazzare; in eare
come da ruota o rotare roteare (che la Crusca chiama V. A. non so
perchè) alla spagnuola rodear, blanquear cioè biancheggiare e imbiancare
ec.; in ucchiare, come da bacio baciucchiare; in onzare
come da ballo ballonzare; ed in altri modi ancora, che neppur qui
finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi,
come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec. ovvero diminutivi de’
frequentativi o viceversa. E queste, e le altre formazioni sono di significato
certo, determinato, riconosciuto, convenuto e costante, in modo che vedendo una
tal formazione, e conoscendo il significato della voce originaria, s’intende
subito la modificazione che detta parola formata esprime, dell’idea espressa
dalla parola materna. La pazza idea per tanto (ch’è l’ultimo eccesso della
pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che
seccare una delle principali e più proprie ed innate sorgenti della ricchezza
di nostra lingua. V. [1242]in questo proposito p.1116-17. Io non dubito
(e l’esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà
certa stabile e definita ch’ella ha dei derivati, e nell’uso che ne sa fare, e
ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca. Alla
quale però si rassomiglia assai anche per questa moltiplicità di forme nelle
derivazioni che hanno un medesimo o simile significato, a differenza della
latina, non già povera, ma più regolata e con più certezza circoscritta in ciò,
come nel resto. V. la p.1134. fine. (29. Giugno 1821.). Queste sono le vere
cagioni e fonti per cui (se non le chiuderemo) la nostra lingua resterà sempre
superiore in ricchezza alle moderne, malgrado i nuovi vocaboli ec. particolari,
ch’elle vanno tuttogiorno acquistando. V. p.1292. capoverso 1.
Alla
p.302. principio. In prova di quello che ho detto della utilità che risulta ai
governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che non è luogo
dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque altra) sia più
rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno, come in quel paese dov’ella
è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che di più è la sua sede. (La
Spagna, come finora non civile, e fuori del mondo colto, non fa eccezione). E
proporzionatamente scendendo sì per le stesse province d’Italia più vicine o
più commercianti ec. con religioni diverse, sì per le diverse nazioni, come la
Francia ec. sino alla Germania e all’Inghilterra ec. si trova che dove la
religion cattolica o le altre cristiane, sono più avvilite, più vicine e
frammiste a religioni diverse e contrarie, sette ec. quivi appunto il loro
culto esterno ed interno è più che mai vivo, sodo, vero, efficace, e fermo.
(29.
Giugno 1821.)
[1243]Osserviamo il grand’effetto
prodotto nelle nostre sensazioni dalle piccole e minime differenze reali nella
statura degli uomini. Osserviamo pure la differenza delle proporzioni circa la
statura delle donne, e come una donna alta ci paia bene spesso di maggiore
statura che un uomo mediocre, e posta al paragone si trovi il contrario. ec.
Osserviamo finalmente che le stesse proporzionate differenze in altri oggetti
di qualunque genere, non sono mai capaci di produrre in noi gli stessi effetti,
nè proporzionati a quelli delle stature umane. E quindi inferiamo quanto la
continua osservazione ci renda sottili conoscitori, ed affini le nostre
sensazioni circa le forme esteriori de’ nostri simili: e come per conseguenza l’idea
delle proporzioni determinate non si acquisti se non a forza di osservazione, e
di abitudine; e quanto sia relativa, giacchè la menoma differenza reale, ci par
grandissima in questi oggetti, e menoma, qual è, in tutti gli altri. (30. Giugno
1821.).
Altre
cagioni di fatto della ricchezza e varietà della lingua italiana, oltre la
copia degli scrittori, come ho detto altrove sono
1. Il non aver noi mai rinunziato alle nostre [1244]ricchezze
di quantunque antico possesso, a differenza della lingua francese, a cui non
gioverebbe neppure l’avere avuta altrettanta copia di scrittori e di secoli
letterati, quanti noi. Neppure alla varietà, ed anche a quella ricchezza che
serve precisamente all’esatta espressione delle cose, gioverebbe alla lingua
francese l’avere avuto in questi due secoli dopo la sua rigenerazione, tanti e
più scrittori quanti noi in cinque secoli. Non le gioverebbe dico, quanto giova
alla nostra lingua la moltitudine dei secoli, e quindi la maggior varietà degli
scrittori, delle opinioni, de’ gusti, degli stili, delle materie da loro
trattate; varietà che non si può trovare nello stesso grado in due secoli soli,
benchè fossero più copiosi di scrittori, che questi 5. insieme: e varietà che
serve infinitamente alla ricchezza di una lingua, ed alla esattezza e minutezza
del suo poter esprimere, giacch’è stata applicata ad esprimere tanto più
diverse cose, da tanto più diversi ingegni, e più diversamente disposti; e in
tanto più diversi modi. Neppure la lingua tedesca ha rinunziato alle sue
antiche ricchezze e possedimenti, come si vede nel Verter, abbondante di
studiati e begli ed espressivi arcaismi.
[1245]2. La gran vivacità, immaginosità,
fecondità, e varietà degl’ingegni degli scrittori nostri, qualità proprie della
nazione adattabile a ogni sorta di assunti, e di caratteri, e d’imprese, e di
fini.
3. Il moltissimo che la nostra lingua scritta,
(giacchè della ricchezza e varietà di questa intendiamo parlare, e questa
intendiamo paragonare colle straniere) ha preso dalla lingua parlata e
popolare. Or come ciò, se io dico, che la principale, anzi necessaria fonte
della ricchezza e perfezione di una lingua, sono gli scrittori, e questi,
letterati? Ecco il come.
Ho
detto, ed è vero, che la convenzione, sola cosa che può render parola una
parola, cioè segno effettivo di un’idea, non può mai esser molto estesa, nè
uniforme e regolata, nè nazionale, se non per mezzo della letteratura. Ma un
popolo, massimamente vivacissimo come l’italiano, e in particolare il toscano,
e di più, civilizzato assai (qual fu il toscano e l’italiano fra tutti i popoli
Europei, e prima di tutti), e posto in gran corrispondenza cogli altri popoli
(come appunto la Toscana, sì per la fama della sua coltura, sì per le
circostanze sue politiche, la sua libertà, e specialmente il suo commercio)
[4]
[1246]inventa naturalmente, o adotta, infinite parole, infinite
locuzioni, e infiniti generi e forme sì di queste che di quelle, l’uso però e l’intelligenza
delle quali, se non sono ricevute dalla letteratura, la quale le diffonde per
la nazione, ne stabilisce la forma, ne precisa il significato, ne assicura la
durata, poco si estendono, poca precisione acquistano, restano facilmente
incerte, ondeggianti, e arbitrarie, e presto si perdono, sottentrandone delle
nuove. V. p.1344. Ora la letteratura italiana ha fatto appunto quello che ho
specificato. Ha ricevute con particolare, e fra tutte le letterature singolar
cura, amorevolezza e piacere, le voci, i modi, le forme del popolo segnatamente
toscano: e da questo è venuto
1. Che le parole modi ec. che sarebbero state
proprie di una sola provincia, e bene spesso di una sola città ed anche meno,
ricevute e accarezzate e stabilite nell’uso letterario, prima dagli scrittori
di quella provincia ec. poi da quelli che vi andavano per imparar la lingua, o
a qualunque effetto, poi dalla totalità degli scrittori italiani, son divenute
italiane, di toscane o altro che erano. Ed è avvenuto questo alle toscane più
che alle altre, perchè i primi buoni scrittori italiani sono stati di quel
paese, e ne hanno diffuso e stabilito nella letteratura italiana [1247]le
parole ec. ed anche perchè quel dialetto forse ancora per se stesso, era più
grazioso, ed anche meno irregolare, meno goffo e meno storpiato e barbaro degli
altri, e meno difforme a se stesso, nelle strutture, nelle forme delle parole e
modi ec.
2. Non essendo mai cessato negli scrittori
toscani e italiani lo studio e l’imitazione competente (gli abusi ora non si
contano) della favella popolare, massime toscana (a differenza di quello ch’è
accaduto in tutte le altre letterature un poco formate); n’è seguito che la
lingua italiana presente, mediante la sua letteratura, sia ricca delle parole,
modi ec. venuti in uso in uno de’ suoi popoli più vivaci, immaginosi e
inventivi, dal principio della lingua fino al di d’oggi: parole e modi ec. che
non avrebbero avuto se non cortissima durata, e pochissima estensione, se non
fossero state adottate e stabilite dalla letteratura, che le ha fatte e
perpetue, e nazionali. E così la letteratura e non il popolo, anche riguardo
alle voci popolari, viene ad essere la vera e principale sorgente della
ricchezza e perfezione di nostra lingua.
3. Gridino a piacer loro i mezzi filosofi.
Ricchezza che importi varietà, bellezza, espressione, efficacia, forza, brio,
grazia, facilità, mollezza, naturalezza, non l’avrà mai, non l’ebbe e non l’ha
veruna lingua, che non abbia moltissimo, [1248]e non da principio
soltanto, ma continuamente approfittato ed attinto al linguaggio popolare, non
già scrivendo come il popolo parla, ma riducendo ciò ch’ella prende dal popolo,
alle forme alle leggi universali della sua letteratura, e della lingua
nazionale. La precisione filosofica non ha punto che fare con veruna delle
dette qualità: e la ricchezza filosofica e logica, cioè di parole precise ec. e
di modi geometrici ec. serve bensì al filosofo, è una ricchezza, ed è
necessaria, ma non importa veruna delle dette qualità, anzi serve loro di
ostacolo, e bene spesso, com’è avvenuto al francese, ne spoglia quasi affatto
quella lingua, che già le possedeva. Tutte le dette qualità sono
principalissimamente proprie dell’idioma popolare; e se la lingua italiana
scritta, si distingue in ordine ad esse qualità, fra tutte le altre moderne; se
è ricca fra tutte le moderne, ed anche le antiche di quella ricchezza che
produce e contiene le dette qualità; ciò proviene dall’aver la lingua italiana
scritta (forse perchè poco ancora applicata alla filosofia, e generalmente poco
moderna), attinto più, e più durevolmente che qualunque altra, al linguaggio popolare.
Le ragioni per cui questo linguaggio, abbia sempre, e massime in un popolo
vivacissimo, sensibilissimo, e suscettibilissimo, le dette qualità, più [1249]che
qualunque altro linguaggio, sono abbastanza manifeste da se. Quella ricchezza
proprissima della lingua italiana, e maggiore in lei che nella stessa greca e
latina, della quale ho parlato p.1240-42. non da altro deriva che dall’idioma
popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla
letteratura.
4. Con questi vantaggi vennero anche dalla
stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente, e conveniamo in questo
cogli scrittori che oggidì alzano contro di essi la voce in Italia, senza
convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua, non debba per
necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l’idioma popolare.
Dico della bellezza, ec. la quale conviene alla vera poesia, ed alla bella
letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene
alle scienze ec. Negando questo, io non so com’essi ammirino tanto p.e. il
Caro, la massima parte delle cui verissime finissime e carissime bellezze, sì
nelle prose, come ne’ versi dell’Eneide, ognun può vedere a prima giunta che
derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano
volgare, (o anche degli altri volgari d’Italia, v. Monti, Proposta, vol.1.
par.1. p. XXXV.) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi
generi della letteratura, dai più bassi fino ai più alti, dalle lettere
familiari, fino all’Epopea. Del resto, ben fecero gli scrittori italiani
attingendo al volgare toscano più che agli altri volgari d’Italia, e ciò [1250]per
le ragioni che tutti sanno, e che abbiam detto p.1246. fine-47. principio. Ma
sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa
attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non
come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana
dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in
nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve se le pare); che in Toscana e
fuori, lo scrittore italiano non possa formar voce nè frase, che il volgo
toscano non usi; che in somma quello che non è toscano, anzi fiorentino, anzi
pure di Mercato vecchio, non sia italiano. Quando, come abbiamo veduto, non la
letteratura al volgo, ma il volgo è totalmente subordinato alla letteratura, e
quello è ai servizi, e giova ai comodi di questa, e non già questa di quello. E
la letteratura forma e dispone della favella che prende dal volgo, e non
viceversa. E le aggiunge quel che le piace, e se ne serve, sin dove può, e dove
la favella del volgo non le può servire, l’abbandona, o in parte o in tutto. In
somma abbiamo lodato la lingua italiana scritta perchè ha saputo giovarsi del
linguaggio popolare, più e meglio forse [1251]di qualunque altra lingua
moderna, e perchè non l’ha mai licenziato da’ suoi servigi, come hanno fatto si
può dir tutte le altre (anche la greca dopo un certo tempo, e lo farebbe anche
l’italiana, se non la richiamassimo, anzi lo andrebbe già facendo); non già
perch’ella si sia sottomessa alla favella del volgo, molto meno del volgo di
una sola provincia o città, che nè essa l’ha fatto o potuto fare, nè facendolo
sarebbe stata superiore, ma inferiore a tutte le altre, nè noi l’avremmo lodata
ma sommamente biasimata. Da tutto ciò segue ancora che la lingua italiana
scritta, può servirsi di qualunque altro volgare (come faceva la lingua greca,
anzi la stessa attica); e che è pazzo il privilegio esclusivo che si arrogano i
toscani sulla lingua comune; se non in quanto non si possano torre da questi
volgari quelle cose che non convengono a detta lingua comune.
Parimente
soggiungo. Molti scrittori toscani e italiani hanno preso dal volgare toscano
più di quello che ne potessero prendere, che fosse intelligibile o aggradevole
ec. da per tutto, che convenisse all’indole e alle forme della lingua italiana
regolata e scritta, che potesse comunicarsi [1252]alla nazione, e di
toscano e provinciale divenir nazionale e italiano, che riuscisse nobile e
adattato a una lingua scritta e ad una letteratura non più da formarsi, ma
formata. Han fatto malissimo, e se non vanno confusi cogli altri scrittori
vernacoli, certo però non s’hanno da tenere per italiani ma per toscani o
fiorentini o sanesi, e per iscrittori non già nazionali, ma provinciali, ovvero
anche, se così posso dire, oppidani.
Così
discorro di tutti simili abusi, e negli scrittori e nel Vocabolario ec.
Nessuno
è meno filosofo di chi vorrebbe tutto il mondo filosofo, e filosofica tutta la
vita umana, che è quanto dire, che non vi fosse più vita al mondo. E pur questo
è il desiderio ec. de’ filosofastri, anzi della maggior parte de’ filosofi
presenti e passati.
Così i
nostri mezzi filosofi italiani, sapendo bene che il volgo non può essere il
legislatore della favella scritta, nè la lingua volgare può mai bastare ai
progressi dello spirito umano, nè alla fissazione, determinazione, distinzione
e trasmissione delle cognizioni; perciò pretendono che qualunque lingua
scritta, e qualunque stile debba appartarsi affatto dal volgare, ed escludono
affatto il volgare dallo scritto, non avendo bastante filosofia per distinguere
il bello dal vero, e quindi la letteratura e la poesia dalle scienze; e vedere
che prima fonte del bello è la natura, la quale a nessun altro genere di uomini
parla sì vivamente, immediatamente, [1253]e frequentemente, e da nessuno
è così bene, e felicemente, e così al vivo e propriamente espressa, come dal
volgo. La precisione toglietela dai filosofi. La proprietà, e quindi l’energia,
la concisione ben diversa dalla precisione, e tutte le qualità che
derivano dalla proprietà, non d’altronde le potrete maggiormente attingere che
dalla favella popolare. E il Lipsio (Epistolica Institutio, cap.11.)
consigliando lo studio di Cicerone sopra tutti per la eleganza, la soavità, la
copia, la facilità del latino, consiglia i comici Plauto e Terenzio, come unici
o principali mezzi d’imparare la proprietà d’esso sermone. Puoi vedere
p.1481-84.
Da
quanto abbiamo detto sulla differenza essenziale della lingua poetica e
letterata dalla scientifica, risulta che la lingua francese, che nei suoi modi
quasi geometrici si accosta alla qualità di quelle voci che noi chiamiamo
termini, e di più, massimamente oggi, abbonda quasi più di termini, o pressochè
termini, che di parole, è di sua natura incapace di vera poesia, e di veramente
bella letteratura: mancando del linguaggio di queste, che non può non essere
sostanzialmente segregato da quello delle scienze. Termini o quasi termini,
chiamo io anche le voci di conversazione, e d’altri tali generi, di cui la
lingua francese, è sì ricca, e che esprimono in qualsivoglia materia, un’idea
nuda, o quasi nuda, secca, precisa, e precisamente.
[1254]La facilità di contrarre abitudine,
qualità ed effetto essenziale de’ grandi ingegni, porta seco per naturale
conseguenza ed effetto la facilità di disfare le abitudini già contratte,
mediante nuove abitudini opposte che facilmente si contraggono; e quindi la
potenza sì della durevolezza, come della brevità delle abitudini.
Osservate
quegli abiti o discipline che hanno bisogno di un esercizio materiale, p.e. di
mano, per essere imparate. Chi vi ha gli organi meglio disposti, o generalmente
più facili ad assuefarsi, riesce ad acquistare quell’abilità in più breve tempo
degli altri. Ecco tutto l’ingegno. Organi facili ad assuefarsi, cioè
pieghevoli, e adattabili ec. o generalmente e per ogni verso, e questa è la
universalità di un ingegno; o solamente ovvero principalmente in un certo modo,
e questa è la disposizione dell’ingegno a una tal cosa, o la sua capacità di
riuscire principalmente in quella.
Ma
siccome altri sono gli organi interiori, altri gli esteriori, così un uomo di
grande ingegno, sarà bene spesso inettissimo ad acquistare abilità meccaniche,
cioè assuefazioni materiali; e viceversa.
Io nel
povero ingegno mio, non ho riconosciuto altra differenza dagl’ingegni volgari,
che una facilità [1255]di assuefarlo a quello ch’io volessi, e quando io
volessi, e di fargli contrarre abitudine forte e radicata, in poco tempo.
Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; un pensatore,
acquistar subito l’abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o
ben presto imitare ec.; una maniera di tratto che mi paresse conveniente,
contrarne l’abitudine in poco d’ora ec. ec. V. p.1312. Il volgo che spesso
indovina, e nelle sue metafore esprime, senza saperlo, delle grandi verità, e
dei sensi piuttosto propri che metaforici, sebben tali nell’intenzione, chiama
fra noi, (e s’usa dire familiarmente anche fra i colti, ed anche scrivendo)
testa o cervello duro (cioè organi non pieghevoli, e quindi non facili ad
assuefarsi) chi non è facile ad imparare. L’imparare non è altro che
assuefarsi.
Io credo
che la memoria non sia altro che un’abitudine contratta o da contrarsi da
organi ec. Il bambino che non può aver contratto abitudine, non ha memoria,
come non ha quasi intelletto, nè ragione ec. E notate. Non solo non ha memoria,
perchè poche volte ha potuto ricevere questa o quella impressione, ed
assuefarsi a richiamarla colla mente. Ma manca formalmente della facoltà della
memoria, giacchè nessuno si ricorda delle cose dell’infanzia, quantunque le
impressioni d’allora sieno più vive che mai, e quantunque nell’infanzia possa
essere ritornata al bambino quella tale impressione, più volte ancora di quello
che bisogna all’uomo fatto perchè un’impressione o concezione qualunque gli
resti nella memoria. Questa idea, merita di essere largamente sviluppata e
distinta.
[1256]Se intorno alla bellezza umana,
molte cose si trovano nelle quali o tutti o quasi tutti gli uomini convengono,
questo non è giudizio, ma senso, inclinazione ec. ec. e non ha che fare col
discorso astratto e metafisico della bellezza. Le donne che Omero chiama baJækolpoi. (Il. s. (18.) v.122. 339. v. (24.) v.215. Hymn. in Vener. 4. v.258. quivi delle
ninfe montane.) parranno a tutto il mondo più belle delle contrarie. La cagione
è manifesta, e non accade dirla. Certo non è questa nè il tipo della bellezza,
nè un’idea innata, nè un giudizio, una ragione ec. I fanciulli staranno molto
tempo ad avvedersi che quella qualità che ho detto sia bellezza, e a far
distinzione di beltà fra una donna che l’abbia, e un’altra che ne sia priva. Nè
solo i fanciulli, ma anche i giovani mal pratici, e poco istruiti di certe
cose, quantunque assuefatti a vedere; i giovani modestamente educati ec.; del
che interrogo la testimonianza di molti. Le donne tarderanno assai più ad
avvedersi di questa cosa, e non concepiranno per lungo tempo nè giudizio nè
senso di bellezza differente, fra due donne ec. V. p.1315.fine.
E
tuttavia questa qualità ch’io dico, passa [1257]ben tosto nel bello
ideale, e il poeta, (come appunto Omero), o il pittore che tira dalla sua mente
(come dice Raffaello ch’egli faceva) l’idea di una bellezza da rappresentare,
non mancherà certo di concepire l’idea di una donna o donzella baJækolpow. E pur l’origine di questa idea sarà tutt’altra che il tipo della
bellezza, ed un giudizio o forma innata, universale e impressa dalla natura nella
mente dell’uomo. Così facile è l’ingannarsi nel giudicare delle idee che l’uomo
ha circa il bello preteso assoluto. V. p.1339. Similmente discorro di altre
simili qualità esteriori dell’uomo o della donna.
Così
della vivacità degli occhi, o di qualunque espressione dell’anima che apparisca
nel volto, il che però quando anche tutti convengano che sia bellezza, non
tutti però convengono nel preferirlo alla languidezza, e anche alla
melensaggine ec. Non so neppure se quelle donne inglesi che si paragonano ai
silfi, e si giudicano da molti sì belle, e si antepongono ec. appartengano al
numero di quelle significate da Omero ne’ citati luoghi.
Ed
osservo, cosa manifesta per l’esperienza, che la donna (ancor prima di essere
suscettibile d’invidia per cagione della bellezza) tarda molto più degli uomini
a poter formare un giudizio fino e distinto circa le forme esteriori del suo
sesso, e non giunge mai a quella perfezione di giudizio e di gusto, a cui gli
uomini arrivano. Così viceversa discorrete degli uomini rispetto al sesso loro.
Intendo già in parità di circostanze, e non di paragonare, per esempio, una donna
molto riflessiva ec. ec. a un uomo torpido, e poco o niente suscettibile ec.
Giacchè in tal caso, ognuno intende che quella tal [1258]donna ben
facilmente sarà miglior giudice delle forme del suo stesso sesso che questo tal
uomo.
(1.
Luglio 1821.)
Osservate
i differentissimi, e spesso contrarissimi giudizi delle diverse nazioni, o
province, e de’ diversi tempi, e di una stessa nazione o provincia in diverso
tempo, circa la bellezza e grazia del portamento delle diverse classi di
persone, delle maniere di stare di andare di sedere di gestire di presentarsi
ec. e circa le stesse creanze, eccetto quelle che sono determinate e prescritte
dalla ragione, e dal senso comune. Intorno alle quali cose possiamo dire che
non c’è maniera giudicata bellissima e graziosissima e convenientissima in un
luogo o in un tempo, che in altro luogo o tempo, non sia, non sia stata, o non
sia per esser giudicata bruttissima, sconveniente, di mal garbo ec. Certo è che
intorno alla bellezza del portamento dell’uomo, nessuno può stabilire veruna
regola, veruna teoria, veruna norma, verun modello assoluto. Non parlo delle
mode del vestire, intorno alla bellezza del quale, e degli uomini per rispetto
ad esso, varia il giudizio secondo i paesi e i tempi, anzi pure secondo i
territorii, e i momenti, senza veruna dipendenza neppur dalla natura costante e [1259]universale.
(1
Luglio 1821.).V. p.1318. fine.
Spesso
nel vedere una fabbrica, una chiesa, un oggetto d’arte qualunque, siamo colpiti
a prima giunta da una mancanza, da una soprabbondanza, da una disuguaglianza,
da un disordine o irregolarità di simmetria ec. ed appena che abbiamo saputo o
capito la ragione di questo disordine, e com’esso è fatto a bella posta, o non
a caso, nè per negligenza, ma per utilità, per comodo, per necessità ec. non
solo non giudichiamo, ma non sentiamo più in quell’oggetto veruna sproporzione,
come la concepivamo e sentivamo e giudicavamo a primo tratto. Non è dunque
relativa e mutabile l’idea delle proporzioni e sproporzioni determinate? E
perchè sentivamo noi e formavamo in quel primo istante il giudizio della
sproporzione o sconvenienza? Per l’assuefazione, la quale in noi ha questa
proprietà naturale, che ci fa giudicar di una cosa sopra un’altra, di un
individuo, di una specie, di un genere stesso sopra un altro, e quindi di una
convenienza sopra un’altra. Dal che deriva l’errore universale, non solo del
bello assoluto, ma della verità assoluta, del misurare tutti i nostri simili da
noi stessi, della perfezione assoluta, del credere che tutti gli esseri vadano
giudicati sopra una sola norma, e quindi del crederci più perfetti d’ogni altro [1260]genere di esseri, quando non si dà perfezione comparativa fuori
dello stesso genere, ma solamente fra gl’individui ec.
(1
Luglio 1821.)
Si può
però ammettere una perfezione comparativa fra i diversi generi di cose, dentro
il sistema di questa tal natura, o modo universale di esistere: ma una
perfezione comparativa assai larga, e molto meno stretta e precisa di quello
che l’uomo e il vivente qualunque si figuri naturalmente; e non mai assoluta,
perchè assoluta non potrebb’essere se non in ordine al sistema intiero ed
universale di tutte le possibilità. Questo pensiero ha bisogno di esser
ponderato, svolto, dilatato, e rischiarato.
(1
Luglio 1821.)
A quello
che altrove ho detto circa l’impossibilità di far bene quello che si fa con
troppa cura, si può aggiungere quello che dice l’Alfieri nella sua Vita della matta
attenzione ch’egli poneva a tutte le minuzie nelle sue prime letture e
studi de’ Classici: e quello che ci avviene p.e. nello studio delle lingue. Nel
quale osservate che da principio per la somma attenzione che ponete a ogni
menoma cosa, leggendo in quella tal lingua, vi riescono gli scrittori sempre
(più o meno) difficili. Laddove bene spesso, se si dà il caso, che [1261]voi
abbiate intralasciato per qualche tempo lo studio di quella lingua, e perduto l’abito
di quella minuta attenzione, ripigliando poi a leggere in detta lingua qualche
pagina, e credendo di trovarci maggior difficoltà per l’interrompimento dell’esercizio,
vi trovate al contrario molto più spedito di prima. Così pure, senza averla
intralasciata, ma solamente pigliando a leggere qualche cosa in detta lingua
non con animo di studio o di esercizio, ma solo di passare il tempo, o
divertirvi, o in qualunque modo con intenzione alquanto, più o meno,
rilasciata. Così dopo avere o credere di aver già imparata quella lingua,
quando leggiamo non più come scolari, ma disinvoltamente e come semplici
lettori. Nel qual tempo trovando forse difficoltà reali maggiori di quando
leggevamo per istudio, non ci fanno gran caso, nè c’impediscono e trattengono
più che tanto, nè ci tolgono una spedita facilità. In somma non si arriva mai a
leggere speditamente una lingua nuova, se non quando si lascia l’intenzione di
studioso per prendere quella di lettore, e durando la prima, solamente per sua
cagione, ed anche senza veruna difficoltà reale, [1262]si trovano sempre
intoppi, che altri non troverà nelle stesse circostanze, e colla stessa
perizia, ma con diversa intenzione. Così non si trova piacere, nè facilità,
nella semplice lettura, anche in nostra lingua, quando si legge con troppo
studio ec.
A quello
che ho detto altrove della impossibilità di formarsi idea veruna al di là della
materia, e del nome materiale imposto allo stesso spirito e all’anima,
aggiungete che noi non possiamo concepire verun affetto dell’animo nostro se
non sotto forme o simiglianze materiali, nè dargli ad intendere se non per via
di traslati presi dalla materia (sebbene alle volte abbiano perduto col tempo
il significato proprio e primitivo per ritenere il metaforico), come
infiammare, confortare, muovere, toccare, inasprire, addolcire, intenerire,
addolorare, innalzar l’animo ec. ec. Nè solo gli affetti ma gli accidenti tutti
o siano prodotti da cose interiori, o dall’azione immediata degli oggetti
esteriori, come costringere, ed altri de’ sopraddetti ec.
Passano
anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una sensazione pur momentanea
di piacere. Il fanciullo non passa giorno che non ne provi. Qual è la cagione?
La scienza in noi, in lui l’ignoranza. Vero è che così viceversa accade del
dolore.
(2.
Luglio 1821.)
[1263]Alla p.1207. marg. Queste
differenze s’incontrano a ogni passo dentro una medesima nazione, secondo i
dialetti ec. Ed osserviamo ancora come l’assuefazione e l’uso ci renda
naturale, bella ec. una parola che se è nuova, o da noi non mai intesa ci parrà
bruttissima deforme, sconveniente in se stessa e riguardo alla lingua,
mostruosa, durissima, asprissima e barbara. Per es. se io dicessi precisazione moverei le risa: perchè? non già per la natura della parola, ma perchè non
siamo assuefatti ad udirla. E così le parole barbare divengono buone coll’uso;
e così le lingue si cambiano, e i presenti italiani parlano in maniera che
avrebbe stomacato i nostri antenati; e così l’uso è riconosciuto per sovrano
signore delle favelle ec.
(2.
Luglio 1821.)
Alla
p.1134. Lo studio dell’etimologie fatto coi lumi profondi dell’archeologia, per
l’una parte, e della filosofia per l’altra, porta a credere che tutte o quasi
tutte le antiche lingue del mondo, (e per mezzo loro le moderne) sieno derivate
antichissimamente e nella caligine, anzi nel buio de’ tempi immediatamente, o
mediatamente da una sola, o da pochissime lingue assolutamente primitive, madri
di tante e sì diverse figlie. Questa primissima lingua, a quello che pare,
quando si diffuse per le diverse parti del globo, mediante le trasmigrazioni
degli uomini, era ancora rozzissima, scarsissima, priva d’ogni sorta d’inflessioni,
inesattissima, costretta a significar cento cose con [1264]un segno
solo, priva di regole, e d’ogni barlume di gramatica ec. e verisimilissimamente
non applicata ancora in nessun modo alla scrittura. (Se mai fosse già stata in
uso la così detta scrittura geroglifica, o le antecedenti, queste non
rappresentando la parola ma la cosa, non hanno a far colla lingua, e sono un
altro ordine di segni, anteriore forse alla stessa favella; certo, secondo me,
anteriore a qualunque favella alquanto formata e maturata.) Nè dee far
maraviglia che la grand’opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo
che vi pensa, e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di
ciascuna parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i
suoni umani a un ristrettissimo numero di segni detto alfabeto, abbia fatto
lentissimi progressi, e non prima di lunghissima serie di secoli, abbia potuto
giungere a una certa maturità; non ostante che l’uomo fosse già da gran tempo
ridotto allo stato sociale. Quanto all’alfabeto o scrittura par certo ch’egli
fosse ben posteriore alla dispersione del genere umano, sapendosi che molte
nazioni già formate presero il loro alfabeto da altre straniere, come i greci
dai Fenici, i latini ec. Dunque non era noto prima ch’elle si disperdessero, e
dividessero, giacch’elle da principio non ebbero alcun alfabeto. E i Fenici l’ebbero
pel loro gran commercio ec. Dunque esistendo il commercio, le nazioni erano, e
da gran tempo, divise.
Diffondendosi
dunque pel globo il genere umano, e portando con se per ogni parte quelle
scarsissime e debolissime convenzioni di suono significante, che formavano
allora la lingua; si venne stabilendo nelle diverse parti, e la società
cominciò lentissimamente a crescere e camminare verso la perfezione. Primo e
necessario mezzo per l’una parte, e per l’altra effetto di questa, è la
sufficienza e l’organizzazione della favella. Venne dunque lentamente [1265]a
paro della società, crescendo e formandosi la favella, sempre sul fondamento o
radice di quelle prime convenzioni, cioè di quelle prime parole che la
componevano. Queste erano dappertutto uniformi, ma le favelle formate non
poterono essere uniformi, nè conservarsi l’unità della lingua fra gli uomini.
Primieramente dipendendo la formazione della favella in massima parte dall’arbitrio,
o dal caso, e da convenzione o arbitraria o accidentale, gli arbitri e gli
accidenti, non poterono essergli stessi nelle diversissime società stabilitesi
nelle diversissime parti del globo, quando anche esse avessero tutte conservato
gli stessi costumi, le stesse opinioni, le stesse qualità che aveva la
primitiva e ristrettissima società da cui derivavano; e quando anche tutte le
parti del globo avessero lo stesso clima e influissero per ogni conto sopra i
loro abitatori in un modo affatto uniforme.
Secondariamente
il genere umano diviso, e diffuso pel mondo, si diversificò nelle sue parti
infinitamente, non solo quanto a tutte le altre appartenenze della vita umana,
e de’ caratteri ec. ma anche quanto alle pronunzie, alle qualità de’ suoni
articolati, e degli alfabeti parlati, diversissimi secondo i climi ec. ec. come
vediamo. Queste infinite [1266]differenze sopravvenute al genere umano,
già diviso in nazioni, e distribuito nelle diverse parti della terra, fecero sì
che la formazione delle lingue presso le nazioni primitive, differisse
sommamente, quantunque tutte derivassero da una sola e stessa radice, e
conservassero nel loro seno i pochi e rozzi elementi della loro prima madre,
diversamente alterati collo scambio delle lettere, secondo le inclinazioni
degli organi di ciascun popolo, colle inflessioni, colle significazioni
massimamente, colle composizioni, e derivazioni, e metafore infinite e
diversissime di cui l’uomo naturalmente si serve a significare le cose nuove o
non ancora denominate ec. ec.
Nel
terzo luogo, la lingua primitiva, dovette immancabilmente servirsi delle stesse
parole per significare diversissime cose, scarseggiando di radici, e mancando o
scarseggiando d’inflessioni, di derivati, di composti ec. La lingua ebraica, l’una
delle lingue scritte più rozze, e lingua antichissima, serve di prova di fatto
a questo ch’io dico, e che è chiaro abbastanza per la natura delle cose. Ora i
diversi popoli nella formazione progressiva delle lingue, trovando qual per un
verso, qual per un altro, il modo di significar le cose più distintamente,
conservarono alle loro prime parole radicali dove uno [1267]dove un
altro de’ sensi che ebbero da principio, o fossero propri, o traslati. Così che
non è da far maraviglia se bene spesso in diversissime lingue si trovano tali e
tali radici uniformi o somiglianti nel suono, ma disparatissime nel
significato. Nè la disparità del significato è ragion sufficiente per decidere
che non hanno fra loro alcuna affinità. Ci vuole il senno e la sottigliezza del
filosofo, e la vasta erudizione e perizia del filologo, dell’archeologo, del
poliglotto, per esaminare se e come quella tal radice potesse da principio
riunire quei due o più significati diversi. Chi non vede p.e. che wolf,
voce che in inglese e in tedesco significa lupo, è la stessa che volpes
o vulpes, che significa un altro quadrupede pur selvatico, e dannoso
agli uomini? Frattanto la detta osservazione dimostra la immensa differenza che
appoco appoco dovette nascere fra le varie lingue, e l’infinita oscurazione che
ne dovette seguire del linguaggio primitivo e comune una volta, ma già non più
intelligibile nè riconoscibile. (V. la p.2007. principio.)
Nel
quarto luogo che dirò della scrittura?
1. O della sua mancanza (giacchè è più che
verisimile che quando gli uomini e le lingue si divisero e sparsero, non si
avesse ancora nessuna notizia della scrittura alfabetica, nè di segno alcuno de’
suoni, trattandosi che la lingua stessa allora parlata, era così bambina
come abbiamo probabilmente conghietturato dagli effetti); mancanza che toglieva
ogni [1268]stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni
esattezza, alle parole, ai modi, alle significazioni; e lasciava la favella
fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza nè freno,
nè guida, nè norma. Dal che quante variazioni derivino, lo può vedere chiunque
osservi i dialetti ne’ quali sempre o quasi sempre si divide una stessa lingua
parlata, quantunque già formata e applicata alla scrittura; e insomma le
infinite diversità che a seconda de’ tempi e de’ luoghi patisce quella lingua
che il popolo parla, ancorchè ella stessa sia pure scritta ec. Che se da questo
che noi vediamo, rimonteremo a quello che doveva essere in quei tempi, dove l’ignoranza
dell’uomo era somma, somma l’incertezza e l’ondeggiamento di tutta la vita, ec.
ec. potremo facilmente vedere, che cosa dovessero divenire, e quante forme
prendere o la lingua primitiva o le sottoprimitive, mancanti dell’appoggio, e
dell’asilo non pur della letteratura, ma della stessa scrittura alfabetica.
2. Che dovrò dire dell’invenzione della
scrittura? Pensate voi stesso, nella prima imperfezione di quest’arte
prodigiosa e difficilissima; nella differenza degli alfabeti, o nella
inadattabilità dell’alfabeto scritto di un popolo, all’alfabeto parlato di un
altro; [1269]nella imperizia de’ lettori, e degli scrittori, e de’ primi
copisti ec. ec. pensate voi quali incalcolabili e inclassificabili alterazioni
dovessero ricevere le prime lingue, sì come scritte, sì come parlate,
cominciando a influir la scrittura sulla favella.
Notate
cosa notabilissima. Tutte le lingue antiche non ci possono essere pervenute se
non per mezzo della scrittura, giacchè quando anche non sieno interamente
morte, il corso de’ secoli porta sì enormi variazioni alle lingue, che dal modo
in cui ora si parli una lingua antichissima, chi può sicuramente argomentare
delle sue antiche proprietà, ancor dopo formata? Ora egli è certo che le lingue
scritte differirono sommamente dalle parlate, stante la difficoltà che nel
principio si dovè provare per rappresentare esattamente ciascun suono ec.
Difficoltà che produsse infallibilmente eccessive differenze fra le antiche
parole scritte e le pronunziate. Differenze che appoco appoco si stabilirono; e
malgrado le cure che si posero per una parte ad uniformare più esattamente i
segni scritti ai suoni inventando nuovi segni ec. ec.; malgrado l’influenza che
acquistarono le scritture sulle modificazioni del parlare ec. certo è che tali
differenze dove più dove meno dovettero perpetuarsi e sempre conservarsi.
[1270]Quindi considerate i pericoli che
si corrono nell’argomentare le proprietà di un’antica parola, e la sua prima
forma, dal modo in cui solamente ella ci può esser nota, dal modo cioè nel
quale è scritta. Come chi argomentasse della lingua inglese o francese ec. dal
modo in cui sono scritte. Non c’è regola per sapere precisamente qual fosse il
valore e la pronunzia di un tal carattere in una lingua antica, e massime antichissima,
e massime antichissimamente ec. ec. Quindi è ben verisimile che moltissime
parole d’antiche lingue, che vedendole scritte ci paiono diversissime e
disparate, ci dovessero parere del tutto affini, se sapessimo qual vera e
primitiva pronunzia si volle antichissimamente rappresentare con quei tali
segni che vediamo. V. p.1283.
Aggiungete
un’osservazione che cresce forza all’argomento. L’invenzione dell’alfabeto è sì
maravigliosa e difficile, che è ben verisimile, che quel primo alfabeto che fu
inventato passasse dalla nazione e dalla lingua che l’inventò, a tutte o quasi
tutte le altre; e quindi o tutti o quasi tutti gli alfabeti derivino da un solo
alfabeto primitivo. Quello ch’è certo e costante si è che l’alfabeto Fenicio,
il Samaritano, l’Ebraico, il Greco, l’arcadico, il pelasgo, l’Etrusco, il
latino, il Copto, senza [1271]parlare di non pochi altri (come il
Mesogotico, il Gotico, e il tedesco, l’Anglosassone, il russo) dimostrano
evidentemente l’unità della loro comune origine. Or quali lingue più disparate
che p.e. l’ebraica e la latina? (Pur ebbero, come vediamo, lo stesso alfabeto
in principio.) Tanto che Sir W. Jones, il quale fa derivare da una stessa
origine le lingue, e le religioni popolari della prima razza de’ Persiani e
degli Indiani, dei Romani, dei Greci, dei Goti, degli antichi Egizi o Etiopi,
tiene per fermo che gli EBREI, gli Arabi, gli Assirii, ossia la
seconda razza Persiana, i popoli che adoperavano il Siriaco, ed una numerosa
tribù d’Abissinii, parlassero tutti un altro dialetto primitivo, diverso
affatto dall’idioma pocanzi menzionato, cioè di quegli altri popoli. Così
che, eccetto quella prima nazione, dove fu ritrovato l’alfabeto, in qualunque
modo ciò fosse, tutte le altre, o tutte quelle che immediatamente o
mediatamente lo ricevettero da lei, scrissero con alfabeto forestiero. Ed
essendo infinita in tante nazioni la varietà de’ suoni ec. ec. vedete che
immense alterazioni dovè ricevere ciascuna lingua nell’essere applicata a un
solo alfabeto, per lei più o meno, e bene spesso estremamente forestiero. V.
p.2012. 2619.
A tutte
le sopraddette cose aggiungete le alterazioni molto maggiori che ricevettero le
lingue sottoprimitive nel suddividersi, e risuddividersi secondo le vicende
infinite delle nazioni, e del genere umano; aggiungete le alterazioni che
ricevettero e quelle e queste lingue appoco appoco, non solo col corso de’
secoli e indipendentemente ancora da ogni altra circostanza, ma coll’esser
finalmente ridotte più o meno a lingue gramaticali, col raddolcimento delle parole
prodotto e dalla civiltà crescente, e dai letterati, secondo i diversi geni
degli orecchi nazionali ec.; coll’essere applicate non più solamente alla
scrittura, ma alla letteratura, della cui estrema influenza sul modificare e
formare le lingue, che accade ora ripetere quello che s’è tante volte ripetuto?
Bensì osservo che le lingue antiche non ci sono pervenute se non per mezzo, non
già della semplice scrittura, ma della letteratura. Delle alterazioni che le
parole soffrono nel significato v. p.1505. fine. e 1501.-2.
[1272]E dopo tutto ciò non vi farà
maraviglia se tanto deve stentarsi, e se bene spesso è impossibile a
riconoscere nelle diversissime e quasi innumerevoli lingue del mondo l’unità
dell’origine; e se la lingua o le lingue assolutamente primitive, o piuttosto
quella o quelle prime poverissime e rozzissime nomenclature, che furono la base
delle lingue tutte, e che formano ancora le radici delle loro parole; annegate
nelle derivazioni, inflessioni, composizioni diversissime secondo i casuali
accidenti delle formazioni delle lingue, i caratteri, i geni, i climi, le
letterature che formarono esse lingue, le opinioni, i costumi, le circostanze
diversissime della vita che v’influirono, le cognizioni, le disposizioni della
terra, del cielo ec. ec. e modificate e svisate secondo le differenze degli
organi nelle diverse nazioni, secondo l’ignoranza de’ parlatori primitivi, la
corruzione che inevitabilmente soffrono le parole anche nelle lingue le più
stabilite e perfette; non vi maraviglierete, dico, se tali primitive radici
benchè comuni a tutte le lingue, si nascondono per la più parte agli occhi
degli osservatori più fini, fanno disperare l’etimologista, e considerare come
un frivolo sogno l’investigazione delle origini delle lingue, e lo studio delle
etimologie, e dell’analogia delle parole di tutte le favelle (intrapresa però a
svolgere da parecchi, ed ultimamente, secondo che odo, da non so qual
francese); insomma la primitiva unità di origine e analogia di tutte le lingue.
(Riferite tutte queste osservazioni a quello che altrove ho detto della
necessaria varietà delle lingue, e vicendevolmente riferite quei pensieri a
questi.)
[1273]Malgrado tutto ciò, ella è cosa
certissima che tali investigazioni (per quanto elle possono avvicinarsi al
vero) sono delle più utili che mai si possano concepire sì alla storia come
alla filosofia. Le origini delle nazioni (oltre ai progressi dello spirito
umano, e la storia de’ popoli, cose tutte fedelmente rappresentate nelle
lingue), le remotissime epoche loro, le loro provenienze, la diffusione del
genere umano, e la sua distribuzione pel mondo, in somma la storia de’ primi ed
oscurissimi incunaboli della società, e de’ suoi primi passi, non d’altronde si
può maggiormente attingere che dalle etimologie, le quali rimontando di lingua
in lingua fino alle prime origini di una parola, danno le maggiori idee che noi
possiamo avere circa le prime relazioni, i primi pensieri, cognizioni ec. degli
uomini.
Certo è
parimente che in lingue disparatissime parlate antichissimamente da popoli
lontanissimi fra loro, si trovano bene spesso tali conformità nelle forme
esteriori e nel significato di certe voci, e queste voci sono in gran parte
così necessarie alla vita, esprimono cose così necessarie, e nel tempo stesso
così facili e prime e naturali ad esprimersi, che queste conformità, non
volendo attribuirle al caso, ch’è inverisimile, non potendo attribuirle alla
natura, giacchè si tratta di voci d’espressione e di forma quasi al tutto
arbitraria; [1274]e neppure potendo attribuirle a relazioni posteriori
di detti popoli fra loro, sì perchè ciò s’oppone molte volte a tutte le storie
conosciute, sì perchè si tratta di parole necessarie e prime in tutte le
lingue; resta che si attribuisca ad una comune origine di tali lingue e di tali
popoli, ancorchè ora e sin da remotissimo tempo disparatissimi, e lontanissimi,
e ignoti gli uni agli altri.
A
scoprir dunque tal comune origine delle lingue e quindi delle nazioni (o sia
una sola origine, o sieno alcune pochissime); a ritrovare quanta maggior parte
si possa della prima lingua degli uomini; a soddisfare al filosofico desiderio
di quel metafisico tedesco (v. p.1134.) ec. ec. non v’è altro mezzo che lo
studio etimologico. E questo non ha altra via, se non che giovandosi de’ lumi
comparativi d’una estesa poliglottia, de’ lumi profondamente archeologici e
filologici, fisiologici e psicologici ec. prendere a considerar le parole delle
lingue meglio conosciute fra le più antiche (come più vicine alla comune
origine delle lingue); e denudandole d’ogni inflessione, composizione,
derivazione gramaticale ec. ec. cavarne la radice più semplice che si possa; e
quindi coi detti lumi comparativi ec. ridurre questa radice dalle diversissime
alterazioni di forma, e di suoni che può avere ricevute, (anche prima di
divenire radice d’altra parola, e nel suo semplice stato, ovvero dopo) alla sua
forma primitiva. Quando questa non si possa trovare e stabilire precisamente, l’Etimologo
avrà fatto abbastanza, e l’utilità sarà pur molta, se avrà dimostrato che una tal
parola dimostrata radicale, quantunque diversa nelle diverse lingue, è però una
sola in origine, e che fra quelle diverse forme, significati ec. di essa
radice, si trova la forma, il significato ec. primitivo, quantunque non si
possa definitamente stabilire se questo sia il tale o il tale fra i detti sensi
e forme che ha nelle differenti favelle. Come [1275]questo si possa fare
nella lingua latina che è una delle antichissime, delle meglio conosciute, e
delle meglio accomodate a tali ricerche, abbiamo cercato di indicarlo colla
scorta della filologia e dell’archeologia, mostrando come dalle parole latine
si possa trarre la radice monosillaba, e colla scorta della filosofia la quale
insegna che le prime lingue dovettero essere per la più parte monosillabe, e
composte quasi di soli nomi; mostrando molti accidenti delle parole latine,
considerati finora come qualità essenziali, il che nuoce, come è chiaro,
infinitamente alla invenzione delle estreme radici, ed arresta il corso delle
ricerche etimologiche lungi dalla sua meta, e in un punto dove elle non debbono
arrestarsi, come se già fossero giunte alle ultime origini, ed agli ultimi
elementi delle parole. Abbiamo insomma cercato di ridurre l’analisi e la
decomposizione delle parole latine, ad elementi più semplici: cosa
giovevolissima alla cognizione delle loro origini e radici; come infiniti
progressi ha fatto la chimica quando ha scoperto che quei quattro che si
credevano primi elementi, erano composti, ed è giunta a trovar sostanze, se non
del tutto elementari ed ultime esse stesse, certo molto più semplici delle
prima conosciute.
[1276]Voglio portare in conferma di ciò
un altro esempio, oltre ai già riferiti, per mostrare quanto giovino i lumi
archeologici alla ricerca delle antichissime radici. Silva è radice in
latino, cioè non nasce da verun’altra parola latina conosciuta. Osservate però
quanto ella sia mutata dalla sua vecchia e forse prima forma. †Ulh è lo stesso che silva per consenso di quasi tutti gli etimologi.
Or come la parola latina ha una s e un v davantaggio che la
greca? Quanto alla s vedi quello che ho notato altrove, vedi Iul.
Pontedera Antiquitt. Latinn. Graecarumq. Enarrationes atque Emendatt. Epist. 2.
Patav. Typis Seminar. 1740. p.18. (le due prime epistole meritano di esser
lette in questi propositi archeologici della lingua latina) ed ella è cosa già
nota agli eruditi. Nelle stesse antiche iscrizioni greche si trova sovente il sigma
innanzi alle parole comincianti per vocale, in luogo dell’aspirazione. Anzi
questa scrittura s’è conservata in parecchie delle stesse voci greche, (come
nelle latine): p.e. sèkon pronunziavasi da principio ðkon o ïkon coll’aspirazione aspra o dolce, giacchè gli Eoli ne
fecero ?èkon e i latini ficus. V. l’Encyclop.
in S. Quanto al v ecco com’io la discorro.
L’antico
H greco derivato dall’Heth Fenicio, Samaritano, ed Ebraico, col quale ha comune
anche il nome ·ta (giacchè il taè greco deriva dal thau degli
Ebrei), oltre alla figura, ec., non fu da principio altro segno che di un’aspirazione,
(v. p.1136. marg.) come lo fu sempre nel latino, e come lo era nell’alfabeto da
cui venne il greco. (V. Cellar. Orthograph. Patav. ap. Comin. 1739. p.40. fine.
e l’Encyclop. méthodique. Grammaire. art. H. specialmente p.215. e se vuoi, il
Forcellini in H.) Abbiamo veduto che l’antico v latino non era altro che [1277]il
digamma eolico, e questo non altro che un carattere che gli Eoli ponevano in
luogo dell’aspirazione, anzi un segno di aspirazione esso stesso, e in somma
fratello carnale dell’antico H greco. Antichissimamente pertanto la parola ìlh, pronunziavasi hulh con due aspirazioni l’una in capo, e l’altra
da piè. (voglio dire insomma che l’h di ìlh non era da principio lettera
mobile, e puro carattere di desinenza, ma radicale, il che si deduce dal v che i latini hanno per lettera radicale in questa parola, cioè in silva.)
Ovvero pronunziavasi hilh giacchè non si può bene accertare qual fosse l’antichissima
pronunzia dell’u greco; se u simile al francese, come lo
pronunziavano i greci ai buoni tempi; ovvero i, come lo pronunziano i
greci moderni, come si pronunzia in moltissime voci latine o figlie o sorelle
di voci greche, e come pronunziano i tedeschi il loro u. Certo è che gli
antichi latini pronunziarono e scrissero le parole che in greco si scrivevano
per Y, ora per I, ora per u, e quindi corrottamente talvolta anche per o,
come da sumnus somnus ec. V. Pontedera loc. cit. nella pagina
precedente. Per y non mai, carattere greco, il quale graecorum caussa
nominum adscivimus dice Prisciano (lib.1 p.543. ap. Putsch.), ed è
carattere non antico, come dice Cicerone, e pronunziavasi alla greca, come una u
francese, secondo che apparisce da Marziano Capella. (V. Forcellini, l’Encyclop.
e Cellar. Orthograph. p.6 fine-7 principio). Quindi nel nostro caso, gli
antichi marmi e manoscritti, e gli eruditi, rigettano la scrittura di sylva
sylvestris ec. per silva; scrittura [1278]corrotta e più
moderna, introdottasi presso gli scrittori latino-barbari, come si può vedere
nel Ducange. Il che per altro serve anch’esso a mostrare la derivazione o
cognazione del latino silva col greco ìlh, non essendoci altra ragione
perchè l’uso di tempi ignorantissimi, e che non pensavano o sapevano nulla d’etimologie
nè di greco, dovesse introdurre questa lettera greca y in una parola che
gli antichi latini scrivevano per i; uso conservatosi fino a’ nostri
tempi presso molti che scrivono ancora sylva e così ne’ derivati. E
forse a quel tempo in cui, secondo che dice Cicerone, si cominciò a scrivere e
pronunziare (cioè per u gallico) Pyrrhus e Pryhges ec. in
luogo di Purrus e Phruges che gli antichi scrivevano (v.
Forcellini in Y); si cominciò anche a scrivere e pronunziare sylva: o
certo in qualunque tempo questo accadesse, ebbe origine e causa dal vizio di
volere in tutto conformare la scrittura e la pronunzia agli stranieri, nelle
parole venute da loro, vizio che Cicerone riprende nello stesso luogo.
(osservazione molto applicabile ai francesi.) E ciò mostra che dunque silva si considerò per tutt’una parola con ìlh, quantunque la scrittura sylva sia viziosa. Presso gli stessi greci de’ buoni tempi le parole che hanno la u, quando subiscono le solite affezioni delle parole greche, cambiano
spesso l’u in i, come da dæo si fa dÜw, e ne’ composti (come diploèw, dillòw, dÛstomow, difu¯w ec.) sempre di.
Tornando
al proposito, ed oggi, e da lungo tempo, questa medesima lettera greca y,
non per altro introdotta nell’alfabeto latino che per rappresentare l’u greco, ed esprimere il suono della u francese, [1279]non
si pronunzia in esso alfabeto nè in essa lingua, se non come i semplice.
Così pure nello spagnuolo e nel francese, quando non è trasformato in i anche nella scrittura, come sempre lo è nella nostra lingua. E notate che in
dette due lingue l’y si pronunzia i anche in parole e nomi propri
ec. non derivati dal latino, o che in latino non avevano detta lettera, o anche
avevano l’i in sua vece. E l’y e l’i si scambiano a ogni
tratto nella scrittura spagnuola e francese, massime in quelle non affatto
moderne, giacchè oggi l’ortografia è più determinata. (I francesi scrivono Sylvain
pronunziando Silvain. V. anche il Diz. Spagnuolo in Syl.) Notate
ancora che i francesi conservano l’u gallico, e pure pronunziano l’y
per i. Dal che apparisce che questa lettera grecolatina, perdè affatto e
universalmente il suo primo suono, e cangiossi in i, come l’u presso i greci. Ed è naturale l’affinità scambievole dell’i e
dell’u, le più esili delle nostre vocali. V. p.2152. fine. Infatti il
suono della u francese o Lombarda (il Forcellini la chiama Bergamasca)
partecipa della i come della u. E quegli stessi greci che
pronunziavano il loro u come i francesi la u, lo consideravano come una i
piuttosto che come una u; voglio dire come una specie o inflessione ec.
della i. Giacchè nel loro alfabeto lo chiamavano êcilòn (come noi diciamo pure alla greca ipsilon) cioè u tenue. Ora questo aggiunto di tenue non gli è dato ad
altro oggetto che di distinzione, come l’e si chiama parimente ¤cilòn per distinguerlo dall’·ta. Ma i greci non hanno nel loro
alfabeto altra u da cui bisognasse distinguere questo u; bensì hanno un’altra i cioè l’ÞÇta.
Da hulh
dunque pronunziato alla francese, e doppiamente aspirato, ovvero da hilh,
fecesi hulf o hilf all’eolica, il che in latino (e in molte altre
lingue per la somiglianza delle labiali f e v) pronunziossi, come
abbiamo veduto, o da principio [1280]o col tempo hilv. Anzi il
digamma eolico non doveva esser altro che una cosa di mezzo tra f e v,
ed un’aspirazione che tenea della consonante, e tale divenne pienamente nel
seguito. (Aspirazioni considerate per consonanti formali, ne ha pure lo
spagnuolo ec.) Da hilv i latini, secondo il loro costume, fecero silv.
E finalmente come presso i greci l’aspirazione H perdendosi affatto, passò ad
esser lettera, e desinenza di ìlh e cessò di esser carattere
radicale; così presso i latini la parola silv, raddolcendosi e
formandosi la lingua, venne a ricevere la sua vocale terminativa a.
Ecco
quanti cangiamenti dovè subire la radice hulh o hilh (seppur
questa fu la primissima parola) secondo le differenze de’ popoli e de’ tempi,
prima ancora di passare dal suo semplice stato di radice a parola derivativa o
composta, anzi prima pur di subire alcuna inflessione, giacchè ìlh e silva essendo nominativi non hanno inflessione veruna. Ed aggiungete
ancora, prima di divenir selva in italiano, giacchè la radice di questa
parola italiana è parimente quell’hulh, e così tutte le più moderne
parole che giornalmente oggi si parlano, hanno la loro antichissima, e per lo
più irreconoscibilissima radice nelle lingue primitive.
Queste
non sono etimologie stiracchiate, nè sogni, benchè etimologie lontanissime. E
non volendoci prestar fede, perciò solo che sono lontane, e che a prima vista
non si scorge somiglianza fra hulh e silva, non si creda di mostrarsi
spirito forte, ma ignorante d’archeologia, di filologia, e della storia
naturale degli organi umani, de’ climi ec. come pur della storia certa e chiara
di tante altre parole e lingue, similissima a questa; [1281]come di
quelle stesse parole italiane che si sa di certo esser derivate dall’Arabo, dal
greco, e dallo stesso latino, e che pur tanto hanno perduto della loro prima
fisonomia, (in tanto minor tempo e varietà di casi) ed appena si possono
ridurre alla loro origine. Giacchè ci sono due generi d’incredulità, l’uno che
viene dalla scienza, e l’altro (ben più comune) dall’ignoranza, e dal non saper
vedere come possa essere quello che è, conoscer pochi possibili ec. poche
verità e quindi poche verisimiglianze ec. non saper quanto si stenda la possibilità.
(V. p.1391. fine.)
Se
dunque non m’inganno, abbiamo trovato una radice primitiva, o prossima alla
forma primitiva, dico hulh o hilh. Sarebbe tanto curioso quanto
utile il ricercare questa parola, se esistesse, o altra che le somigliasse,
nelle lingue straniere, principalmente orientali, da cui pare che derivassero
antichissimamente le lingue occidentali, come pure le nazioni, le opinioni, i
costumi, e che in somma l’oriente fosse abitato prima dell’occidente. Gli studi
e le scoperte che i moderni negli ultimi tempi hanno fatte, e vanno facendo
anche oggi nelle antichità orientali, pare che sempre più confermino questa
proposizione (già conforme al Cristianesimo, e alle antiche tradizioni pagane)
della maggiore antichità dell’oriente rispetto all’occidente, o almeno della
società e civiltà orientale, generalmente parlando. Converrebbe consultare
specialmente le lingue indiane.
Le
lingue selvagge sarebbero anche adattate a queste ricerche, essendo
verisimilmente le meno lontane dallo stato primitivo, come lo sono quelli che
le parlano.
Ma prima
d’istituire tali ricerche bisogna fare un’ultima osservazione in questo
proposito. Finora non abbiamo considerato che le variazioni nella forma
esteriore di detta radice. Bisogna osservare anche quelle del significato. †Ulh non significa solamente [1282]selva, ma anche materia,
materiale sostantivo ec. v. i Lessici. Anzi questo si pone per
significato proprio d’essa parola. Quindi ylgnh, hiuli presso i Rabbini
significa materia o materia prima, termine filosofico. V. Johannis
Buxtorfii Lex;. Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum alla radice (fittizia) ]yh, Basileae 1640. col.605 fine-606. Dove è notabile il modo nel quale è imitato il suono
dell’u greco, o u francese; cioè con due i ed
una u; dal che 1. si conferma quello che ho detto p.1279. che i greci
consideravano detta lettera più come una i che come una u, 2.
apparisce che l’antica pronunzia dell’u greco durava ancor dopo
trasformata quella dell’e lunga h, in i; giacchè l’h di ìlh è espresso in questa parola rabbinica per la i
lunga. Del resto la radice ]yh è mal formata dal Lessicografo, giacchè manca del lamed,
lettera radicalissima nella voce surriferita. Si vede pure che conservavasi
ancora l’aspirazione nella voce ìlh, giacchè la He non ad altro
oggetto che di rappresentar l’aspirazione, fu posta dai rabbini in detta voce. †Ulh significa anche particolarmente legna o legname, o legno in genere. Così pure silva (v. Forcellini), altra prova dell’affinità di
questo vocabolo col vocabolo greco. Non saprei dire, nè monta per ora assai, il
ricercare quale dei detti significati fosse il primitivo, se quello di selva,
o di legna, o di materia o materiale ec. Anche negli
Scrittori latino-barbari si trova Silva per Lignum, Materia. V.
il Glossar. del Ducange. Vedilo anche in Hyle, e quivi pure il Forc.
Bensì è
curioso l’osservare che presso gli spagnuoli madera, lo stesso che materia,
che i nostri antichi italiani dissero anche matera, non significa oggi
altro che legno generalmente o legname. E presso i francesi è
noto che bois significa tanto bosco o selva quanto legno
in genere. V. i Diz. francesi, e la Crusca in selva, bosco, foresta, materia
ec. se ha nulla in proposito. Anche fra noi poeticamente si direbbe molto bene selva
ec. per legna ec. come presso a’ poeti latini.
Si
potrebbe dunque e dovrebbe ricercare nelle lingue orientali ec. la radice hulh
o hilh, non solo in [1283]senso di selva, ma anche di materia,
di legno, o legname ec. e in qualsivoglia di questi si
ritrovasse, servirebbe ugualmente di conferma al nostro ragionamento.
Alla
p.1270. Anche dopo fatta la meravigliosa analisi de’ suoni articolati
pronunziabili in una intera favella, e concepito il portentoso disegno di
esprimergli ad uno ad uno e rappresentargli nella scrittura; e in somma trovato
l’alfabeto; si dovè provare tanta difficoltà nell’applicazione, quanta se ne
prova sempre passando dalla teorica alla pratica. Anzi si può dire in genere
che lo scrivere una lingua non mai stata scritta era lo stesso che applicar la
teorica alla pratica. Difficoltà, inconvenienti, disordini infiniti dovettero
comparire nelle prime scritture. Gli alfabeti, come tutte le cose umane, e
massime così difficili e sottili, durarono per lunghissimo tempo imperfetti.
Cioè l’analisi dei suoni non fu potuta fare perfettamente, se non dopo lunghe
serie di esperienze e riflessioni. Non potè detta analisi arrivar subito ai
suoni intieramente elementari. Quindi segni inutili e soprabbondanti per una
parte, mancanze di segni necessarii per l’altra. Quindi sistema peccante di
poca semplicità e di troppa semplicità. Gli archeologi possono facilmente
vedere e notare, e notano i progressi dell’alfabeto sì presso una medesima
nazione, sì passando ad altre nazioni, come fece. Certo è però che i primissimi
alfabeto dovettero essere molto più imperfetti di quegli stessi imperfettissimi
e primi che conosciamo, e che essi dovettero lungo tempo durare in quella o
simile imperfezione, e quindi tanto più contribuire ad alterare la lingua
scritta, la lingua comunicata alle altre nazioni e tempi ec. Quante parole che
si distinguevano ottimamente nella pronunzia, si dovettero confondere nella
scrittura. O si cercò allora di distinguerle in modi arbitrarii, o lasciandole
così indistinte, le proprietà, i significati, le origini delle parole si [1284]vennero
a poco a poco a confondere. Nell’uno e nell’altro caso vedete quanto la
necessaria imperfezione delle prime scritture (e per prime intendo quelle di
parecchi secoli) debba aver nociuto alla perfetta conservazione delle primitive
radici, averle svisate di forma, confusine i significati ec. ec. Così
discorrete degli altri inconvenienti che derivarono dalle imperfezioni degli
alfabeti, e degli effetti che questi inconvenienti dovettero produrre sulle
parole.
Ma anche
senza considerare nei primitivi alfabeti, o alfabeto, veruna imperfezione,
ripeto che l’applicare le parole pronunziate ai segni allora inventati, dovè
necessariamente patire le stesse difficoltà, che si patiscono nel discendere
dalla teorica alla pratica. Osserviamo i fanciulli che incominciano a scrivere,
ancorchè sappiano ben leggere; ovvero gl’ignoranti che sanno però ben formare
tutte le lettere, e scrivono sotto la dettatura. Quanti spropositi derivati
dalla poca pratica che hanno di applicare quel tal segno a quel tal suono, e di
analizzare la parola che odono, risolvendola ne’ suoni elementari, per
applicare a ciascun suono elementare il suo segno. (Notate ch’essi adoprano un
alfabeto proprio fatto della lingua in cui scrivono, ed i segni propri e
distinti di quei suoni precisi che debbono rappresentare). Appena riescono essi
a copiar bene, cioè trasferire non da suono a segno, ma da segno a segno. Così
i fanciulli principianti di scrittura, se hanno da scrivere sotto dettatura, o
scrivere senza esemplare sotto gli occhi, quelle parole che pensano. Così anche
gli uomini fatti, e che sanno ben parlare, ma non avvezzi a scrivere o leggere,
ommettono, traslocano, cambiano, aggiungono tante lettere, fanno la loro parola
scritta così diversa dalla parlata, ch’essi stessi si vergognerebbero di
pronunziar la loro scrittura nel modo in cui ella giace. Ma essi credono che
corrisponda alla pronunzia. V. p.1659. Lo scrittore che scrive [1285]traslatando
nella carta le parole che la mente gli suggerisce, scrive sotto la sua propria
dettatura. Quanto dunque dovè tardare prima di perfezionarsi nel rappresentare
con segni ciascun suono che concepiva! E gl’infiniti errori prodotti dalla
necessaria imperizia de’ primi scrittori, dovettero perpetuarsi in gran parte
nelle scritture, e confondere e guastare non poche parole, le loro forme, i
loro significati, ec. (E ricordiamoci che le lingue antiche ci sono pervenute
per mezzo della sola scrittura.) Lascio il noto costume antico di scrivere
tutte le parole a distesa senza nè intervalli nè distinzioni, punteggiature (di
cui l’Ebraico manca quasi affatto) ec. il che ognun vede quante confusioni e
sbagli dovesse produrre. Così dite degli altri inconvenienti della paleografia,
gli effetti de’ quali nelle lingue colte ec. furono maggiori che non si pensa.
Lo vediamo anche nei Codici scritti in tempi dove l’arte della scrittura era
già di gran lunga completa. Vediamo dico quanti errori, quante sviste
perpetuate in un’opera ec. dove suda la critica, e molte volte non arriva a
correggerle, e molte altre neppur se n’accorge ec. ec. V. p.1318. Da tutte le
quali cose apparisce che le lingue primitive dalla sola applicazione alla
semplice scrittura, senza ancor punto di letteratura, dovettero inevitabilmente
ricevere una somma alterazione e sfigurazione, e travisamento.
Incorporiamo
queste osservazioni coi fatti. Pare che le lingue orientali fossero le prime
del mondo. Certo è che gli alfabeti occidentali vennero dall’oriente, e quindi
orientali furono i primi alfabeti, e orientale dovette essere il primo
inventore dell’alfabeto. Ora gli alfabeti orientali mancano originariamente de’
segni delle vocali. Questo pare strano. Nell’analisi de’ suoni articolati pare
a noi che le vocali, come elementi in realtà principali, debbano essere i primi
e più facili a trovarsi. Molti Critici vogliono forzatamente ritrovar le vocali
ne’ primitivi alfabeti d’Oriente. Ma consideriamo la cosa da filosofi, e
vediamo quanto il giudizio nostro [1286]che siamo sì avvezzi e pratici
dell’analisi de’ suoni articolati, fatta e perfetta da sì lungo tempo,
differisca dal giudizio del primo o dei primi, che senza alcuna guida e
soccorso concepirono questa sottilissima e astrusissima operazione.
Benchè
le vocali sieno i primi suoni che l’uomo pronunzia, (anzi pure la bestia) e il
fondamento di tutta e di tutte le favelle, certo è peraltro, chi le considera
acutamente, ch’elle sono suoni più sottili; dirò così, più spirituali, più
difficili a separarsi dal resto de’ suoni, di quello che sieno le consonanti.
Noi chiamiamo così queste ultime, perch’elle non si reggono da se, ed hanno
bisogno delle vocali, ed i greci le chiamavano similmente sæmfvnoi quasi convocali. Questo ci par che dovesse menare per mano al
ritrovamento immediato de’ suoni vocali, nella ricerca de’ suoni elementari; e
questo per lo contrario fu quello che impedì e dovette naturalmente impedire la
prima analisi della favella, di arrivare sino a questo punto. Le vocali furono
considerate come suoni inseparabili dagli altri suoni articolati; come suoni
quasi inarticolati; come parti inesprimibili della favella, parti sfuggevoli, e
incapaci d’esser fissate nella scrittura, e rappresentate separatamente col
loro segno individuale. Insomma l’analisi degli elementi delle parole, la
decomposizione della voce umana articolata non arrivò fino a questi sottili
elementi, cioè fino alle vocali, e non si conobbe che i suoni vocali fossero
elementari, e [1287]divisibili dagli altri; e si considerarono come
sostanze semplici le consonanti il cui stesso nome presso noi dimostra ch’elle
sono sostanze composte, o bisognose della composizione, e più composte insomma
o meno semplici che le vocali. V. p.2404.
Le prime
scritture pertanto mancando delle vocali, somigliarono appunto a quelle che si
fanno in parecchi metodi di stenografia: e l’oriente continuò per lunga serie
di secoli, a scriver così, quasi stenograficamente. (E così credo che ancora continui
in più lingue.)
Notate
che i primi alfabeti abbondarono de’ segni delle aspirazioni (frequentissime, e
di suono marcatissimo nelle lingue orientali come nello spagnuolo) i quali
segni passarono poi ad esser vocali negli alfabeti d’occidente, presi dallo
stesso oriente. E ciò per la naturale analogia delle aspirazioni colle vocali,
che pronunziate da se, non sono quasi altro che aspirazioni. Abbondarono pure
de’ segni delle consonanti aspirate, distinti da’ segni delle non aspirate:
abbondanza non necessaria quando v’erano i segni delle aspirazioni che potevano
congiungersi a quelli delle consonanti non aspirate dette tenui, e così
denotare le consonanti aspirate, come poi fecero i latini, ed anticamente i
greci che scrivevano THEOS, CUKHH o PSUKHE ec. Ma questo è il naturale
andamento dello spirito umano, tutto il cui progresso tanto in genere come in
ispecie, vale a dire in qualsivoglia scienza o arte, consiste nell’avvicinarsi
sempre più agli elementi delle cose e delle idee, e nel conoscere che una cosa
o un’idea fin allora dell’ultima semplicità conosciuta, ne contiene un’altra
più semplice. V. in questo proposito la p.1235. principio.
[1288]Osserviamo ora le conseguenze di
questa scrittura quasi stenografica, cioè senza vocali, scrittura per sì lungo
tempo comune all’oriente, anche dopo l’intero perfezionamento della loro arte
di scrivere; e scrittura primitiva fra gli uomini. Osserviamo, dico, le
conseguenze che appartengono al nostro proposito, cioè alle alterazioni portate
dalla scrittura alle prime radici, ed alla perdita che ci ha cagionata della
perfetta cognizione di molte di loro ec.
Tutti
gli eruditi sanno che delle vocali non bisogna far molto calcolo nelle lingue e
parole orientali, sia nello studiarle, sia nel confrontarle con altre lingue e
parole, nel cercarne le radici, le origini, le proprietà, le regole ec. E che
le vocali in dette lingue sono per lo più variabilissime incertissime, e
bisogna impazzire per ridurre sotto regole (suddivise in infinito) quello che
loro appartiene. Or come ciò? Questo è pur contrario alla natura universale
della favella umana, la cui anima, la cui parte principale e sostanziale sono
le vocali. E ben dovrebbero queste naturalmente esser meno variabili, e più
regolate che le consonanti. Ciò non si deve attribuire se non a quella
imperfetta maniera di scrivere che abbiamo accennata; (imperfezione derivata
dall’esser quella scrittura la prima del mondo ec.) e serve anche a dimostrare
contro l’opinione di alcuni critici, che i più antichi e primitivi alfabeti orientali
mancarono effettivamente de’ segni delle vocali. Non è già che le vocali [1289]non
formassero e non formino la sostanza delle lingue orientali, come di tutte le
altre più o meno. Formano la sostanza di quelle lingue, ma non della loro
gramatica, e ciò per la detta ragione. Anzi molte lingue orientali, p.e. l’ebraica
(e credo generalmente quasi tutte) abbondano di vocali più che le nostre. La
lingua ebraica ha 14. differenze di vocali, nessuna delle quali è dittongo.
Questa è la prima conseguenza ed effetto della imperfezione di detta scrittura,
sulla favella, e sull’indole delle lingue che adoperavano detta scrittura.
Altro
notabile e inevitabile effetto, si è la confusione de’ significati, delle
origini, delle proprietà ec. delle voci, scritte senza le vocali, nel qual
proposito v. quello che ho detto p.1283. fine-84. principio. A tutti è noto
quante parole della Scrittura ebraica di diversissimo significato, e secondo
che si stima, di diversissima origine e radice, o che sono esse medesime, radici
differentissime, scritte senza vocali, sono perfettamente uguali fra loro, nè
si possono distinguere se non dal senso. Immaginate voi quanta confusione ciò
debba aver prodotto e produrre, quanti equivoci, quanti dubbi; quante parole
che si credono bene spiegate, e ben distinte coi punti vocali introdotti
posteriormente, debbano in realtà aver significato tutt’altra cosa, ed avere
avuto nella pronunzia tutt’altre vocali. Onde nel [1290]testo Ebraico l’Ermeneutica
trova bivi e trivi e quadrivi a ogni passo; e nella semplice interpretazione
letterale gli stessi odierni Giudei, gli stessi antichi Dottori della nazione
andarono e vanno le mille miglia lontani l’uno dall’altro. Vedete quanti danni
recati alla conservazione dell’antica lingua, e alla cognizione delle forme del
senso ec. delle antiche parole, dalla maniera di scrivere che abbiam detto.
Ciò non
basta. Avendo gli Orientali scritto per sì lungo tempo senza vocali, ne deve
seguire che la vera antichissima pronunzia delle loro voci e lingue, in ordine
ai suoni vocali, cioè alla parte primaria e sostanziale della pronunzia, sia in
grandissima parte perduta. La qual naturale opinione si conferma dal vedere che
molte, anzi quasi tutte le voci o i nomi propri Ebraici passati anticamente ad
altre lingue, si pronunziarono e si pronunziano in ordine alle vocali, tutt’altrimenti
da quello che si leggono nella Scrittura Ebrea Masoretica, cioè fornita de’
punti vocali, inventati (secondo i migliori Critici) in bassissima età, come
gli accenti e gli spiriti che furono aggiunti in bassi secoli alla scrittura
greca. (Morery conchiude sulla fede del Calmet, del Prideaux, del Vossio, e
degli altri più dotti, che detta invenzione fu verso il nono secolo, e che per
l’avanti nella scrittura Ebrea non v’era segno alcuno di vocali.) E
notate primieramente, ch’io dico in ordine alle vocali, giacchè [1291]quanto
alle consonanti la scrittura e la pronunzia delle parole e nomi Ebraici in
altre lingue, concorda generalmente con quella della Bibbia masoretica: il che
serve di prova al mio discorso, mostrando che detta diversità di pronunzia
nelle vocali, non deriva da corruzione sofferta da dette parole o nomi nel
passare ad altre lingue, ma dal differire effettivamente la pronunzia
masoretica cioè la moderna pronunzia ebraica, dalla pronunzia antica rispetto
alle vocali. E che tal differenza si deve attribuire alla imperfezione dell’antica
scrittura ebraica senza vocali ec. Secondariamente notate che trattasi per lo
più di nomi propri, i quali nel passare ad altre lingue, sogliono naturalmente
conservare la loro forma e pronunzia nazionale, meglio che qualunque altro
genere di voci.
L’aspetto
dell’uomo allegro e pieno o commosso anche mediocremente da qualche buona
fortuna, da qualche vantaggio, da qualche piacere ricevuto ec. è per lo più
molestissimo non solo alle persone afflitte, o pur malinconiche, o poco
inclinate alla letizia per atto o [1292]per abito, ma anche alle persone
d’animo indifferentemente disposto, e non danneggiate punto, nè soverchiate ec.
da quella prosperità. Questo ci accade ancora cogli amici, parenti i più
stretti ec. E bisogna che l’uomo il quale ha cagione di allegria, o la
dissimuli, o la dimostri con certa disinvoltura, indifferenza e spirito,
altrimenti la sua presenza, e la sua conversazione riuscirà sempre odiosa e
grave, anche a quelli che dovrebbero rallegrarsi del suo bene, o che non hanno
materia alcuna di dolersene. Tale infatti è la pratica degli uomini riflessivi,
padroni di se, e ben creati. Che vuol dir questo, se non che il nostro amor
proprio, ci porta inevitabilmente, e senza che ce ne avvediamo, all’odio
altrui? Certo è che nel detto caso, anche all’uomo il più buono, è mestieri un
certo sforzo sopra se stesso e un certo eroismo, per prender parte alla letizia
altrui, della quale egli non aspetti nessun vantaggio nè danno, o solamente per
non gravarsene.
Alla
p.1242. Non è dunque da maravigliarsi che la lingua italiana fra le moderne sia
tenuta la più ricca. (Monti.) Ho già mostrato come la vera fonte della ricchezza
delle lingue antiche, consistesse nella gran facoltà dei derivati e de’
composti, e come questa sia la principal fonte della ricchezza di qualsivoglia
lingua, e quella che ne manca o ne scarseggia, non possa esser mai ricca. La
lingua italiana la quale cede alla greca e latina nella facoltà de’ composti
(colpa più nostra che sua), abbiamo veduto [1293]e si potrebe dimostrare
con mille considerazioni, che nella facoltà dei derivati, e nell’uso che finora
ha saputo fare di tal facoltà, piuttosto vince dette lingue, di quello che ne
sia vinta. Sarà dunque vero che la lingua italiana sia la più ricca delle
moderne, e questa superiorità sua, che una volta fu effettiva (e per le dette
ragioni), non passerà come parecchie altre, se noi non la spoglieremo di quelle
facoltà che la producono, e sole la possono principalmente produrre; e che per
l’altra parte sono proprie della sua indole. Cioè se non la spoglieremo della
facoltà di crear nuovi composti e derivati, disfacendo quello che fecero i
nostri antichi. Giacchè l’impedire alla lingua (e ciò per legge costante) che
non segua ad esercitare le facoltà generative datele da quelli che la
formarono, è lo stesso che spogliarnela, e quindi si chiama disfare e non
conservare l’opera dei nostri maggiori.
Dilatate
quest’ultimo pensiero, dimostrando come il voler togliere alla lingua l’esercizio
delle sue facoltà creatrici, proprie della sua indole, sia appunto l’opposto di
quello che si crede, cioè allontanarla dalla sua indole, e dalla sua condizione
primitiva in luogo di mantenercela. La condizione primitiva della lingua era di
esser viva: ora il ridurla allo stato [1294]assoluto di morta, si
chiamerà conservarla qual ella era, e quale ce la trasmisero i suoi formatori?
Dunque conservare una parola, una forma, un significato, un suono antico, ec. e
sbandire una voce o modo barbaro, una cattiva ortografia, un significato male
applicato ec. tutte cose particolari ed accidentali, e quel ch’è più mutabili,
tutto questo si chiamerà conservare la lingua. E lo spogliarla delle sue
facoltà generali, ed essenziali, e immutabili, non si chiamerà guastarla o
alterarla, ma anzi conservarla? Dico immutabili, fin tanto ch’ella non muti
affatto qualità, e di viva diventi morta. Il solo immutabile nella lingua sono
le facoltà che costituiscono il suo carattere, parimente immutabile. Le parole,
i modi, i significati, le ortografie, le inflessioni ec. niente di questo è
immutabile, ma tutto soggetto all’uso per propria natura. Così che i nostri
bravi puristi vogliono eternare nella lingua la parte mortale, e distruggere l’immortale,
o quella che tale dev’essere, se non si vuol mutare la lingua. E l’uso di tali
facoltà creatrici, ch’io dico immortali, deve essere perpetuo finchè una lingua
vive, appunto perchè la novità delle cose e delle idee (alle quali serve la
lingua) [1295]è perpetua. Che se non fosse perpetua, la lingua potrebbe
allora perdere dette facoltà, e vivere nello stato delle lingue morte. Ma
essendo la novità delle cose perpetua, ripeto che non si può conservare la
lingua senza mantenerle intieramente le sue primitive facoltà creatrici, e che
lo spogliarla di queste è lo stesso che ridurla necessariamente alla barbarie;
giacch’ella barbara o no, finch’è parlata e scritta non può morire; e non
potendo vivere nella sua prima condizione, cioè durando la novità delle cose
senza ch’ella possa più esprimerle del suo proprio prodotto, vivrà nella
barbarie.
(8.
Luglio 1821.)
Alla
p.1138. fine, aggiungi - 4. La lingua latina ha prodotto tre figlie, che ancor
vivono, che noi stessi parliamo, e le di cui antichità, origini, progressi ec.
dal principio loro fino al dì d’oggi, si conoscono o si possono ottimamente o
sempre meglio conoscere. Che in somma è quanto dire che la lingua latina ancor
vive. E la considerazione di queste lingue fatta coi debiti lumi, ci può
portare e ci porta a scoprire moltissime proprietà della lingua latina
antichissima, che non si potrebbero, o non così bene dedurre dagli scrittori
latini; e ciò stante l’infinita tenacità del [1296]volgo che mediante il
parlar quotidiano, ha conservato dai primordi della lingua latina fino al dì d’oggi,
e conserva tuttavia nell’uso quotidiano (e le ha pure introdotte nelle
scritture) molte antichissime particolarità della lingua latina; come
dimostrerò discorrendo dell’antico latino volgare. Sicchè lo studio comparativo
delle tre lingue latino-moderne, fatto con maggior cura, di quello che finora
sia stato, e con maggiore intenzione all’effetto di scoprire le antichità della
favella materna, ci può condurre a conoscer cose latine antichissime, e
primitive, o quasi primitive. La quale facoltà di uno studio comparativo sulla
lingua greca parlata, non si ha, benchè la lingua greca viva ancora al modo che
vive la latina. Oltre che non si hanno tante comodità di conoscere così bene il
greco moderno, e le sue origini, e progressi, e generalmente la storia della
lingua greca da un certo tempo in qua; come si hanno di conoscere quello che
noi possiamo chiamare il latino moderno, e la storia della lingua latina dalla
sua formazione e letteratura fino al dì d’oggi, come dirò poi.
Da
queste considerazioni segue in primo luogo che la lingua latina, non ci è
solamente nota [1297]per via della scrittura e letteratura, cose che
sfigurano sommamente le origini di qualunque lingua, come ho detto poche pagine
dietro, discorrendo delle cause di alterazione nelle lingue; ma eziandio per
mezzo della viva favella, la quale è sempre influita dall’uso degli antichi
parlatori, assai più che degli antichi scrittori; e di una favella che si parla
tuttodì nel mezzo d’Europa, e in gran parte d’Europa, ed è conosciuta per
tutto, e massime a noi stessi che la parliamo e scriviamo. Cosa che non si può
dire di nessun’altra lingua antica.
In
secondo luogo segue dalle dette considerazioni che noi possiamo conoscere quasi
perfettamente (massime rispetto a qualunque altra lingua) le vicende della
lingua latina e delle sue parole, e condurre una storia della lingua e delle
voci latine, (generalmente parlando) quasi perfetta, quasi completa, e senz’alcuna
laguna, dai primi principii della sua letteratura fino al dì d’oggi, cioè per
venti secoli interi. (Plauto morì nel 184. av. G. C.) Il che non si può dire di
verun’altra lingua occidentale, fuor della greca, la cui notizia e storia è
soggetta però alle difficoltà dette p.1296. E molto più, ed a molto maggiori
difficoltà sono soggette quelle delle lingue orientali, ancorchè possano
rimontare ad epoca [1298]più remota. L’antica lingua teutonica ha
veramente prodotto più lingue che la latina; inglese, tedesca, olandese, danese,
svedese, svizzera ec. (Staël): ma essa medesima è quasi ignota. Così l’antica
illirica, madre della russa, della Polacca, e di altre. La lingua Celtica è
poco nota essa, e non vive in nessuna moderna.
In somma
la lingua latina è di tutte le lingue antiche quella la cui storia si può
meglio e per più lungo spazio conoscere, e le cui primitive proprietà per
conseguenza si ponno meglio indagare. Giacchè spetta all’archeologo il
rimontare dalla storia ch’egli può conoscere ec. de’ venti secoli sopraddetti,
a quella de’ secoli antecedenti; nè gli mancano copiose notizie di fatto, le
quali basterebbero già per se stesse a potere spingere la detta storia molto
più in là di detta epoca, sebbene meno perfettamente e completamente sino ad
essa epoca, cioè al secondo secolo av. Cristo, ch’è il secolo di Plauto.
Aggiungete
quella lingua Valacca, derivata pure dalla latina, e che per essersi mantenuta
sempre rozza, è proprissima a darci grandi notizie dell’antico volgare latino,
il qual volgare, come tutti gli altri, è [1299]il precipuo conservatore
delle antichità di una lingua. Aggiungete i dialetti vernacoli derivati dal
latino, come i vari dialetti ne’ quali è divisa la lingua italiana. I quali
ancor essi si sono mantenuti qual più qual meno rozzi, com’è naturale ad una
lingua non applicata alla letteratura, o non sufficientemente; e com’è naturale
a una lingua popolarissima: e quindi tanto più son vicini al loro stato
primitivo. E trovasi effettivamente di molte loro parole, frasi ec. che
derivano da antichissime origini. Quello che s’è perduto p.e. nella lingua
italiana comune, o in questo o quel vernacolo italiano, o s’è alterato ec., s’è
conservato in quell’altro vernacolo ec. E il loro esame comparativo deve
infinitamente servire all’esame delle lingue latino-moderne, diretto a scoprire
le ignote e primitive proprietà del latino antico. Aggiungete ancora la lingua
Portoghese, dialetto considerabilissimo della spagnuola.
5. La lingua latina colta è incontrastabilmente
meno varia, più regolare, più ordinata, più perfetta della greca pur colta.
Facilmente si può vedere quanto ciò giovi e favorisca la ricerca della lingua
latina incolta. Più facilmente si vede, si trova, si cammina nell’ordine, che
nel disordine. Aperta che vi siate nella lingua latina una strada, questa sola
vi mena, e dirittamente, alla scoperta d’infinite sue voci antiche. Le
formazioni delle parole nella lingua latina; la fabbrica dei derivati e dei
composti, è per lo più regolatissima, ordinatissima, e uniforme [1300]dentro
ai limiti di ciascun genere. Trovato che abbiate e ben conosciuto un genere di
derivati nel latino, tutti o quasi tutti in quel genere sono formati nello
stesso preciso modo, e secondo la stessa regola; da tutti si può rimontare
egualmente alle radici. Vedete quello che abbiamo osservato dei continuativi e
frequentativi; due generi di voci derivate, regolarissimamente ed uniformemente
formate, da ciascuna delle quali si può egualmente salire alla voce originaria.
Bene stabilito che sia il preciso modo di quella tal formazione, come abbiamo
fatto, questa sola strada ci mena senza fatica, a un larghissimo e
ubertosissimo campo; anzi è quasi una porta che vi c’introduce immediatamente.
Non
così accade per lo più nella lingua greca, tanto più varia, difforme da se
stessa nelle sue formazioni, ed in ogni altro genere di cose, e senza
pregiudizio (anzi con vantaggio) della bellezza, tanto meno regolare e
corrispondente. Giacchè sì la moltiplicità, come la scarsezza delle regole, non
sono altro che irregolarità. L’una e l’altra dimostrano la copia e
soprabbondanza delle eccezioni, le quali chi vuol ridurre a regola, moltiplica
necessariamente le regole fuor di misura; chi non vuol dare in questo intoppo,
è necessario che stabilisca [1301]poche e larghe regole, acciò possano
lasciar luogo a molte differenze, e comprenderle: e in somma conviene che si
tenga sugli universali, perchè i particolari discordano troppo frequentemente.
E così accade nella gramatica greca, dove altri soprabbondano di regole, e la
fanno parere complicatissima, altri scarseggiano, e la fanno parere
semplicissima. La lingua latina è proprio nel mezzo di questi due estremi,
riguardo alle regole d’ogni genere. (Intendo già fra le lingue del genere
antico, e non del moderno, tanto più filosoficamente costituito, com’è naturale.)
Vale a dire per tanto ch’ella è la più facile a sviscerare, e considerare parte
per parte. Ma nella lingua greca bisogna aprirsi ad ogni tratto una nuova
strada, e quella regola e maniera di formazioni ec. che avrete scoperta, non vi
servirà se non per poche voci ec. ec.
Alla
p.936-8. Osservate ancora qualunque persona, rozza, o non assuefatta al bel
parlare, ed alla lingua della polita conversazione, o poco pratica e ricca di
lingua, o poco esercitata e felice nel trovar le parole favellando, (cioè la
massima parte degli uomini), ovvero anche quelli che parlano bene, quando si
trovano in circostanza dove non abbiano bisogno di star molto sopra se stessi
nel parlare, o quando parlano rozzamente a bella posta o in qualunque modo, o talvolta
anche fuori di dette circostanze, e nella stessa polita conversazione; o
finalmente quelli che hanno una certa forza, e vivacità, e prontezza ec. o
insubordinazione di fantasia; e facilmente potrete notare [1302]che
tutti o quasi tutti gli uomini, qual più qual meno secondo le suddette
differenze, hanno delle parole affatto proprie loro, e particolari, (non già
derivate nè composte, ma nuove di pianta) che sogliono abitualmente usare
quando hanno ad esprimere certe determinate cose, e che non s’intendono se non
dal senso del discorso, e son prese per lo più da una somiglianza ed una
imitazione della cosa che vogliono significare. Così che si può dire che il
linguaggio di ciascun uomo differisce in qualche parte da quello degli altri.
Anzi il linguaggio di un medesimo uomo differisce bene spesso da se medesimo,
non essendoci uomo che talvolta non usi qualche parola della sopraddetta
qualità, non abitualmente, ma per quella volta sola, (qualunque motivo ce lo
porti, che possono esser diversissimi) quantunque abbiano nella stessa lingua
che conoscono ed usano, la parola equivalente da potere adoperare.
Un
ritratto, ancorchè somigliantissimo, (anzi specialmente in tal caso) non solo
ci suol fare più effetto della persona rappresentata (il che viene dalla
sorpresa che deriva dall’imitazione, e dal piacere che viene dalla sorpresa),
ma, per così dire, quella stessa persona ci fa più effetto dipinta che [1303]reale,
e la troviamo più bella se è bella, o al contrario. ec. Non per altro se non
perchè vedendo quella persona, la vediamo in maniera ordinaria, e vedendo il
ritratto, vediamo la persona in maniera straordinaria, il che incredibilmente
accresce l’acutezza de’ nostri organi nell’osservare e nel riflettere, e l’attenzione
e la forza della nostra mente e facoltà, e dà generalmente sommo risalto alle
nostre sensazioni. ec. (Osservate in tal proposizione ciò che dice uno
stenografo francese, del maggior gusto ch’egli provava leggendo i classici da
lui scritti in istenografia.) Così osserva il Gravina intorno al diletto
partorito dall’imitazione poetica.
(9.
Luglio 1821.)
Diletto
ordinarissimo ci produce un ritratto ancorchè somigliantissimo, se non
conosciamo la persona; straordinario se la conosciamo. Applicate questa
osservazione alla scelta degli oggetti d’imitazione pel poeta e l’artefice,
condannando i romantici e il più de’ poeti stranieri che scelgono di preferenza
oggetti forestieri ed ignoti per esercitare la forza della loro imitazione.
(9.
Luglio 1821.)
Altra
prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il vedere che
noi per lo più crediamo facilmente quello che temiamo, e difficilmente quello
che desideriamo, anche molto più verisimile. E poste due persone delle quali
una tema, e l’altra desideri una stessa cosa, quella la crede, e questa no. E
se noi passiamo dal temere una cosa al desiderarla, non sappiamo più credere
quello che prima non sapevamo non credere, [1304]come mi è accaduto più
volte. E poste due cose, o contrarie o disparate, l’una desiderata, e l’altra
temuta, e che abbiano lo stesso fondamento per esser credute, la nostra
credenza si determina per questa e fugge da quella. Nell’esaminare i fondamenti
di alcune proposizioni ch’io da principio temeva che fossero vere, e poi lo
desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi insufficientissimi.
A quello
che ho detto del linguaggio popolare, pochi pensieri addietro, soggiungi. Il
linguaggio popolare è ricca e gran sorgente di bellissime voci e modi,
non veramente alla lingua scritta, ma propriamente allo scrittore. Vale a dire,
bisogna che questo nell’attingerci, nobiliti quelle voci e modi, le formi, le
componga in maniera che non dissuonino, nè dissomiglino dalle altre che l’arte
ha introdotto nello scrivere, ed ha polite, e insomma non disconvengano alla
natura dello scrivere artifizioso ed elegante. Non già le deve trasferir di
peso dalla bocca del popolo alla scrittura, se già non fossero interamente
adattate per se medesime, o se la scrittura non è di un genere triviale o
scherzoso o molto familiare ec. Così che io [1305]dico che il linguaggio
popolare è una gran fonte di novità ec. allo scrittore, nello stesso modo in
cui lo sono le lingue madri ec. le quali somministrano gran materia, ma tocca
allo scrittore il formarla, il lavorarla, e l’adattarla al bisogno, non già
solamente trasportarla di netto, o adoperarla come la trova.
(10.
Luglio 1821.)
L’uomo
isolato crederebbe per natura, almeno confusamente, che il mondo fosse fatto
per lui solo. E intanto crede che sia fatto per la sua specie intera, in quanto
la conosce bene, e vive in mezzo a lei, e ragiona facilmente e pianamente sui
dati che la società e le cognizioni comuni gli porgono. Ma non potendo
ugualmente vivere nella società di tutti gli altri esseri, la sua ragione si
ferma qui, e senza riflessioni che non possono esser comuni a molti, non arriva
a conoscere che il mondo è fatto per tutti gli esseri che lo compongono. Ho
veduto uomini vissuti gran tempo nel mondo, poi fatti solitarii, e stati sempre
egoisti, credere in buona fede che il mondo appresso a poco fosse tutto per
loro, la qual credenza appariva da’ loro fatti d’ogni genere, ed anche dai
detti implicitamente. E non [1306]potevano non solo patire o mancar di
nulla, ma appena concepire come gli uomini e le cose non si prestassero sempre
e interamente ai loro comodi, e ne manifestavano la loro maraviglia e la loro
indignazione in maniere singolarissime, e talvolta incredibili in persone
avvezze alle maniere civili, ed ai sacrifizi della società, nelle quali cose
conservavano pur molta pretensione. Ma non si accorgevano, così facendo, di
mancare a nessun debito loro verso gli altri, nè di esigger più di quello che
loro convenisse ec.
(10.
Luglio 1821.)
Dovunque
ha luogo l’utilità quivi noi non consideriamo e concepiamo e sentiamo la
proporzione e convenienza, se non in ragione dell’utile. Poniamo una spada con
una grande impugnatura a comodo e difesa della mano. Che proporzione ha quella
grossa testa con un corpo sottile? E pure a noi pare convenientissima e
proporzionatissima. Perchè? primo per l’assuefazione principal causa e norma
del sentimento delle proporzioni, convenienze, bellezza, bruttezza. Secondo
perchè ne conosciamo il fine e l’utilità, e questa cognizione determina la
nostra idea circa la proporzione ec. dell’oggetto che vediamo. Chi non avesse
mai veduto una spada, e non conoscesse l’uffizio [1307]suo, o dell’elsa
ec. potrebbe giudicarla sproporzionatissima, e concepire un senso di bruttezza,
relativo agli altri oggetti che conosce, e alle altre proporzioni che ha in
mente. Così dite delle forme umane ec. Non è dunque vero che la proporzione è
relativa? Qual tipo, qual forma universale può aver quell’idea, ch’è
determinata individualmente dalla cognizione di quel tale oggetto delle sue
parti, de’ loro fini ec.? che è determinata dall’assuefazione di vederlo ec.?
che varia non solo secondo le infinite differenze degli oggetti, ma secondo le
differenze di dette cognizioni, assuefazioni ec.? E quell’idea che deriva da
cognizione speciale di ciascheduna cosa e parte, e da speciale assuefazione,
come può essere innata, avere una norma comune, stabile, determinata
primordialmente e astrattamente dalla natura assoluta del tutto?
(10.
Luglio 1821.)
Mi si
permetta un’osservazione intorno ad una minuzia, la cui specificazione potrà
parere ridicola, e poco degna della scrittura. Alcune minute parti del corpo
umano che l’uomo osserva difficilmente, e assai di rado, e per solo caso negli
altri, le suole osservare solamente in se stesso. In se stesso, e da ciò che
elle sono in lui, egli concepisce l’idea del [1308]quali debbano essere,
e della convenienza delle loro forme, e proporzione ec. e di tutti i loro
accidenti. Così le unghie della mano. Le quali ben di rado si possono osservare
negli altri, bensì sovente in se stesso. Or che ne segue? Ne segue che tutti
noi ci formiamo l’idea della bellezza di questa parte del nostro corpo, dalla
forma ch’ella ha in ciascheduno di noi; e perchè quest’idea è formata sopra un
solo individuo della specie, e l’assuefazione è del tutto individuale
nel suo soggetto, perciò se talvolta ci accade di osservare o di porre qualche
passeggera attenzione a quella medesima parte in altrui, rare volte sarà ch’ella
non ci paia di forma strana, e non ci produca un certo senso di deformità o
informità ec. di bruttezza, e anche di ribrezzo, perchè contrasta coll’assuefazione
che noi abbiamo contratta su di noi. E se accadrà che noi osserviamo quella
parte nella persona più ben fatta del mondo, ma che in questa differisca
notabilmente da noi, quella parte in detta persona ci parrà notabilmente
difettosa, quando anche ad altri o generalmente paia l’opposto per differente
circostanza. Ed insomma il giudizio che noi formiamo della bellezza o bruttezza
di quella parte in altrui, è sempre in proporzione della maggiore o minore
conformità ch’ella ha non col generale che non conosciamo, ma colla nostra
particolare.
Aggiungete
che le altre idee della bellezza umana, siccome sono formate sulla cognizione,
ed assuefazione, ed osservazione da noi fatta sopra [1309]molti
individui, così non sono mai uniche, e ci parrà bello questi, e bello quegli,
benchè molto diversi. (Questa moltiplicità medesima delle idee della bellezza
umana, va in proporzione del vedere e dell’osservare che si è fatto ec. ec.
ec.) Ma nel nostro caso, perchè l’idea è formata sopra un soggetto solo, ed un’assuefazione
ed osservazione individuale, perciò è unica, e ci par brutto o men bello
proporzionatamente, non solo ciò che non è simile, ma ciò pure che non è
uniforme al detto soggetto. V. p.1311. capoverso 2.
Bisogna
modificare queste osservazioni secondo i casi e circostanze che ciascuno può
facilmente pensare. P.e. se una malattia o altro accidente vi ha deformato le
unghie, voi sentite quella deformità, perchè contrasta colla vostra
assuefazione precedente, ed allora (almeno fintanto che non arriviate ad
assuefarvi a quella nuova forma) non misurerete gli altri da quello che voi
siete, ma piuttosto da quello ch’eravate precedentemente. Se un’unghia vostra è
deforme, anche sin dalla nascita ec. voi facilmente ve ne accorgerete
paragonandola colle altre pur vostre. Se in questa parte del corpo umano voi
siete sempre stato assolutamente deforme, cioè grandemente diverso dagli [1310]altri,
allora quel poco che voi potrete accidentalmente osservare delle forme comuni,
benchè in grosso e non minutamente, potrà bastare a farvi accorgere della
vostra deformità, perchè la differenza essendo grande, sarà facilmente
notabile, e vi daranno anche nell’occhio quelle parti in altrui, più di quello
che farebbero in altro caso, e così l’assuefazione che formerete, contrasterà
con quello che vedete in voi stesso. Vi accorgerete però di essa deformità
molto più difficilmente, e la sentirete assai meno di quello che fareste in un
altro. Così accade di molto maggiori deformità o nostre proprie, o di persone
con cui conviviamo ec. e v. la p.1212. capoverso 2.
Queste
osservazioni sono menome. Ma non altrimenti il filosofo arriva alle grandi
verità che sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome
cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti. Ed io da un
lato non credo che forse si possa addurre prova più certa di queste
osservazioni, per dimostrare come il giudizio, il senso, l’idea della bellezza
o bruttezza delle forme degli stessi nostri simili (giudizio, e senso influito
dalla natura universale più che qualunque altro) dipende dall’assuefazione ed
osservazione, ed eccetto in certe inclinazioni naturali, non ha assolutamente
altra ragione, altra regola, altro esemplare. [1311]Dall’altro lato non
vedo qual altra più vera e incontrastabile proposizione possa venir dimostrata
in maniera più palpabile di questa.
Discorrete
allo stesso modo delle altre parti del corpo umano, o egualmente minute, o
egualmente poco facili ad osservarsi o vedersi negli altri, o in più che tanti.
(10.
Luglio 1821.). V. qui sotto.
Alla
p.1309. Tanto più che l’osservazione che noi abbiam fatta in noi stessi delle
dette parti è minutissima, e quindi l’idea che abbiamo della loro conveniente
figura ec. è bene esatta e determinata, forse più di qualunque altra simile
idea. E questo pure perch’ella è formata sopra noi stessi, vale a dire sopra un
esemplare che da noi è naturalmente meglio conosciuto, più precisamente
osservato, e più frequentemente anzi continuamente veduto che qualunque altro
oggetto materiale.
(10.
Luglio 1821.)
Al
pensiero superiore. Non voglio spingere il discorso all’indecente, e forse di
necessità e contro voglia, l’ho portato già troppo innanzi. Dirò brevemente. Di
quelle parti umane che taluno non conosce, o in quel tempo in cui nessuno le
conosce, non solo non ne ha veruna idea di bello o di brutto, e volendola
formare, verisimilissimamente s’inganna, ma [1312]volendo congetturare
le loro proprietà, forme e proporzioni universali, non indovina, se non forse a
caso. E il fanciullo distingue già il bello e il brutto fra gli uomini, e
ancora non conosce intieramente la bellezza non solo, ma neppure la forma
umana, e quello che ne conosce non gli dà veruna idea sufficiente, nè delle
proprietà nè delle proporzioni e convenienze di quello che non conosce. E v. in
questo proposito p.1184. marg.
Alla
p.1255. marg. - e divenir maturo, pratico ec. p.e. in uno stile, con una sola
lettura, cioè con pochissimo esercizio ec. La qual facilità di assuefazione,
segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle minuzie, come nell’assuefarmi
ai diversi metodi di vita, e nel dissuefarmene agevolmente mediante una nuova
assuefazione ec. ec. In somma io mi dava presto per esercitato in
qualunque cosa a me più nuova.
(12.
Luglio 1821.)
Alla
p.1226. marg. fine. Se attentamente riguarderemo in che soglia consistere l’eleganza
delle parole, dei modi, delle forme, dello stile, vedremo quanto sovente anzi
sempre ella consista nell’indeterminato, (v. in tal proposito quello che
altrove ho detto circa un passo di Orazio) v. p.1337. principio o in qualcosa d’irregolare,
cioè nelle qualità contrarie a quelle che principalmente si ricercano nello
scrivere didascalico o dottrinale. Non nego io già che questo non sia pur
suscettibile di eleganza, massime in quelle parti dove l’eleganza non fa danno
alla precisione, vale a dire massimamente nei modi e nelle forme. E di questa
associazione [1313]della precisione coll’eleganza, è splendido esempio
lo stile di Celso, e fra’ nostri, di Galileo. Soprattutto poi conviene allo
scrivere didascalico la semplicità (che si ammira massimamente nel primo di
detti autori), la quale dentro i limiti del conveniente, è sempre eleganza,
perch’è naturalezza. Bensì dico che piuttosto la filosofia e le scienze, che
sono opera umana, si possono piegare e accomodare alla bella letteratura ed
alla poesia, che sono opera della natura, di quello che viceversa. E perciò ho
detto che dove regna la filosofia, quivi non è poesia. La poesia,
dovunque ella è, conviene che regni, e non si adatta, perchè la natura ch’è sua
fonte non varia secondo i tempi, nè secondo i costumi o le cognizioni degli
uomini, come varia il regno della ragione.
Chi vuol
persuadersi dell’immensa moltiplicità di stili e quasi lingue diverse,
rinchiuse nella lingua italiana, consideri le opere di Daniello Bartoli, meglio
del quale niuno conobbe i più riposti segreti della nostra lingua.
(Monti, Proposta, vol.1 par.1. p. XIII.) [1314]Un uomo consumato negli
studi della nostra favella, il quale per la prima volta prenda a leggere questo
scrittore, resta attonito e spaventato, e laddove stimava d’essere alla fine
del cammino negli studi sopraddetti, comincia a credere di non essere a mala
pena al mezzo. Ed io posso dire per esperienza che la lettura del Bartoli,
fatta da me dopo bastevole notizia degli scrittori italiani d’ogni sorta e d’ogni
stile, fa disperare di conoscer mai pienamente la forza, e la infinita varietà
delle forme e sembianze che la lingua italiana può assumere. Vi trovate in una
lingua nuova: locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai
sospettato, benchè le riconosciate ora per bellissime e italianissime:
efficacia ed evidenza tale di espressione che alle volte disgrada lo stesso
Dante, e vince non solo la facoltà di qualunque altro scrittore antico o
moderno, di qualsivoglia lingua, ma la stessa opinione delle possibili forze
della favella. E tutta questa novità non è già novità che non s’intenda, che questo
non sarebbe pregio ma vizio sommo, e non farebbe vergogna al lettore ma allo
scrittore. Tutto s’intende benissimo, e tutto è nuovo, e diverso dal consueto: [1315]ella
è lingua e stile italianissimo, e pure è tutt’altra lingua e stile: e il
lettore si maraviglia d’intender bene, e perfettamente gustare una lingua che
non ha mai sentita, ovvero di parlare una lingua, che si esprime in quel modo a
lui sconosciuto, e però ben inteso. Tale è l’immensità e la varietà della
lingua italiana, facoltà che pochi osservano e pochi sentono fra gli stessi
italiani più dotti nella loro lingua; facoltà che gli stranieri difficilmente
potranno mai conoscere pienamente, e quindi confessare.
(13.
Luglio 1821.)
Il
successivo cambiamento delle disposizioni dell’animo di ciascun uomo secondo l’età,
è una fedele e costante immagine del cambiamento delle generazioni umane nel
processo de’ secoli. (E così viceversa). Eccetto che è sproporzionatamente
rapido, massimamente oggidì, perchè il giovane di venticinque anni non serba più
somiglianza alcuna col tempo antico, nè veruna qualità, opinione, disposizione,
inclinazione antica, come l’immaginazione, la virtù ec. ec. ec.
(13.
Luglio 1821.)
Alla
p.1256. fine. E tanto è vero che l’idea di questa tal bellezza non venga da
tipo ec. ma da inclinazione naturale, e da senso affatto indipendente dalla
sfera del bello e del conveniente; [1316]che la inclinazione chiamata da
Aristofane pròw kr¡aw m¡ga (v. assolutamente il Menagio, ad
Laert. Polemon., 4. 19.), fa parer bella e desiderare ai libidinosi una baJukolpÛa eccessiva e maggiore assai delle proporzioni generali, e seguite
comunemente dalla natura, e quindi non bella. Applicate questa osservazione a
tutte le altre idee che ha della bellezza femminile il lÛxuow pñrnhw ¤pagallñmenow pug»sin. (Crate Tebano, Cinico, ap. Laert.
in Crat. Theb. 6.85. v. quivi il Menag.) Idee diverse da quelle più stabilite e
comuni, e non per tanto radicatissime e sensibilissime in loro, che altrove non
riconoscono e non sentono la bellezza femminile.
(13.
Luglio 1821.)
La
nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti gli stili, e del modo nel quale
può essere applicata a tutti i generi di scrittura: fuorchè al genere
filosofico moderno e preciso. Perchè vogliamo noi ch’ella manchi e debba
mancare di questo, contro la sua natura, ch’è di essere adattata anche a
questo, perchè è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque l’esito sia
certo, non s’è fatta mai la prova di applicare la buona lingua italiana al
detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317]negli scritti
del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti del
Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla
lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni
d’allora. Ma a quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare
metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’
sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più
sottile, ec. non è stata mai applicata la buona lingua italiana. Ora questo
genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì.
(13.
Luglio 1821.)
I termini
della filosofia scolastica possono in gran parte servire assaissimo alla
moderna, o presi nel medesimo loro significato (quantunque la moderna avesse
altri equivalenti), il che non farebbe danno alla precisione, essendo termini
conosciuti nel loro preciso valore; o torcendolo un poco senz’alcun danno della
chiarezza ec. E questi termini si confarebbero benissimo all’indole della
lingua italiana, la quale ne ha già tanti, e i cui scrittori antichi,
cominciando da Dante, hanno tanto adoperato detta filosofia, ed introdottala
nelle scritture più colte ec. oltre che derivano tutti o quasi tutti dal
latino, [1318]o dal greco mediante il latino ec. Anche per questa parte
ci può essere utilissimo lo studio del latino-barbaro, ed io so per istudio
postoci, quanti di detti termini, andati in disuso, rispondano precisamente ad
altri termini della filosofia moderna, che a noi suonano forestieri e barbari;
e possano essere precisamente intesi da tutti nel senso de’ detti termini
recenti: e così quanti altri ve ne sarebbero adattatissimi, e utilissimi,
ancorchè non abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. anzi tanto più. Aggiungete
che benchè andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran parte di
detti termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e
per altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza.
(13.
Luglio 1821.). V. p.1402.
Alla
p.1285. Osserviamo inoltre quanti vocaboli derivati da soli antichi errori di
scrittura, si scoprano mediante la critica, essersi introdotti e ne’
Vocabolari, e nell’uso stesso degli scrittori antichi o moderni, che sogliono
formarsi sopra i più antichi, ed attingerne la lingua ec.
Alla
p.1259. principio. Nel che, intorno al giudizio del bello, non opera tanto l’assuefazione,
quanto l’opinione. Giacchè di momento in momento varia il giudizio, e se noi [1319]vediamo
una foggia di vestire novissima, e diversissima dall’usitata, noi subito o
quasi subito la giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della
bellezza, se sappiamo che quella foggia è d’ultima moda, e se al contrario, il
contrario ci accade, perchè quella nuova foggia contrasta sì all’assuefazione
nostra, come all’opinione. Aggiungete che noi giudichiamo bella quella nuova
foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme ricevute del bello,
eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il giudizio del bello,
vi vorrà però proporzionatamente qualche poco di tempo per concepirne il senso
istantaneo, vale a dire, acquistarne l’assuefazione, la quale conserva pur
sempre i suoi dritti; e disfare l’assuefazione passata.
Del
resto quanto la pura opinione indipendente dall’assuefazione stessa e da ogni
altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si potrebbe mostrare con
mille prove le più quotidiane, quantunque perciò appunto meno avvertite. Chi
non sa che una bellezza mediocre, ci par grande, s’ella ha gran fama? E che ci
sentiamo più inclinati, e proviamo il senso della bellezza molto più vivo nel
mirare una donna famosa per la [1320]beltà, che nel mirarne una più
bella, ma ignota, o meno famosa? Così pure se una donna non è bella, ma ha nome
di esserlo o è celebre per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec.
Così dico degli uomini rispetto alle donne ec. ec. Così negli scrittori: il
senso del bello è molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando
leggiamo p.e. un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne
leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello di
molti altri che sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in grandissima
parte non è altro che il contrarre un’opinione. Se il tal gusto, il tal genere
ec. è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi, quell’opera di quel tal
gusto o genere ec. non piace. Nel caso contrario, e se tu cambi opinione, ecco
che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e ci trovi infinite bellezze di
cui prima neppur sospettavi. Questo caso è frequentissimo in ogni genere di
cose. Pochissimi trovavano piacere nella lettura del buono stile italiano,
durante l’ultima metà del secolo passato, e i primi anni di questo. Oggi
moltissimi; e quei medesimi che non vi trovavano alcun diletto, anzi noia ec.,
oggi se ne pascono con gran piacere, perchè l’opinione in Italia è cambiata.
Fra questi così cambiati, sono ancor io.
[1321]Potrei condurre questo discorso a
cento altri particolari. Lo stile dei trecentisti ci piace sommamente perchè
sappiamo ch’era proprio di quell’età. Se lo vediamo fedelissimamente ritratto
in uno scrittore moderno, ancorchè non differisca punto dall’antico, non ci
piace, anzi ci disgusta, e ci pare affettatissimo, perchè sappiamo che non è
naturale allo scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla.
Questa è dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non è
assoluto, perchè la stessissima cosa, in diversa circostanza, ci par bella e
brutta, e se noi non sapessimo p.e. la circostanza che quel tale scrittore sia
moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo. Così dite delle imitazioni
le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti ec. ragguagliate cogli
originali, ancorchè non ne differiscano d’un capello, del che ho detto in altro
pensiero. Così dite della simmetria ec. del che v. la p.1259. Così dite degli
arcaismi i quali non ci offendono punto, nè ci producono verun senso di
mostruosità in uno scrittore antico, perchè sappiamo che allora si usavano; e
ci fanno nausea in un moderno, ancorchè di stile tanto simile all’antico, che
quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino dal rimanente nulla più che
negli antichi scrittori.
(14.
Luglio 1821.)
[1322]Ho detto altrove che la grazia
deriva bene spesso (e forse sempre) dallo straordinario nel bello, e da uno
straordinario che non distrugga il bello. Ora aggiungo la cagione di questo effetto.
Ed è, non solamente che lo straordinario ci suol dare sorpresa, e quindi
piacere, il che non appartiene al discorso della grazia; ma che ci dà maggior
sorpresa e piacere il veder che quello straordinario non nuoce al bello, non
distrugge il conveniente e il regolare, nel mentre che è pure straordinario, e
per se stesso irregolare; nel mentre che per essere irregolare e straordinario,
dà risalto a quella bellezza e convenienza: e insomma il vedere una bellezza e
una convenienza non ordinaria, e di cose che non paiono poter convenire; una
bellezza e convenienza diversa dalle altre e comuni. Esempio. Un naso affatto
mostruoso, è tanto irregolare, che distrugge la regola, e quindi la convenienza
e la bellezza. Un naso come quello della Roxolane di Marmontel, è
irregolare, e tuttavia non distrugge il bello nè il conveniente, benchè per se
stesso sia sconveniente; ed ecco la grazia, e gli effetti mirabili di questa
grazia, descritti festivamente da [1323]Marmontel, e soverchianti quelli
d’ogni bellezza perfetta. V. p.1327. fine. Se osserveremo bene in che cosa
consista l’eleganza delle scritture, l’eleganza di una parola, di un modo ec.,
vedremo ch’ella sempre consiste in un piccolo irregolare, o in un piccolo
straordinario o nuovo, che non distrugge punto il regolare e il conveniente
dello stile o della lingua, anzi gli dà risalto, e risalta esso stesso; e ci
sorprende che risaltando, ed essendo non ordinario, o fuor della regola, non
disconvenga; e questa sorpresa cagiona il piacere e il senso dell’eleganza e
della grazia delle scritture. (Qui discorrete degl’idiotismi ec. ec.) Il
pellegrino delle voci o dei modi, se è eccessivamente pellegrino, o eccessivo
per frequenza ec. distrugge l’ordine, la regola, la convenienza, ed è fonte di
bruttezza. Nel caso contrario è fonte di eleganza in modo che se osserverete lo
stile di Virgilio o di Orazio, modelli di eleganza a tutti secoli, vedrete che
l’eleganza loro principalissimamente e generalmente consiste nel pellegrino dei
modi e delle voci, o delle loro applicazioni a quel tal uso, luogo,
significazione, nel pellegrino delle metafore ec. Cominciando [1324]dal
primo verso sino all’ultimo potrete far sempre la stessa osservazione.
E ciò è
tanto vero, che se quella cosa pellegrina, p.e. quella voce, frase, metafora, diventa
usuale e comune, non è più elegante. Quanti esempi di fatto si potrebbero
addurre in questo particolare, mediante l’attenta considerazione delle lingue.
Per noi italiani è grandissima fonte di eleganza l’uso di voci o modi latini,
presi nuovamente da quella lingua, in modo che sieno pellegrini; ma non però
eccessivi nè come pellegrini, cioè per la forma troppo strana ec. ec. nè come
troppo frequenti latinismi. Ora infinite parole latine e modi, de’ quali gli
antichi scrittori arricchirono la nostra lingua, introducendo il pellegrino ne’
loro scritti, essendo divenuti usuali, e propri della lingua, o scritta o
parlata, non producono più verun senso di eleganza, benchè sieno della stessa
origine, forma, natura di quelle voci ec. che lo producono oggi. Quanti
latinismi di Dante, da che divennero italianismi, (e lo divennero da gran
tempo, e in grandissimo numero) sono buoni e puri, ma non hanno che far più
niente coll’eleganza e grazia.
[1325]Se quella cosa straordinaria o
irregolare nel bello, e dentro i limiti del bello, diventa ordinaria e
regolare, non produce più il senso della grazia. Perduto il senso dello
straordinario si perde quello del grazioso. Una stessa cosa è graziosa in un
tempo o in un luogo, non graziosa in un altro. E ciò può essere per due
cagioni. 1. Se quella tal cosa per alcuni riesce straordinaria per altri no. Il
parlar toscano riesce più grazioso a noi che a’ Toscani. Così le Fiorentinerie
giudiziosamente introdotte nelle scritture ec. Così l’eleganza e la grazia de’
Trecentisti la sentiamo noi molto più che quel tempo che li produceva; molto
più di quegli stessi scrittori, i quali forse non vollero nè cercarono d’esser
graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che
dovevano; nè s’accorsero della loro grazia: e lo stesso dico de’ parlatori di
quel tempo. Lo stesso delle pronunzie o dialetti forestieri ec. i quali
riescono graziosi fuor della patria, non già in patria. 2. Se quel tale
straordinario o irregolare ec. ad altri riesce compatibile col conveniente, col
bello ec. ad altri incompatibile, eccessivo, e distruttivo della regola, del
conveniente, del bello ec. Una stessa pronunzia ec. [1326]forestiera,
riesce graziosa in un luogo dove la differenza è leggiera ec. e sgraziatissima
in un altro, dove ella contrasta troppo vivamente e bruscamente colla
pronunzia, coll’assuefazione indigena ec. ec. Così dico dell’eccesso delle
Toscanerie popolari nelle scritture, che a noi riesce affettato, ec. ec.
Ma anche
questo giudizio è soggetto a variare, e quella stessa pronunzia o dialetto ec.
che riusciva insopportabile a quella tal persona, coll’assuefarvisi ec.
arriverà a parergli anche graziosa. Così dico d’ogni altro genere, e l’esperienza
n’è frequente.
Da tutto
ciò si deduce ancora che siccome il senso e l’idea della convenienza, regola, e
bellezza è relativa, così quella della grazia che risulta dall’idea di ciò ch’è
straordinario, irregolare ec. nel conveniente e nel bello ec., è interamente
relativa. Sicchè il grazioso è relativo nè più nè meno, come il bello, dalla
cui idea dipende ec.
Del
resto quello straordinario o irregolare ec. che non appartiene, ed è al tutto
fuori d’ogni sistema d’ordine, di regola, d’armonia di convenienza, cioè che
non è nel bello, non è punto grazioso, nè spetta al discorso della grazia; come
p.e. un animale straordinario, un fenomeno ec. ec.
(14.
Luglio 1821.)
Molte
cose si trovano, molte particolarità nelle forme umane (così dico del resto),
che sono sul confine della grazia e della deformità, o del difettoso, [1327]e
ad altri paiono graziose, ad altri paiono difetti, ad altri piacciono, ad altri
formalmente dispiacciono, o anche arrivano a piacere e dispiacere alla stessa
persona in diverse circostanze. La qualcosa conferma come il grazioso derivi
dallo straordinario, cioè da quello ch’è fuor dell’ordine sino a un certo
punto. Certo è che l’uomo o la donna può fare in modo, che, s’ella ha difetti
anche notabili, anche gravi, quegli stessi le servano a farsi maggiormente
amare, a rendersi piacevole e desiderata, e più delle altre, appunto nel mentre
che si conosce la sua imperfezione. (Questo dico sì dei difetti fisici come
morali ec.) E ciò per mezzo di giudiziosi contrapposti nella convenienza,
garbo, brio del portamento ec. ec. ec. in maniera che quel difetto venga
piuttosto a dare risalto al bello e al conveniente, che a distruggerlo,
ancorchè sia gravissimo. Di ciò son frequenti gli esempi, e spesso ridicoli ec.
Alla
p.1323. principio. Questo accade ancora perchè quella tale particolarità di
forma descritta da Marmontel, è bensì fuor dell’uso comune, ma è tuttavia
frequente a vedersi, il che produce l’assuefazione; e questa fa che quella tal
forma non si giudichi difettosa più che tanto, nè sembri irregolare e
sconveniente in modo che distrugga la convenienza, la regola, l’armonia ed il
bello delle [1328]altre parti. Se quello stesso
difettuzzo, senza esser niente maggiore in se stesso, fosse unico o
straordinarissimo, non sarebbe mai cagione di grazia. Dallo straordinario
sibbene; ma dall’unico o straordinarissimo, non nasce mai grazia, ma deformità;
perchè lo straordinario è allora eccessivo, non in quanto alla sua propria
natura e forma, ma in quanto straordinario, cioè fuori dell’assuefazione
affatto ec. ec. il che fa che contrastando eccessivamente coll’assuefazione,
distrugga l’idea della convenienza, idea che dipende dall’assuefazione ec. Se
quella tale particolarità riuscirà nuovissima ed unica ad una persona, ancorch’ella
sia frequente, questa persona concepirà il senso della deformità (v. p.1186.
marg.), mentre gli altri potranno concepir quello della grazia. E lo concepirà
poi anche questa persona, assuefacendosi a quel soggetto, o a quella stessa
particolarità in altri soggetti. E ciò gli potrà accadere ancora quando quel
difetto sia realmente grave.
(15. Luglio
1821.)
L’azione
viva e straordinaria, è sempre, o bene spesso, cagione d’allegria, purchè non
abbatta il corpo.
(15.
Luglio 1821.)
[1329]Perocchè l’arte militare fu
coltivata in Italia prima che altrove, o più che altrove nel principio (come
quasi tutte le discipline), perciò quest’arte conserva presso i forestieri e
nelle lingue loro, molte parole o termini italiani, cioè venuti dall’italiano,
e applicati a quell’arte o scienza in Italia, e da’ nostri scrittori. V. la
lettera del Lancetti al Monti nella Proposta ec. vol.2. par.1. nell’appendice.
(15.
Luglio 1821.)
Si suol
dire; se il tale incomodo ec. ec. fosse durevole, non sarebbe sopportabile.
Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante l’assuefazione e il tempo. All’opposto
diciamo frequentemente; il tal piacere ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse
durato. Anzi durando, non sarebbe stato più piacere.
(15
Luglio 1821.)
Non è
mai sgraziato un fanciullino che si vergogna, e parlando arrossisce, e non sa
stare nè operare nè discorrere in presenza altrui. Bensì un giovane poco
pratico del buon tratto, e desideroso di esserlo, o di comparirlo. Non è mai
sgraziata una pastorella che non sa levar gli occhi, trovandosi fra persone
nuove, nè ha la maniera di contenersi, [1330]di portarsi ec. Bensì una
donna, egualmente o anche meno timida, e più istruita, ma che volendo figurare,
o essere come le altre in una conversazione, non sappia esserlo o non abbia
ancora imparato. Così lo sgraziato non deriva mai dalla natura (anzi le dette
qualità naturali, sono graziose sempre ec. ec.), ma bensì frequentemente dall’arte,
e questa non è mai fonte di grazia nè di convenienza, se non quando ha
ricondotto l’uomo alla natura, o all’imitazione di essa, cioè alla
disinvoltura, all’inaffettato, alla naturalezza ec. E l’andamento necessario
dell’arte, è quasi sempre questo. Farci disimparare quello che già sapevamo
senza fatica, e toglierci quelle qualità che possedevamo naturalmente. Poi con
grande stento, esercizio, tempo, tornarci a insegnare le stesse cose, e
restituirci le stesse qualità, o poco differenti. Giacchè quella modestia,
quella timidezza, quella vergogna naturale ec. si trova bene spesso in molti,
non più naturale, chè l’hanno perduta, ma artifiziale, chè mediante l’arte
appoco appoco e stentatamente l’hanno ricuperata.
(15.
Luglio 1821.)
Ho detto
altrove che nell’antico sistema delle nazioni la vitalità era molto maggiore e
la mortalità minore che nel moderno. Non intendo con [1331]ciò di
fondarmi principalmente sopra la maggior durata possibile della vita umana in
quei tempi che adesso. Le storie provano che fra la più lunga vita degli
antichi e la più lunga de’ moderni (almeno fin da quei tempi de’ quali si hanno
notizie precise) non v’è divario, o poco; e smentiscono in questo i sogni di
alcuni. Ed è ben simile al vero che la natura abbia stabilito appresso a poco i
confini possibili della vita umana, oltre a’ quali non si possa per nessuna
cagione passare, come gli ha stabiliti agli altri animali, nella cui longevità
presente non credo che si trovi differenza coi tempi antichi. Almeno ciò si può
dire in ordine a quel sistema terrestre, a quell’epoca del globo terraqueo che
ci è nota; potendo però il detto sistema avere avuto altre epoche e grandi
rivoluzioni. Ed anche ci può essere (o esserci stata) qualche razza umana più
longeva o meno, come vediamo differenze notabili di longevità nelle razze p.e.
de’ cavalli.
Ma io
suppongo, e bisogna generalmente supporre, che l’antichità nota a noi non potesse viver più di quello che si possa vivere oggidì. La maggior vitalità del tempo
antico, non è quanto alla potenza, ma quanto all’effetto, vale a dire, la
realizzazione della potenza. [1332]Vale a dire che, non potendo gli
antichi vivere più lungamente di quello che possano i moderni, vivevano però,
generalmente parlando, più di quello che i moderni vivano, cioè si accostavano
più di loro ai confini stabiliti dalla natura, secondo le differenze
proporzionate delle complessioni, delle circostanze ec.; le morti naturali
immature erano più rare, o meno immature (e le non naturali se anche erano più
frequenti d’oggidì, non bastavano in nessun modo a pareggiar le partite);
conservavano il vigore, la sanità, ec. ec. in età dove oggi non si conservano;
in ciascheduna età erano proporzionatamente più gagliardi, più sani, insomma
più pieni di vitalità che i moderni, e meglio adattati alle funzioni del corpo,
e più potenti fisicamente; le malattie erano meno numerose, sì ne’ loro generi,
come individualmente; meno violente ec. o più curabili per rispetto al malato
ec. ec. ec. Sicchè la somma della vita era maggiore nel tempo antico,
quantunque nessuno in particolare potesse vivere più lungamente di quello che
possa viversi oggidì, e che taluni vivano.
Altra
gran fonte della ricchezza e varietà [1333]della lingua italiana, si è
quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme,
costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante detta
variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte cambiano
affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola inflessione che
serve a dinotare una piccola differenza della cosa primitivamente significata.
Non considero qui l’immensa facoltà delle metafore, proprissima, anzi
essenziale della lingua italiana (di cui non la potremmo spogliare senz’affatto
travisarla), e naturale a spiriti così vivaci ed immaginosi come i nostri
nazionali. Parlo solamente del potere usare p.e. uno stesso verbo in senso
attivo, passivo, neutro, neutro passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo
o senza; con uno o più nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso
luogo; con uno o più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella
preposizione, da questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o
segnacaso; co’ gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se,
quanto ec.); e così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla
varietà ed alla eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in
somma alla bellezza del discorso, [1334]ma anche sommamente all’utilità,
moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a
distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la
significazione, e modificarla; potendo l’italiano esprimere facilissimamente e chiaramente,
mille cose nuove con parole vecchie nuovamente modificate, ma modificate
secondo il preciso gusto della lingua ec. Questa facoltà l’hanno e l’ebbero
qual più qual meno tutte le lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra
lingua in ciò pure, non cede forse e senza forse nè alla greca nè alla latina,
e vince tutte le moderne. E l’è tanto propria una decisa singolarità e
preminenza in questa facoltà, che forma uno de’ principali ed essenziali
caratteri della lingua italiana formata e applicata alla letteratura. Come
dunque vogliamo spogliarla di questo suo carattere proprissimo, e dell’utilità
che ne risulta? Come vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di
continuare a servirsene? Se essa fu data alla lingua da’ suoi fondatori e
formatori ec. E se del tal uso della tal parola non si troverà esempio nel
Vocabolario, dovrà condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi
perfettamente simili e della stessa natura in altre parole, e quantunque il
detto uso sia perfettamente d’accordo colla detta facoltà della lingua, e colla
sua indole? Perchè una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in
lei [1335]sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il
materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà sterili,
e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta pedanteria si è
questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll’orecchio nè coll’indole
della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll’orecchio proprio, ma
cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacchè gli è mero caso che gll
antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal modo ec. e che
avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita da’ Vocabolaristi.
Ma non è caso ch’essi abbiano data o non data alla lingua la facoltà di usarla
ec. e che quella voce, forma ec. convenga o non convenga colle proprietà della
lingua da loro formata, e col suo costume. ec. E questo non si può giudicare
col Vocabolario, ma coll’orecchio formato dalla lunga ed assidua lettura e
studio non del Vocabolario ma de’ Classici, e pieno e pratico, e fedele
interprete e testimonio dell’indole della lingua, sola solissima norma per
giudicare di una voce o modo dal lato della purità e del poterlo usare ec. E
questa fu l’unica guida di tutti quanti i Classici scrittori [1336]sì di
tutte le lingue, come della nostra prima del Vocabolario, dal quale che effetto
sia risultato in ordine alla stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia
giovato alla conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse
principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
Io qui
non intendo solamente difendere i nuovi usi delle parole (nel rispetto
soprannotato) che si fa per sola utilità, ma quello pure che si fa per mera eleganza,
senza necessità veruna, ma serve colla sua novità, a dare alla locuzione ec.
ec. quell’aria di pellegrino, e quel non so che di temperatamente inusitato, e
diviso dall’ordinario costume, da cui deriva l’eleganza ec.
In
proposito e in prova di quanto ho detto p.1322.-28. che la grazia deriva dallo
straordinario medesimo, che quando è troppo, per un verso o per un altro,
cagiona l’effetto opposto; osservate che l’inusitato nelle scritture nella
lingua, nello stile, è fonte principalissima di affettazione di sconvenienza,
di barbarie, d’ineleganza, e di bruttezza; e l’inusitato è pur l’unica fonte dell’eleganza. V. il Monti Proposta ec. vol.1. par.1. Append. p.215.
sotto il mezzo [1337]- seg. e la p.1312. capoverso ult.
(17.
Luglio 1821.)
Alla
p.1312. marg. Per l’indeterminato può servir di esempio Virg. En. 1.465. Sunt
lacrimae rerum: et mentem mortalia tangunt. Quanto all’irregolare, abbiamo
veduto p.1322-28. e nel pensiero superiore, che l’eleganza propriamente detta
deriva sempre dal pellegrino e diviso dal comun favellare, il che per un verso
o per un altro è sempre qualcosa d’irregolare, sia perchè quella parola è
forestiera, e quindi è, non dirò contro le regole, ma irregolare, o fuor delle
regole l’usarla; sia perchè quel modo è nuovamente fabbricato comunque si
voglia ec. Ed osservate che, escluso sempre l’eccesso, il quale produce il
contrario dell’eleganza, dentro i limiti di quella irregolarità che può essere
elegante, la eleganza maggiore o minore, è bene spesso e si sente, in
proporzione della maggiore o minore irregolarità. Ciò non solo quanto alla
lingua, ma allo stile ec. Nell’ordine non v’è mai eleganza propriamente detta.
Vi sarà armonia, simmetria ec. ma l’eleganza nel puro e rigoroso ordine non può
stare. Nè vi può star la natura, ma la ragione, che l’ordine è sempre segno di
ragione in qualunque cosa.
(17.
Luglio 1821.)
[1338]Alla p.1113. mezzo. Habitare
che nel suo significato metaforico, (divenuto da gran tempo proprio) di abitare (notate che si usa spesso attivamente coll’accusativo e passivamente) è
manifestamente continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere.
V. il Forcellini.
(17.
Luglio 1821.)
Perchè
la medicina ha fatto da Ippocrate in qua meno progressi, e sofferto meno
cangiamenti essenziali che, possiamo dire, qualunque altra scienza, in pari
spazio di tempo; e quindi conservasi forse più vicina di ogni altra alla
condizione e misura ec. in cui venne dalla Grecia; perciò quella parte della
sua nomenclatura che si compone di vocaboli greci, è forse maggiore che in
qualsivoglia altra scienza o disciplina, ragguagliatamente e proporzionatamente
parlando. Non dico niente della Rettorica ec.
(17.
Luglio 1821.). V. p.1403.
Gli
Ebrei pongono o suppongono uno sceva semplice (cioè una e muta che non
fa sillaba) espresso o sottinteso sotto, cioè dopo, tutte le consonanti che non
hanno altra vocale, sia nel principio, nel mezzo o nel fine delle voci.
Ragionevolmente perchè i nostri organi cadono naturalmente in una leggerissima e,
non solo pronunziando una consonante isolata, o una parola terminata per
consonante, e non seguita [1339]subito da parola cominciante per vocale,
ec. ma anche nel pronunziare due o più consonanti di seguito in una stessa
parola, come TRAvaglio ec. quella o quelle consonanti che non hanno
altra vocale, s’appoggiano insensibilmente in una e tenuissima; e non
possono mai nudamente e puramente addossarsi alla consonante che segue. Eccetto
quando quelle due o più consonanti fanno un tal suono che benchè rappresentato
con più caratteri, è però effettivamente uno solo, ed equivale ad una sola
lettera; (lettera non rappresentata nell’alfabeto distintamente; e ve ne sono
parecchie; del che v. gli altri pensieri sulla ricchezza dell’alfabeto naturale
pronunziato) come le consonanti doppie (tuTTo), come nella suddetta voce
travaglio, le consonanti g ed l ec. Non così nell’x benchè
rappresentato con un solo carattere. ec.
(17.
Luglio 1821.)
Alla
p.1257. Insomma questa idea benchè entri subito nel bello ideale, è figlia
della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza che deriva dalle
nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci e
impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza, il che non è più
bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca provare si è, che queste
sensazioni, sole nostre maestre, c’insegnano che le cose stanno così, perchè
così stanno, e [1340]non perchè così debbano assolutamente stare, cioè
perch’esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure
dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo
naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma
questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto
ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di
essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio
anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate
distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro
contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un fondamento, una
ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e
quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti
soggetti, e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e
in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci
deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e
il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate
dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v’è altra possibile [1341]ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere
così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà,
da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola
ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è
buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la
convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente.
(17.
Luglio 1821.)
In somma
il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è
assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa
non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono possibili,
cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa essere, o
essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le
possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili.
Vale a
dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu,
o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè
potendo avere il menomo [1342]dato per giudicare delle cose avanti le
cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale
errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio,
attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la
necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo, che noi
giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, son tali
solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei
sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho
provato in tanti altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma
relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma
negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec.
nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non
costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in
perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e
talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di
essere in un tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è
perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme
Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.
Il
nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti
gli altri, e volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo con caratteri
particolari e distinti. Giacchè il gli, benchè partecipi del suono di g
e di l ne partecipa come [1343]suono affine, alla maniera di
tanti altri, che pur si distinguono da’ loro affini, con caratteri propri; ma
in realtà non è nè g, nè l, e non contiene precisamente nessuno
dei due, ed è una consonante distinta, ed unica, quando anche si voglia
chiamare composta, come la z. La quale sarebbe male espressa con ts
o ds ec. Così la f è differente dal p, quantunque sia
composta di questo suono, e di un’aspirazione o soffio, e i greci anticamente l’esprimessero
col carattere del p, e con quello dell’aspirazione cioè H. Quel suono
che contiene veramente il g e la l, è quello della nostra parola Inglese,
o del francese aigle, anzi generalmente del francese gl, ben
diverso dal nostro gli. Tuttavia si può lodare, l’avere (per maggior
semplicità dell’alfabeto) rappresentato questo suono, co’ due caratteri, del
suono de’ quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza con cui s’è
analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni che non
equivalgono precisamente a verun altro. Questa lode però spetta particolarmente
alla lingua italiana, giacchè i francesi esprimono il detto suono con due ll,
e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male appropriato, e che
dimostra minor sottigliezza di analisi. V. p.1345. capoverso 2. Nel qual
proposito mi piace di riferire quello che dice M. Beauzée (Encycl. méthod. in
H.), parlando di un altro carattere, cioè dell’h. Il semble qu’il auroit été
plus raisonnable de supprimer de [1344]notre orthographe tout caractere
muet: et celle des Italiens doit par-là meme arriver plutôt que la nôtre à son
point de perfection, parce qu ‘ils ont la liberté de supprimer les H muetes.
La mia osservazione
ancora può molto servire a mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il
suo sistema sia più filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse
qualunque altro. Puoi vedere la p.1339. (17. Luglio 1821.). Il gl, il gn
ec. hanno parte di g e parte di l, ec. ma non contengono queste
due lettere intere, e non sono nè l’una nè l’altra. Sono dunque vere lettere
proprie, e non doppie, perchè non è doppio quello che ha due metà. Così dico
della z. Non così l’x, che contiene due lettere intere, e non è
che una cifra, ossia un carattere (e non lettera) doppio.
Alla
p.1246. marg. Ho detto altrove che la lingua francese è universale, anche
perchè lo scritto differisce poco dal parlato, a differenza dell’italiano.
Questo non si oppone alle presenti osservazioni: 1. perchè ciò s’intende, ed è
vero, massimamente nel gusto, nella costruzione nella forma, e nel corpo intero
della lingua e dello stile francese scritto, che pochissimo varia dal parlato:
ma non s’intende delle particolari parole e locuzioni e costruzioni volgari. 2.
perchè la lingua francese polita differisce dalla popolare assai meno dell’italiana.
E ciò, primo, per le circostanze politiche e sociali ec. diverse assai nell’una
nazione rispetto all’altra: secondo, [1345]perchè la lingua italiana
essendo divisa in tanti dialetti popolari, ha un dialetto comune e polito
necessariamente diviso assai da tutte le favelle popolari; dico un dialetto
comune, non solo scritto, ma parlato da tutte le colte persone d’Italia, in
ogni circostanza conveniente ec. Ora la singolarità della lingua italiana
scritta consiste appunto nell’aver preso più di qualunque altra, dalla favella
popolare sì divisa dalla colta, e massime da un particolare dialetto vernacolo,
ch’è il toscano; e nell’aver saputo servirsene, e nobilitare, e accomodare alla
letteratura quanto n’ha preso. Ma la lingua francese scritta, poco si
differenzia da quella della conversazione ec.: dove però questa si differenzia
da quella del volgo, quella del volgo non influisce e non somministra nulla
alla lingua letterata francese. 3. Ho già detto che da principio, cioè quando
la lingua italiana scritta seguiva principalmente questo costume di attingere
dalla favella popolare, costume che ora ha quasi, e malamente, abbandonato,
allora anch’ella era effettivamente assai simile alla parlata. ec. Anche ora
ella si accosta al [1346]parlar polito, e vi si accosta più di quello
che mai facesse il latino scritto ec. ma non si accosta al parlar popolare, che
tanto fra noi differisce dal polito.
Molte
qualità che ad altri riescono dispettose e sguaiate, ad altri riescono graziose.
Come il parlar flemmatico degli uomini, piace spesso alle donne, a noi pare
accidioso. Viceversa accadrà circa il parlar delle donne. Così certe pronunzie
o dialetti languidi, cascanti, strascinati, delicati, smorfiosi, come fra noi
il maceratese ec.
(19.
Luglio 1821.)
Alla
p.1343. marg. Anche questo però serve a dimostrare che il detto suono, non è
quello di g ed l: il quale è rappresentato appunto da’ francesi
ec. con gl, ed anche da noi, come ho detto. Del resto il suono del
nostro gli e dell’ill francese, ed ll spagnuolo, mancava
alla lingua latina ed alla greca, le quali però aveano il suono del gl come
in Aegle (Virg. Ecl. 6. 20-21.), glukçw ec.
(19.
Luglio 1821.)
Dalle
lettere consonanti che cadono necessariamente in e, bisogna eccettuare
il nostro c e g chiuso, e il ch degli spagnuoli, le quali [1347]lettere
non si possono pronunziare se non cogli organi, vale a dire la lingua, il
palato, e i denti così serrati, che il suono, anche nel mezzo della parola e in
qualunque luogo, esce inevitabilmente in un i, quanto si voglia tenue, e
ciò perchè l’i è la vocale più esile e stretta. Esce dico in un i
ma poi termina veramente in un e (quasi ie), qualunque volta le
dette lettere, e i suoni loro analoghi si pronunzino isolati, o nel fine di una
parola, o insomma senz’altro appoggio di vocale. Così accade anche ai suoni che
partecipano dei sopraddetti, come gli (che noi non iscriviamo mai senza
l’i, o lo pronunziamo in altro modo) e gn. V. p.1363. Del resto
il nostro c e g chiusi, noi li poniamo anche avanti alla e,
quantunque questa insieme coll’i sia la sola vocale a cui la preponiamo.
Ciò per altro nella scrittura. Ma la pronunzia frappone sempre un i
anche al c ed e, ec.; e così solevano fare i nostri antichi anche
nella scrittura di quelle voci, dalle quali una poco analitica ortografia ha
escluso l’i.
(19.
Luglio 1821.)
Io non
avendo mai letto scrittori metafisici, e occupandomi di tutt’altri studi, e
null’avendo imparato di queste materie alle scuole (che non ho mai vedute),
aveva già ritrovata la falsità delle idee innate, indovinato l’Ottimismo [1348]del
Leibnizio, e scoperto il principio, che tutto il progresso delle cognizioni
consiste in concepire che un’idea ne contiene un’altra; il quale è la somma
della tutta nuova scienza ideologica. Or come ho potuto io povero ingegno,
senza verun soccorso, e con poche riflessioni, trovar da me solo queste
profondissime, e quasi ultime verità, che ignorate per 60 secoli, hanno poi
mutato faccia alla metafisica, e quasi al sapere umano? Com’è possibile che di
tanti sommi geni, in tutto il detto tempo, nessuno abbia saputo veder quello,
ch’io piccolo spirito, ho veduto da me, ed anche con minori cognizioni in
queste materie, di quelle che molti di essi avranno avuto?
Non è
dunque vero in se stesso, che lo spirito umano progredisce, graduatamente, e
giovandosi principalmente dei lumi proccuratigli dal tempo, e delle verità già
scoperte da altri, e deducendone nuove conseguenze, e seguitando la fabbrica
già cominciata, e adoprando i materiali già preparati.
Se noi
potessimo interrogare i sommi scopritori delle più sublimi, profonde ed estese [1349]verità,
sapremmo quante poche di queste scoperte si debbano ai lumi somministrati dalle
età precedenti; quanti di detti geni, per l’ordinario intolleranti degli studi,
abbiano ignorate le verità già scoperte ec.; quanti abbiano ritrovate le grandi
verità che hanno manifestate al mondo, non prevalendosi delle cognizioni
altrui, ma da loro stessi, e in seguito de’ soli loro pensieri; e piuttosto
dopo ritrovate, si siano accorti ch’elle erano conseguenze delle già
conosciute, di quello che ne le abbiano dedotte, e se ne sieno serviti,
quantunque dopo trovate, ne abbiano considerati e mostrati i rapporti ec. ec.
ec. Esempio di Pascal ec. Bacone aveva già scoperto tante verità che fanno
stupire i moderni più profondi e illuminati. Ora egli scriveva nel tempo del
rinascimento della filosofia, anzi era quasi il primo filosofo moderno: e
quindi il primo vide assai più che non saprebbero vedere infiniti suoi
successori, con tutti i lumi in seguito acquistati.
Qual è
dunque la ragione per cui lo spirito umano, ha trovate ne’ due ultimi secoli,
tante verità profondissime, tanto ignote a tutti i passati? Dico la ragione
principale, giacchè quella che ho detta, benchè certo sia una ragione, non è
però principale, o certo non è universale. Ora trattandosi che fra tanti sommi
spiriti antichi nessuno si è pure accostato alle verità, che molti e certo
parecchi moderni hanno scoperto, o del tutto o massimamente da [1350]loro,
bisogna trovarne delle ragioni universali, cioè intere, e necessarie, e che
spieghino tutto l’effetto. Io penso che sieno queste.
1. La differenza delle lingue, e la maggiore o
minor copia de’ termini, maggiore o minor precisione e universalità
loro, e certezza di significato e stabilità. V. Sulzer, negli Opuscoli
interessanti di Milano, vol.4. p.65-70. 79-80. La maggiore o minor copia di
parole esprimenti idee chiare ec. v. ib. p.53-54. Una delle grandi ragioni per
cui i greci negli studi astratti e profondi (sì filosofici che gramatici ec.
ec. ec.) come in ogni altro genere di cognizioni andarono avanti a tutti gli
antichi, ai latini ec. io credo certo che sia la gran facilità che aveva la
loro lingua ad esprimere, ed esprimere precisamente le nuove cose, le nuove e
particolari idee di ciascuno. Facilità che si sperimenta anche oggi nell’attingere
da quella lingua a preferenza di ogni altra i nomi delle nuove o più precise e
sottili cose ed idee, e le intere nomenclature ec.
Per
questa parte il tempo ha giovato certo alla scoperta delle nuove verità, perchè
le cognizioni influiscono sulla lingua, come questa su [1351]quella. Ma
ha giovato mediatamente, e io vengo a dire, che i moderni inventori non si sono
tanto giovati immediatamente delle cognizioni già preparate, quanto di quella
lingua che avevano, la quale a differenza delle antiche, era sufficiente a
fissare e determinare nella loro mente le idee nuove che concepivano, a
dichiararle, cioè renderle chiare, costanti e non isfuggevoli ad essi stessi
ec. ec.
2. Le nuove nazioni che si son date al pensiero.
L’antica coltura fu tutta meridionale. Il settentrione anticamente non sapeva
ancora pensare, o non aveva tempo nè comodo, o se pensava, non iscriveva nè
comunicava, nè stabiliva e determinava i pensieri colla scrittura. Il
settentrione, l’Inghilterra, la Germania, patria del pensiero (Staël), è
nuovo e moderno in quella filosofia ch’è pur fatta per lui. Nuovo e moderno
perchè quella stessa natura che lo rende sì proprio alle nozioni astratte, lo
rende più difficile e tardo alla civiltà. E per se stessa l’allontana tanto
dalla filosofia, quanto poi ve lo conduce coll’ajuto della coltura. [1352]Ma
appena si diede alla filosofia, vi fece tali progressi, quali il mezzogiorno in
tanta maggior luce di civiltà e di letteratura, non sognava ancora di fare.
Bacone detto di sopra era inglese. Leibnizio tedesco. Newton, Locke ec. La
Germania elevata assai dopo l’Inghilterra, cioè dopo Federico II ad una
universale e stabile letteratura, è divenuta in un momento la sede della
filosofia astratta, ec.
3. E questa è la ragione principale. Differenza
naturale d’ingegno fra gli antichi e i moderni è assurdo il supporlo. Ma ben è
certissimo che le circostanze modificano gl’ingegni in maniera che li fanno
sembrare di diversa natura. Or quanto le moderne circostanze degli uomini, sì
fisiche, che morali, politiche ec. favoriscano la riflessione e la ragione, e
quanto le antiche circostanze giovando sommamente e promovendo l’immaginazione,
sfavorissero la profonda riflessione, l’ho già spiegato molte volte. Laonde io
dico che un uomo di genio il quale venti o più secoli fa si fosse trovato nelle
circostanze in cui si trova oggi il particolare, non ostante la differenza dei
lumi, e il minor numero delle cognizioni, avrebbe [1353]potuto arrivare
da se stesso appresso a poco a quel punto a cui sono arrivati i moderni
filosofi e metafisici sommi, o se non altro accostarsi moltissimo a quelle
verità che gli antichi o non hanno pur travedute, o per difetto della lingua
ec. non hanno potuto determinare, nè comunicare altrui, nè fissare nella stessa
lor mente. Ma un tal uomo in tali circostanze, si sarebbe probabilmente formata
anche una lingua sufficiente. ec. Questo è confermato dal vedere 1. che tra gli
antichi, in piccole differenze di tempi e di lumi, si trovano grandissime
differenze di pensare e di filosofia, secondo le diverse circostanze. Quanto è
distante Tacito da Livio? Appena un secolo. Morì Livio l’anno 17. nacque Tacito
secondo il Lipsio (Vit. Taciti) verso il 54. di Cristo, cioè 37 anni dopo. Quanto
progresso potevano aver fatto le cognizioni universali ec. e lo spirito umano
generalmente, in sì poco tempo? Eppure qual differenza di profondità. Anzi si
può dire che Livio è il tipo del genere storico antico, Tacito del moderno. 2.
che tra i moderni si trovano pure le stesse differenze in un medesimo tempo ec.
per diverse circostanze di vita. Chi non sa che l’uomo, e l’ingegno, e i parti
e i frutti dell’ingegno, tutto è opera delle circostanze?
[1354]Da queste osservazioni deducete che
siccome le circostanze presenti sì favorevoli alla riflessione, e alla
investigazione degli astratti, non sono naturali, così la natura aveva ben
provveduto anche allo stato sociale dell’uomo, anche a quelle verità che
dovevano giovare a questo stato, e servirgli di base; verità ben note agli
antichi, tanto meno profondi di noi. Che giovano finalmente le verità astratte,
quando anche in un eccesso di metafisica, la mente umana non si smarrisse?
Quanto erano più utili quelle verità che io stabiliva circa la politica ec. di
queste più metafisiche, alle quali ora mi porta l’avanzamento, e il naturale
andamento e assottigliamento successivo del mio intelletto! Così che si può
dire che la filosofia (intendendo la morale ch’è la più, e forse la sola utile)
era, quanto all’utilità, già perfetta al tempo di Socrate che fu il primo
filosofo delle nazioni ben conosciute; o vogliamo dire al tempo di Salomone. Ed
ora benchè tanto avanzata, non è più perfetta, anzi meno, perchè soverchia, e
quindi corrotta anch’essa, corrotta anche la ragione, come la civiltà e la
natura. [1355]Corrotta, dico, per eccesso, come queste ec. Giacchè la
perfezione o imperfezione e corruzione, si deve misurare dal fine di
ciascheduna cosa, e non già assolutamente.
Una cosa
è tanto più perfetta quanto le sue qualità sono meglio ordinate al suo fine.
Questa perfezione evidentemente relativa, si può misurare, e paragonare anche
con perfezioni d’altri generi. Ma la maggiore o minor perfezione dei
diversi fini come si può misurare? come si possono comparare i diversi fini?
Che ragione assoluta, che norma comparativa esiste indipendentemente da
checchessia, per giudicare questo fine più perfetto o migliore di quello, fuori
di un medesimo sistema di fini? (Giacchè dentro un medesimo sistema, i fini
subalterni si possono paragonare: non sono però veramente fini, ma mezzi, e
parti, e qualità anch’essi del sistema.) Come dunque si può assolutamente
giudicare della maggiore o minor perfezione astratta delle cose? E come può
sussistere un bene o un male assoluto, una bontà o bellezza assoluta, o i loro
contrari?
(20.
Luglio 1821.)
[1356]Un viso bellissimo, il quale abbia
qualche somiglianza con una fisonomia di nostro controgenio, o che abbia l’idea,
l’aria di un’altra fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello.
(20.
Luglio 1821.)
È cosa
già nota che la letteratura e poesia vanno a ritroso delle scienze. Quelle
ridotte ad arte isteriliscono, queste prosperano; quelle giunte a un certo
segno, decadono, queste più s’avanzano, più crescono; quelle sono sempre più
grandi più belle più maravigliose presso gli antichi, queste presso i moderni;
quelle più s’allontanano dai loro principii, più deteriorano, finchè si
corrompono, queste più son vicine ai loro principii più sono imperfette,
deboli, povere, e spesso stolte. La cagione è che il principal fondamento di
quelle è la natura, la quale non si perfeziona (fuorchè ad un certo punto) ma
si corrompe; di queste la ragione la quale ha bisogno del tempo per crescere,
ed avanza in proporzione de’ secoli, e dell’esperienza. La qual esperienza è
maestra della ragione, nutrice, educatrice della ragione, e omicida della
natura. Così dunque accade rispetto alle lingue. [1357]Quelle qualità
loro che giovano per l’una parte alla ragione, e per l’altra da lei dipendono,
si accrescono e perfezionano col tempo; quelle che dipendono dalla natura,
decadono, si corrompono, e si perdono. Quindi le lingue guadagnano in
precisione, allontanandosi dal primitivo, guadagnano in chiarezza, ordine,
regola ec. Ma in efficacia, varietà ec. e in tutto ciò ch’è bellezza, perdono
sempre quanto più s’allontanano, da quello stato che costituisce la loro
primitiva forma. La combinazione della ragione colla natura accade quando elle
sono applicate alla letteratura. Allora l’arte corregge la rozzezza della
natura, e la natura la secchezza dell’arte. Allora le lingue sono in uno stato
di perfezione relativa. Ma qui non si fermano. La ragione avanza, e avanzando
la ragione, la natura retrocede. L’arte non è più contrabbilanciata. La
precisione predomina, la bellezza soccombe. Ecco la lingua che avendo perduto
il suo primitivo stato di natura, e l’altro più perfetto di natura regolata, o
vogliamo dire formata, cade [1358]nello stato geometrico, nello stato di
secchezza, e di bruttezza. (La lingua francese nella sua formazione, si accostò
fin d’allora, per le circostanze del tempo, a quest’ultimo stato, perchè
prevalse in essa la ragione, e l’equilibrio fra l’arte e la natura, nella
lingua francese non vi fu mai, o non mai perfetto.) I filosofi chiamano questo
stato, stato di perfezione, i letterati, stato di corruzione.
Nessuno
ha torto. Quelli che hanno a cuore la bellezza di una lingua, hanno ragione di
essere malcontenti del suo stato moderno, e saviamente la richiamano a’ suoi
principii; voglio dire al tempo della sua formazione, e non più là, che questo
pazzamente si pretende, e volendo rigenerare la lingua, anche quanto alla
bellezza, si fa l’opposto, perchè si caccia da un estremo ad un altro: e negli
estremi la bellezza non può stare, bensì nel mezzo, e in quel punto in cui ella
è formata e perfezionata. Quelli a’ quali preme che la lingua serva agl’incrementi
della ragione, raccomandano la precisione, promuovono la ricchezza de’ termini,
fuggono e scartano le voci e frasi ec. che sono belle ed eleganti con danno
della sicurezza [1359]e chiarezza e facilità ec. della espressione; ed
odiano l’antica forma, insufficiente e dannosa allo stabilimento e
comunicazione delle profonde e sottili verità.
Come
dunque faremo? L’andamento delle cose umane, è questo; questo l’andamento delle
lingue. La perfezione filosofica di una lingua può sempre crescere; la
perfezione letterata, dopo il punto che ho detto, non può crescere (eccetto ne’
particolari) anzi non può se non guastarsi e perdersi. Tutti due hanno ragione,
e grandissima. Converrebbe accordarli insieme. La cosa è difficile, ma non
impossibile. Una lingua, massime come la nostra (non così la francese), può
conservare o ripigliare le antiche qualità, ed assumere le moderne. Se gli
scrittori saranno savi, ed avranno vero giudizio, il mezzo di concordia è
questo.
Dividersi
perpetuamente i letterati e i poeti, da’ filosofi. L’odierna filosofia che
riduce la metafisica, la morale ec. a forma e condizione quasi matematica, non
è più compatibile con la letteratura e la poesia, com’era compatibile quella de’
tempi ne’ quali fu formata la lingua nostra, la latina, la greca. (Ho già detto
che la francese non ha vera letteratura nè poesia, eccetto quella letteratura
epigrammatica e di conversazione, ch’è loro propria, e dove riescono assai
bene; che il resto è piuttosto filosofia che letteratura.) La filosofia di
Socrate poteva e potrà sempre [1360]non solo comparire, ma infinitamente
servire alla letteratura e poesia, e gioverà pur sempre agli uomini più dell’odierna
(v. p.1354.), dalla quale non negherò che non possa ricevere qualche
miglioramento, quasi accessorio, o quasi rifiorimento. Ma la filosofia di
Locke, di Leibnizio ec. non potrà mai stare colla letteratura nè colla vera
poesia. La filosofia di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla
ne partecipa, ed è tutta ragione. Perciò nè essa nè la sua lingua è compatibile
colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei
lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno
sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socrate.
È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna all’uomo
sociale. Si dividano dunque le lingue, e la nostra che tante ne contiene, e
così diverse anche dentro uno stesso genere, potrà ben contenere allo stesso
tempo una lingua bella, e una lingua filosofica. Ed allora avrà una filosofia,
e seguirà ad avere quella poesia, e quella letteratura nella quale ha sempre
superato tutte le moderne.
Conosco
bene che l’età del vero non è quella del bello: e che un secolo o un terreno
fecondo di grandi intelletti, difficilmente sarà fecondo di grandi
immaginazioni e sensibilità, perchè gl’ingegni degli uomini si modificano
secondo le circostanze. In tal caso sarà sempre costante che siccome questa è l’età
del vero, bisogna che la lingua nostra assuma le qualità che servono al vero, e
ch’ella non ebbe mai. Quando però l’Italia, terra del bello e del grande, possa
pur continuare [1361]a produrre ingegni atti alla letteratura e alla
poesia, l’unico mezzo di fare che anche questi abbiano o seguano ad avere una
lingua, e non pregiudicata dalla natura del secolo, è quello che ho detto.
(20.
Luglio 1821.)
Tutto
ciò si deve applicare non solo alle lingue, ma alle letterature ancora, la cui
perfezione parimente consiste in quel punto che ho detto delle lingue, ec. ed
alle quali parimente conviene separarsi dalla moderna filosofia, ed ai
letterati non esser filosofi alla moderna, non solo nelle scritture, ma, se è possibile,
neppur nell’animo ec.
(21. Luglio 1821.)
Oéd¢n toè ÷lou, rien du
tout, pas (che val propriamente nulla) du tout.
(21
Luglio 1821.)
Chi vuol
vedere la differenza fra l’amor patrio antico e moderno, e fra lo stato antico
e moderno delle nazioni, e fra l’idea che s’aveva anticamente, e che si ha
presentemente del proprio paese ec. consideri la pena dell’esilio, usitatissima
e somma presso gli antichi, ed ultima pena de’ cittadini romani; ed oggi quasi
disusata, e sempre minima, e [1362]spesso ridicola. Nè vale addurre la
piccolezza degli stati. Presso gli antichi l’essere esiliato da una sola città,
fosse pur piccola, povera, infelice quanto si voglia, era formidabile, se
quella era patria dell’esiliato. Così forse anche oggi nelle parti meno civili;
o più naturali, come la Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio è ben
noto ec. Oggi l’esilio non si suol dare veramente per pena, ma come misura di
convenienza, di utilità ec. per liberarsi della presenza di una persona, per
impedirla da quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine principale
dell’esiliare, era il gastigo dell’esiliato. ec. ec. (21. Luglio 1821.). La
gravità della pena d’esilio consisteva nel trovarsi l’esiliato privo de’
diritti e vantaggi di cittadino (giacchè altrove non poteva essere cittadino),
i quali anticamente erano qualche cosa.
Tutte le
battaglie, le guerre ec. degli antichi, stante il sistema dell’odio nazionale,
che altrove ho largamente esposto, erano disperate, e con quella
risoluzione di vincere o morire, e con quella certezza di nulla guadagnare o
salvare cedendo, che oggi non si trovano più.
(21.
Luglio 1821.)
Mess. ad
uno che gli esponeva la sua passione per una donna, Ma ella, disse, è tua
rivale. Soleva dire che tutte le donne sono ardentissime rivali de’ loro
amanti.
(21.
Luglio 1821.)
[1363]Alla p.1347. marg. Così anche
cadono necessariamente nell’i il ch, il ge e gi, e
lo j francesi. Così pure il nostro e latino sci o sce, che
sono suoni distinti, e ben diversi da quello della s e del c schiacciato, qual è p.e. il suono di s e c in excitare; e
molto più da quello della s e del c duro. Il ge e gi de’ francesi, e il loro j sono pure nello stesso modo ben differenti dal
suono di s e g qual è p.e. in disgiunto. Il detto suono
francese a noi manca, mancava ai latini, ai greci, manca agli spagnuoli ec.
Manca pure (ch’io sappia) agli spagnuoli il nostro sci o sce,
francese ch, inglese sh. Del resto il c e g schiacciato,
e tutti gli altri suoni affini a questi, mancarono e mancano ai greci. Mancano
pure detti suoni ai francesi, che però hanno gli altri suoni affini che abbiamo
veduto. Manca quello del gi o ge italiano e latino agli
spagnuoli. Tedeschi, inglesi ec.
(21.
Luglio 1821.)
I greci
ponevano nella stessa Roma iscrizioni greche, quali sono le famose Triopee
fatte porre da Erode Attico, benchè trattino di oggetti, si [1364]può
dir, tutti e del tutto romani.
(21.Luglio
1821.)
Noi
facilmente ci avvezziamo a giudicar piccole, o compensabili ec. le disgrazie
che ci accadono, le privazioni ec. perchè conosciamo e sentiamo il nulla del
mondo, la poca importanza delle cose, il poco peso degli uomini che ci ricusano
i loro favori ec. Viceversa gli antichi, i quali giudicavano tanto importanti
le cose del mondo, e gli uomini, da credere che i morti e gl’immortali se ne
interessassero sopra qualunque altro affare.
(21.
Luglio 1821.)
Sopravvenendo
un mal minore a un maggiore, o viceversa, sogliamo dire, Se potessi liberarmi,
ovvero, se non mi travagliasse questo male così grave, terrei per un nulla
questo leggero. E accadrebbe in verità l’opposto: che ci parrebbe assai
maggiore che or non ci pare.
(21.
Luglio 1821.)
La
facoltà imitativa è una delle principali parti dell’ingegno umano. L’imparare
in gran parte non è che imitare. Ora la facoltà d’imitare non è che una facoltà
di attenzione esatta e [1365]minuta all’oggetto e sue parti, e una
facilità di assuefarsi. Chi facilmente si assuefa, facilmente e presto riesce
ad imitar bene. Esempio mio, che con una sola lettura, riusciva a prendere uno
stile, avvezzandomicisi subito l’immaginazione, e a rifarlo ec. Così leggendo
un libro in una lingua forestiera, m’assuefacevo subito dentro quella giornata
a parlare, anche meco stesso e senza avvedermene, in quella lingua. Or questo
non è altro che facoltà d’imitazione, derivante da facilità di assuefazione. Il
più ingegnoso degli animali, e più simile all’uomo, la scimia, è insigne per la
sua facoltà e tendenza imitativa. Questa principalmente caratterizza e
distingue il suo ingegno da quello delle altre bestie. Ampliate questo
pensiero, e mostrate la gradazione delle facoltà organiche interiori,
nelle diverse specie di animali fino all’uomo; e come tutta consista in una
maggiore o minor facoltà di attendere, e di assuefarsi, la qual
seconda facoltà, deriva in gran parte, ed è molto giovata dalla prima, e sotto
qualche aspetto è tutt’uno.
(21.
Luglio 1821.). V. p.1383. capoverso 2.
La
grazia bene spesso non è altro che [1366]un genere di bellezza diverso
dagli ordinari, e che però non ci par bello, ma grazioso, o bello insieme e
grazioso (che la grazia è sempre nel bello). A quelli a’ quali quel genere non
riesca straordinario, parrà bello ma non grazioso, e quindi farà meno effetto.
Tale è p.e. quella grazia che deriva dal semplice, dal naturale ec. che a noi
in tanto par grazioso, in quanto, atteso i nostri costumi e assuefazione ec.,
ci riesce straordinario, come osserva appunto Montesquieu. Diversa è l’impressione
che a noi produce la semplicità degli scrittori greci, v. g. Omero, da quella
che produceva ne’ contemporanei. A noi par graziosa, (v. Foscolo nell’articolo
sull’Odissea del Pindemonte; dove parla della sua propria traduzione del I.
Iliade) perchè divisa da’ nostri costumi, e naturale. Ai greci contemporanei,
appunto perchè naturale, pareva bella, cioè conveniente, perchè conforme alle
loro assuefazioni, ma non graziosa, o certo meno che a noi. Quante cose in
questo genere paiono ai francesi graziose, che a noi paiono soltanto belle, o
non ci fanno caso in verun conto! A molte cose può estendersi questo pensiero.
(21.
Luglio 1821.)
Non
basta che Dante, Petrarca Boccaccio siano stati tre sommi scrittori. Nè la
letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata in essi, nè quando
pur [1367]fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol d’oro della
lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno maggiore di Omero
ebbe mai, non dirò la Grecia, ancorchè sì feconda per sì gran tempo, ma il
mondo? E tuttavia nessuno può riporre la perfetta formazione e il secol d’oro
della lingua greca, nel tempo, e neppur nella lingua d’Omero: (v. se vuoi, la
lettera al Monti sulla Grecità del Frullone, in fine. Proposta ec. vol.2.
par.1. appendice.) quantunque la lingua greca sia molto più formata in Omero,
che non è l’italiana massime in Dante; perchè Dante fu quasi il primo scrittore
italiano, Omero non fu nè il primo scrittore nè il primo poeta greco. E la
lingua greca architettata (siccome lingua veramente antica) sopra un piano
assai più naturale ec. del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua
propria in molto meno tempo dell’italiana, ch’è pur lingua moderna, e spetta
(necessariamente) al genere moderno.
Quanti
diversi gusti e giudizi negli stessi uomini circa la stessa bellezza delle
donne! Lasciando da parte la passione di qualsivoglia sorta, fra gli uomini più
indifferenti, questi dirà, la tale è bellissima, quegli, è bella, quest’altro [1368]è
passabile, quell’altro, non mi piace, quell’altro, è brutta. Non si troverà una
donna sola della cui bellezza o bruttezza tutti gli uomini convengono, se non
altro sul più e sul meno. Quanto più discorda il giudizio delle donne! Così
dico della bellezza degli uomini ec. Dov’è dunque il bello assoluto? Se neppur
si può trovare dove par che la natura stessa l’insegni più che in qualunque
altro caso ec.
(22.
Luglio 1821.)
Che cosa
è il polito e il sozzo, il mondo e l’immondo? Che opposizione anzi che
differenza assoluta possiamo trovare fra queste qualità contrarie? Sozzo è
quello che dà noia ec. polito l’opposto. Bene, ma a quella specie, a quell’individuo
dà noia una cosa, a questo un’altra. Oggi la tal cosa mi dà noia, domani no. In
questa circostanza no, in questa sì. Nulla è dunque per se medesimo ed
assolutamente nè mondo nè immondo. Ma noi secondo la solita opinione dell’assoluto,
pigliamo per esemplare d’immondizia il porco, il quale è tanto mondo quanto
qualunque altro animale, perchè quelle materie dove ama di ravvolgersi e che a
noi fanno noia, a lui nè a suoi simili non danno noia; e quindi per la [1369]sua
specie non sono sozze. Bensì le daranno noia, e saranno sozze per lei, molte
cose per noi pulitissime. (22. Luglio 1821.). Di cento altre qualità dite lo
stesso che del mondo e immondo.
Qual è
stato naturale? quello dell’ignorante, o quello dell’artista? Ora l’ignorante
non conosce nè sente quasi nulla del bello d’arte, poco ancora del bello
naturale, e d’ogni bello ec. Un uomo affatto rozzo, appena sarà tocco dalla
musica più popolare. Anche alla musica si acquista gusto coll’assuefazione sì
diretta come indiretta. E pur la musica sembra quasi la più universale delle
bellezze ec. Ora dico io. Il bello non è bello se non in quanto dà piacere ec.
Una verità sconosciuta è pur verità, perchè il vero non è vero in quanto è
conosciuto. La natura non insegna il vero, ma se ha da esistere il bello
assoluto, non lo possiamo riconoscere fuorchè in un insegnamento della natura.
Or come sarà assoluto quel bello che, se l’uomo non è in condizione non
naturale, non può produrre l’effetto suo proprio, indipendentemente dal quale
nessuno può pur concepire che cosa sia nè possa [1370]essere il bello?
(22.
Luglio 1821.)
Non
solamente tutte le facoltà dell’uomo sono una facoltà di assuefarsi, ma la
stessa facoltà di assuefarsi dipende dall’assuefazione. A forza di assuefazioni
si piglia la facilità di assuefarsi, non solo dentro lo stesso genere di cose,
ma in ogni genere. Il fanciullo non ha ancora un abito di assuefazioni, e
perciò è difficile ad assuefarsi, e ad imparare. Chi ha molto imparato più
facilmente impara, sempre proporzionatamente alle facoltà o disposizioni de’
suoi organi, che variano secondo gl’ingegni, le circostanze fisiche passeggere
o stabili, le altre circostanze esteriori o interiori, l’età massimamente ec.
ec. Dico, più facilmente impara, o in quello stesso genere di cose, cioè in un
tal genere al quale i suoi organi siano più disposti, e quindi più facili ad
assuefarsi; ovvero in altri generi, o in qualunque altro genere, perchè ogni
assuefazione influisce sulla facilità generale di assuefarsi, e quindi d’imparare,
di conoscere, di abilitarsi interiormente o esteriormente ec. L’apprendere,
quanto alla memoria, non è che assuefarsi, ma esercitando [1371]la
memoria, si acquista la facilità di questa assuefazione, cioè d’imparare a
memoria. I fanciulli mancando ancora di esercizio, poco sanno imparare a
memoria, ma cominciando da poche righe, arriveranno ben presto ad imparare
libri intieri, perchè i loro organi sono meglio disposti all’assuefazione che
quelli d’ogni altra età, e per isviluppare questa facoltà non hanno bisogno che
di esercitarla, cioè di assuefarla essa stessa. Tutto in somma nell’uomo è
assuefazione. E seppure esistono differenze d’ingegni, cioè organi più o meno
disposti ad attendere ed assuefarsi, ad assuefarsi a questa o quella cosa, a
più o meno cose, o a tutte; la qual differenza anch’io stimo ch’esista; ella è
però tale che le diverse assuefazioni possono affatto cancellarla, e rivolgerla
anche al contrario, cioè render l’uomo di piccolo ingegno, assai più penetrante
ec. ec. e in somma di maggiore ingegno, che l’uomo del più grande ingegno
naturale. E ciò non solo nelle cose ed assuefazioni materiali, o negli studi
esatti ec. ma anche nelle discipline più sottili, anche nelle cose spettanti
alla immaginazione e al genio. [1372]L’uomo insomma principalmente, e
dopo l’uomo gli altri viventi, i loro ingegni, cognizioni, abilità, facoltà,
opinioni, pensieri, detti, fatti, le loro qualità, non in quanto ingenite, ma
in quanto sviluppate (ch’è come dire, non in potenza, ma in atto, perchè le
qualità non isviluppate son come non esistessero, oltre le infinite
modificazioni, onde sono suscettibili di parere diversissime ed anche opposte
qualità) sono figli nati dell’assuefazione.
(22.
Luglio 1821.)
È
verissimo che la chiarezza dell’espressione principalmente deriva dalla
chiarezza con cui lo scrittore o il parlatore concepisce ed ha in mente quella
tale idea. Quel metafisico il quale non veda ben chiaro in quel tal punto,
quello storico il quale non conosca bene quel fatto ec. ec. riusciranno
oscurissimi al lettore, come a se stessi. Ma ciò specialmente accade quando lo
scrittore non vuole nè confessare, nè dare a vedere che quella cosa non l’intende
chiaramente, perchè anche le cose che noi vediamo oscuramente possiamo fare che
il lettore le veda nello stesso modo, e ci esprimeremo sempre con chiarezza, se
faremo vedere al lettore qualunque idea tal quale noi la concepiamo, e tal
quale sta e giace nella nostra mente. Perchè l’effetto della chiarezza non è
propriamente far concepire al lettore un’idea chiara di una cosa in se stessa,
ma un’idea chiara dello stato preciso della nostra mente, o ch’ella veda
chiaro, o veda scuro, giacchè [1373]questo è fuor del caso, e
indifferente alla chiarezza della scrittura o dell’espressione propriamente
considerata, e in se stessa.
Ora io
dico, che tolta la detta mala fede, e tolta l’ignoranza e incapacità di
esprimersi, la quale influisce tanto sulle idee chiare di chi scrive o parla,
quanto sulle oscure; il veder chiaro (se non altro, assai spesso) pregiudica
alla chiarezza dell’espressione, in luogo di giovarle. Chi non vede
chiarissimo, p. e. un filosofo il quale non sia ancora pienamente assuefatto
alla sottigliezza delle idee, purchè non abbia la detta mala fede, e possieda l’arte
dell’espressione, si studia in tutti i modi di rischiarar la materia, non solo
al lettore, ma anche a se stesso, e se non ha parlato chiarissimamente, se non
ha per ogni parte espresso lo stato delle sue concezioni, non è contento, perch’egli
stesso non s’intende, e quindi sente bene che non sarà inteso, il che nessuno
scrittore precisamente vuole, se non in caso di mala fede, o in qualche
straordinaria circostanza.
[1374]Ma quando il filosofo (per seguire
collo stesso esempio) è pienamente entrato nel campo delle speculazioni, quando
s’è avvezzato a veder la materia da capo a fondo, n’è divenuto padrone, e vi si
spazia coll’intelletto a piacer suo, o almeno vi passeggia per entro con
franchezza, trova chiarezza in ogni cosa, s’è abituato alla lettura degli
scritti più sottili, a penetrarli intimamente a quel gergo filosofico ec.:
allora ha bisogno di una particolare e continua avvertenza per riuscir chiaro,
e gli si rende più difficile e più lontana dall’uso la chiarezza, perchè
intendendosi egli subito, crede che subito sarà inteso, misura l’altrui mente
dalla sua, ed essendo sicuro delle sue idee, non ha più bisogno di fissarle e
dichiararle in certo modo anche a se stesso; preferisce quelle proposizioni,
quelle premesse, quelle circostanze, quelle legature de’ ragionamenti, quelle
prove o confermazioni o dilucidazioni, quelle minuzie, che perchè a lui son
ovvie, crede che da tutti saranno sottintese; abusa di quel gergo (necessario
però in se stesso ec. ec.). Questo può accadere, e spesso accade, anzi tutto
giorno, in una particolar materia, dove lo scrittore o parlatore abbia un’assoluta
chiarezza, padronanza, abito di concezione. ec.
E di
quanto dico si può vedere quotidianamente l’esempio ne’ discorsi delle persone
colte, illuminate, e ben capaci di esprimersi. Ponete due persone di questo
genere, e vedrete ordinariamente che quella la quale possiede quella materia
alquanto meno, spiega perfettamente le sue idee, e le rischiara molto negli
altri; quella che l’ha [1375]tutta sulle dita, lascia molto più a
desiderare, benchè non volendo, e benchè capacissimo di chiarezza nelle altre
cose. E quindi è giornaliero il lagnarsi della oscurità con cui ragionano delle
loro discipline ec. quelli che le professano. Il che si può considerare anche
sotto questo aspetto.
Coloro
che non fanno professione, o non sono pienamente pratici e versati in qualche
facoltà, credono obbligo loro, e si propongono nel trattarla, di parlare o
scrivere a tutti. Ma quelli che le professano, intendono (anche senza
determinata volontà) di parlarne o scriverne ai professori. Il che se può
comportarsi in altre scienze o discipline, non deve aver luogo nella filosofia
morale o metafisica ec. e in tutte quelle cognizioni che benchè astratte o
sottili ec. devono però esser trattate non per una particolar classe di
persone, ma per tutti, anzi più per quelli che le ignorano, o poco le
conoscono, che per li periti.
È anche
cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una
facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad
intendere, purchè [1376]abbiano le altre qualità necessarie o proprie
del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli
uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi
adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più
dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli
abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre
interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli,
il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal
dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal
dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.
E quello
che ho detto accade perchè pochi fra gli stessi più dotti, sono capaci di
rintracciare minutamente, ed avere esattamente presenti le origini, i
progressi, il modo dello sviluppo, insomma la storia delle loro proprie
cognizioni e pensieri, del loro sapere, del loro intelletto. Questo è proprio solamente
de’ sommi spiriti, i cui progressi benchè derivati necessariamente dalle
assuefazioni, dalle circostanze, e dal caso, pur furono [1377]meno
materiali e casuali che quelli degli altri anche insigni. E l’immaginazione
necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche
metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli
scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.
Il sommo
grado della ragione consiste in conoscere che quanto ella ci ha insegnato al di
là della natura, tutto è inutile e dannoso, e quanto ci ha insegnato di buono,
tutto già lo sapevamo dalla natura; e l’avercelo essa fatto disimparare, e poi
tornare a impararlo e a crederlo, ci ha sommamente nociuto, non solo per quel
frattempo, ma irreparabilmente per tutta la vita, perchè gl’insegnamenti
ricevuti dalla ragione, quantunque conformi ai naturali, non hanno più di gran
lunga la forza nè l’utilità di quelli ricevuti dalla natura, e vengono da
cattiva fonte e velenosa alla vita, anzi vengono dalla morte, invece di venir
dalla vita ec.
(23.
Luglio 1821.)
[1378]L’animale assalito o in se stesso,
o nelle cose sue care massimamente, non fa i conti s’egli possa o non possa
resistere, se la resistenza gioverà o no, se gli torni meglio il cedere, se il
pericolo sia grande o piccolo, se le forze competano, se il resistere gli possa
portare un male maggiore ec. ma resiste immediatamente e combatte con tutte le
sue forze, ancorchè piccolissime contro grandissime. Disturbate i pulcinelli ad
una gallina, ed ella vi verrà sopra col becco e cogli artigli, e vi farà tutto
il male che saprà. Così facevano le antiche nazioni ancorchè piccolissime
contro grandissime, come ho detto altrove. Similmente dico dei privati rispetto
ai più forti o potenti ec. V. il Gelli, Circe, nel Dial. dove parla
della fortezza delle bestie, e il Segneri Incredulo dove parla delle
loro guerre. È vergognoso che il calcolo ci renda meno magnanimi, meno
coraggiosi delle bestie. Da ciò si può vedere quanto la grand’arte del
computare, sì propria de’ nostri tempi, giovi e promuova la grandezza delle
cose, delle azioni, della vita, degli avvenimenti, degli animi, dell’uomo.
(23.
Luglio 1821.)
La
facilità, anzi quasi la facoltà di attendere che tanto è necessaria all’assuefazione,
o la facilita, l’abbrevia, e la produce, anch’essa però si accresce e
perfeziona, e quasi nasce mediante l’assuefazione.
(23.
Luglio 1821.)
[1379]Siccome la parte dell’uomo alla
quale più si attende, è il viso, però il fanciullo non ha quasi mai un’idea
formata della bellezza o bruttezza delle persone, se non quanto al viso, e
questa è la prima idea della bruttezza umana, ch’egli concepisce: su questa
idea si giudica per lungo tempo della bellezza o bruttezza delle persone. Anzi
è osservabile che finchè l’uomo non ha cominciato a sentire distintamente la
sensualità, non concepisce mai un’idea esatta de’ pregi o difetti de’
personali; che in quel tempo cominciando ad osservarli, comincia a formarsi un’idea
del bello su questo punto, ma non arriva a compierla se non dopo un certo
spazio; che le persone eccessivamente continenti sono ordinariamente di
giudizio così poco sicuro intorno alla detta bellezza, come quelle
eccessivamente incontinenti, secondo ho detto in altro pensiero; che
generalmente le donne siccome pel loro stato sociale sono necessitate a maggior
castità degli uomini, ed hanno un abito esteriore ed interiore di maggior
ritenutezza, e meno rilassatezza ec. perciò sono prese dalla bellezza del viso
degli uomini, rispetto al personale, più di quello che lo sieno
proporzionatamente gli uomini [1380]dal viso delle donne in comparazione
del personale (e similmente dico della bruttezza). È pure osservabile che dall’assuefazione
naturale di osservare il viso più delle altre parti, deriva in parte 1. l’aver
noi sempre idea più chiara della bellezza o bruttezza di quello che di queste,
o generalmente prese, cioè del personale, o particolarmente, come delle mani
ec. che pur sono ugualmente scoperte. 2. la preferenza e l’importanza che noi
diamo alla bellezza o bruttezza del viso sopra il resto, e l’attendere
massimamente al viso, sia nell’osservare, sia nel giudicare del bello o del
brutto, la quale assuefazione ci dura per tutta la vita. E che ciò non derivi
solamente dalle proprietà naturali del viso, osservatelo ne’ selvaggi che vanno
ignudi, e che certo attendono assai più di noi all’altre parti, e n’hanno più
certo, chiaro, e ordinario discernimento di bello o brutto; osservatelo ne’
libidinosi i quali preferiranno sempre una donna di bel personale ec. e di
mediocre viso, o anche non bello, alla più bella faccia, e mediocre o non bella
persona. E la preferenza che si dà [1381]alle forme del viso, e la
maggiore o minore attenzione che vi si pone, va sempre in proporzione della
maggiore o minore abitudine di riserva o di licenza, sì negli uomini sì nelle
donne. E gli amori sentimentali, di cui gli sfrenati non sono capaci, derivano
sempre assai più dalle forme del viso, che della persona ec. ec. È osservabile
finalmente che il giudizio delle donne circa la bellezza o bruttezza sì del
viso come della persona, nel loro sesso, tarda sempre più a formarsi che quello
degli uomini, e non arriva mai a quel punto, e così degli uomini viceversa. Nel
che è pur nuovamente osservabile che quel giudizio sul bello o brutto umano che
possono acquistare i fanciulli prima della sensualità qualunque, è presso a
poco egualmente e indifferentemente formato circa il loro sesso, che circa l’altro.
Dico presso a poco, perchè un’alquanto maggiore inclinazione al sesso
differente, si fa sentire all’uomo sino da’ primissimi anni, e questa produce
sempre in lui un’alquanto maggiore osservazione circa quel sesso ec. ec.
(23.Luglio
1821.)
[1382]Il soddisfare a un bisogno, il
liberarsi da un incomodo è molto maggior piacere che il non provarlo. Anzi
questo non è piacere, quello sì, e lo è bene spesso semplicemente in quanto
alla sola soddisfazione del bisogno ec. quantunque nell’azione che vi soddisfa,
la natura non abbia posto alcun piacere particolare distinto e indipendente,
come l’ha posto p.e. nel cibarsi. E va per lo più in ragione della maggiore o
minore intensità del bisogno ec.
Alla mia
teoria del piacere aggiungi che quanto più gli organi del vivente sono
suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è maggiore la vita
naturale del vivente, tanto più sensibile e vivo è l’amor proprio (ch’è quasi
tutt’uno colla vita) e quindi il desiderio della felicità ch’è impossibile, e
quindi l’infelicità. Così accade dunque agli uomini rispetto alle bestie, così
a queste pure gradatamente, così agl’individui umani ec. più sensibili,
immaginosi ec. rispetto agli altri individui della stessa specie. E l’uomo
anche in natura, è quindi ben conseguentemente, il più infelice degli animali
(come vediamo), perciò stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale
che gli altri viventi.
(24.
Luglio 1821.)
[1383]Malgrado quanto ho detto dell’insociabilità
dell’odierna filosofia colla poesia, gli spiriti veramente straordinari e
sommi, i quali si ridono dei precetti, e delle osservazioni, e quasi dell’impossibile,
e non consultano che loro stessi, potranno vincere qualunque ostacolo, ed
essere sommi filosofi moderni poetando perfettamente. Ma questa cosa, come
vicina all’impossibile, non sarà che rarissima e singolare.
(24.
Luglio 1821.)
Alla
p.1365. fine. La memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacchè
ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria, cioè gli organi
suoi propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi
contraffacendole); e acquistano l’abilità di farla, mediante un’apposita e particolare
assuefazione, diversa dalla generale, o esercizio della memoria, di cui
v. p.1370. seg. Così dico delle altre imitazioni, e assuefazioni, che sono
quasi imitazioni ec. Tanto più che quasi ogni assuefazione e quindi ogni
attitudine abituale acquisita della mente, dipende in gran parte dalla memoria
ec.
(24.
Luglio 1821.)
Dal
sopraddetto si vede che la proprietà della memoria non è propriamente di
richiamare, il che è impossibile, trattandosi di cose poste fuori [1384]di
lei e della sua forza, ma di contraffare, rappresentare, imitare, il che non
dipende dalle cose, ma dall’assuefazione alle cose e impressioni loro, cioè
alle sensazioni, ed è proprio anche degli altri organi nel loro genere. E le
ricordanze non sono richiami, ma imitazioni, o ripetizioni delle sensazioni,
mediante l’assuefazione. Similmente (e notate) si può discorrere delle idee.
Questa osservazione rischiara assai la natura della memoria, che molti
impossibilmente hanno fatto consistere in una forza di dipingere, o ricevere le
impressioni stabili di ciascuna sensazione o immagine ec. laddove l’impressione
non è stabile, nè può. E v. in tal proposito quello che altrove ho detto delle
immagini visibili delle cose, che senza volontà nè studio della memoria, ci si
presentano la sera, chiudendo gli occhi ec. Effetto puro dell’assuefazione
degli organi a quelle sensazioni e non già di una continuazione di esse.
(24.
Luglio 1821.)
Alla
p.1367. fine. Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu formata
malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio, l’ultimo de’ tre
quanto al tempo, s’ingannò grossamente, e fece un infelice tentativo nella [1385]prosa
italiana, togliendole il diretto e naturale andamento della sintassi, e con
intricate e penose trasposizioni infelicemente tentando di darle (alla
detta sintassi) il processo della latina. (Monti, Proposta t.1. p.231.).
Il che dimostra che dunque se in questi tre sommi si volesse anche riporre il
perfezionamento ec. della lingua italiana poetica, (che è falsissimo) non si
può nel trecento riporre, a cagione de’ 3. sommi, quello della lingua italiana
prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può dirsi formata? La prosa è la
parte più naturale, usuale, e quindi principale di una lingua, e la perfezione
di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed
unico che applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale
applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa. E
notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sì grande ingegno, scrivendo
dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani,
s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole della lingua [1386]italiana,
intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire
insomma alla sua forma conveniente, o le ne diede una ch’ella ha poi del tutto
abbandonata, e che le divenne subito affatto sconveniente. Dunque la lingua
italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il principale, non era ancora formata;
il Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la
lingua italiana fu formata dai detti tre? come fu formata nel 300. se il
principale prosatore italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla
letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di
modello a veruna prosa?
Quanto
la civilizzazione per sua natura tenda a conformare gli uomini e le cose umane,
come questo sia l’uno de’ principali suoi fini, ovvero de’ mezzi principali per
conseguire i suoi fini, si può vedere anche nella lingua, nell’ortografia,
nello stile largamente considerato, nella letteratura ec. Tutte cose tanto [1387]più
uniformi in una nazione, quanto ella è più civile, o si va civilizzando di mano
in mano, e tanto più varie quanto ella è più lontana dalla civiltà perfetta, o
più vicina a’ suoi i principj ec. E ne’ principii tutte queste cose furono
sommamente varie, incerte, discordi, arbitrarie ec. presso qualunque nazione
delle più colte oggidì. Lo stabilire e il formare o l’essere stabilita e
formata una lingua un’ortografia ec. non è quasi altro che uniformarla. Giacchè
sia pur ella regolarissima in questo o quello scrittore o parlatore, ella non è
stabilita nè formata nè buona se non è uniforme nella nazione; e sia pure
irregolarissima (come la greca ec.) ella è stabilita ec. quando in quel tale
stato ella è riconosciuta, intesa e adoperata stabilmente e regolarmente dalla nazione. Allora l’irregolarità è regola, e nel caso contrario la
regolarità è irregolare. (25. Luglio 1821.). V. se vuoi, p.1516 17.
Grazia
che deriva dallo staordinario o dal contrasto. Voce alquanto virile nelle
donne. È un gran ragoût, purchè non sia eccessivo. ec. ec.
(25.
Luglio 1821.)
I
giovani massime alquanto istruiti prima di entrare nel mondo, credono
facilmente e fermamente in generale, quello che sentono o leggono delle cose
umane, ma nel particolare non mai. E il frutto dell’esperienza è persuadere a’
giovani, quanto alla vita umana, che il generale si verifica effettivamente in
tutti o in quasi tutti i particolari, e in ciascuno di essi.
(25.
Luglio 1821.)
[1388]Alla p.1262. al capoverso 1.
Chiunque potesse attentamente osservare e scoprire le origini ultime delle
parole in qualsivoglia lingua, vedrebbe che non v’è azione o idea umana, o cosa
veruna la quale non cada precisamente sotto i sensi, che sia stata espressa con
parola originariamente applicata a lei stessa, e ideata per lei. Tutte simili
cose, oltre che non sono state denominate se non tardi, quantunque fossero
comunissime, usualissime e necessarie alla lingua, e alla vita ec.; non hanno
ricevuto il nome se non mediante metafore, similitudini ec. prese dalle cose
affatto sensibili, i cui nomi hanno servito in qualunque modo, e con
qualsivoglia modificazione di significato o di forma, ad esprimere le cose non
sensibili; e spesso sono restati in proprietà a queste ultime, perdendo il
valor primitivo. Osservate p.e. l’azione di aspettare. Ell’è affatto esteriore,
e materiale, ma siccome non cade precisamente sotto i sensi, perciò non è stata
espressa nelle nostre lingue se non per via di una metafora presa dal guardare,
ch’è azione tutta sensibile. V. la p.1106. Bensì questa metafora [1389]è
poi divenuta parola propria, perdendo il senso primitivo.
Tale è
la natura e l’andamento dello spirito umano. Egli non ha mai potuto formarsi un’idea
totalmente chiara di una cosa non affatto sensibile, se non ravvicinandola,
paragonandola, rassomigliandola alle sensibili, e così, per certo modo,
incorporandola. Quindi egli non ha mai potuto esprimere immediatamente nessuna
di tali idee con una parola affatto sua propria, e il fondamento e il tipo del
cui significato non fosse in una cosa sensibile. Espresse poi, e stabilite e
determinate queste simili idee mediante parole di tal natura, l’uomo
gradatamente ha potuto elevarsi fino a concepire prima confusamente, poi
chiaramente, poi esprimere e fissare con parole, altre idee prima un poco più
lontane dal puro senso, poi alquanto più, e finalmente affatto metafisiche, e
astratte. Ma tutte queste idee non le ha espresse se non che nel sopraddetto
modo, cioè o con metafore ec. prese immediatamente dal sensibile, o con nuove
modificazioni e applicazioni di quelle parole applicate già, come ho detto, a
cose meno [1390]soggette ai sensi, facendosi scala da quelle
applicazioni già fatte, ricevute e ben intese, ad altre più sottili, ed
immateriali ec. Di maniera che i nomi anche modernissimi delle più sottili e rimote
astrazioni, derivano originariamente da quelli delle cose affatto sensibili, e
da nomi che nelle primitive lingue significavano tali cose. E la sorgente e
radice universale di tutte le voci in qualsivoglia lingua, sono i puri nomi
delle cose che cadono al tutto sotto i sensi.
È
curioso l’osservare che il verbo sostantivo essere, sì necessario che
senza esso non si può fare un discorso formato, ed esprimente un’idea sì
universale, e appartenente a tutte le cose e le idee, nondimeno perch’ella è un’idea
delle più astratte ed ultime (appunto a cagione della sua universalità, la
quale dimostra ch’ella è idea elementare ec.) è imperfetto e irregolare, cred’io,
per lo meno, in quasi tutte le lingue. Nella greca è anche sommamente
difettivo, e non è supplito da voci prese d’altre radici, come lo è in latino,
in sascrito, in persiano. Nell’ebraico il verbo hyh esse, existere, oltre ch’è
quiescente, vale a dire imperfetto, ha miras anomalias, dice il
Zanolini. La cagione di ciò (che non si può creder caso) può essere che questo
verbo sia stato uno de’ primi inventati, a causa della sua necessità; e quindi
confuso ed irregolare sì a causa della sua antichità, [1391]e delle
poche regole a cui gli antichissimi lo potevano assoggettare, sì dell’astrazione
sottigliezza, immaterialità, difficoltà insomma dell’idea che esprime, e che
nessuno degli antichissimi parlatori potè concepir chiaramente. Simili
osservazioni si ponno fare intorno ad altri verbi che sogliono essere anomali
nelle lingue, quantunque diversissime, ed è notabile che questi sono
ordinariamente i più usuali e necessari al discorso, come avere, potere ec. Ed appunto perciò sono anomali, perchè non sono così necessari, se non
perchè esprimono idee universali, e le idee non sono universali se non perchè
sono elementari ed astratte; ora le idee elementari ed astratte sono
naturalmente le più difficili, anzi le ultime a raggiungersi, e a concepirsi
chiaramente, e quindi ad essere formalmente e regolarmente espresse. (26.
Luglio 1821.). Puoi vedere p.1205.
Ho detto
in un pensiero a parte come l’incredulità spesso derivi da piccolezza di
spirito. Aggiungo ora com’ella viene assai spesso da ostinazione, non solo di
volontà, ma anche di spirito, il che è segno della sua piccolezza, la quale
influisce poi anche sulla volontà e sulle determinazioni. È assai comune il
vedere [1392]una persona ostinarsi immobilmente a negare una verità di
fatto, o affermare una falsità di fatto, senza mai lasciarsi entrar nella mente
un solo sospetto di potersi essere ingannato nel vedere ec. ec. Insomma l’incredulità
bene spesso, anzi il più d’ordinario, non deriva se non da somma e stoltissima
credulità. Per la credulità il piccolo spirito si persuade siffattamente della
verità e certezza de’ suoi principii, del suo modo di vedere e giudicare, delle
impossibilità ch’egli concepisce ec. che tutto quello che vi ripugna, gli
sembra assolutamente falso, qualunque prova v’abbia in contrario; perchè la
credulità che immobilmente lo attacca alle precedenti sue idee, lo stacca dalle
nuove, e lo fa incredulissimo. E così l’eccesso di credulità causa l’eccesso d’incredulità,
e impedisce i progressi dello spirito ec. Gli uomini più persuasi d’una cosa,
sono i più difficili a persuadersi, se non si tratta di persuasioni affatto
consentanee alle sue prime ec. V. se vuoi, la p.1281. principio.
Piccolissimo
è quello spirito che non è capace o è difficile al dubbio. Le ragioni le ho
dette nel pensiero precedente, e in quello al quale esso serve di giunta.
[1393]A volere che il ridicolo
primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la
sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante.
Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo,
oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del
ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole,
anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia
a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i
principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della
politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla
filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose,
della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le
condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo
stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo
ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno
giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione dell’eloquenza;
e anche più di quelle del ragionamento, [1394]benchè oggi assai forti.
Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato
le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione
nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della
ragione, della logica, della filosofia, ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo;
e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando.
Iliaci
cineres, et flamma extrema meorum,
Testor, in
occasu vestro, nec tela, nec ullas
Vitavisse vices Danaum; et, si fata fuissent,
Ut caderem,
meruisse manu
(Virg. Aen. 2.431.seqq.).
(27. luglio
1821.)
Alla
p.1102. È stata anche utilissima e necessarissima invenzione e pensamento
quello di dividere le quantità non per unità, ma per parti di quantità
contenenti un numero di quantità determinato, e perpetuamente conforme; vale a
dire per diecine, ossia quantità contenenti sempre dieci unità; per centinaia
contenenti sempre dieci diecine; per migliaia ec. Senza questo ritrovato ottimo
ed ammirabile, noi quanto ai numeri saremmo ancora appresso a poco, nel caso
degli [1395]uomini privi di favella. Cioè non potremmo concepir
chiaramente l’idea di veruna quantità numerica determinata (e quindi di nessun’altra
non numerica, perchè se è determinata, ha sempre relazione ai numeri), se non
piccolissima.
L’idea
che l’uomo concepisce della quantità numerica è idea compostissima. L’uomo è
capacissimo d’idee composte, ma bisogna che la composizione non sia tanta, che
la mente umana abbia bisogno per concepir quell’idea di correre tutto a un
tratto per una troppo grande quantità di parti. Se noi non dicessimo undici,
cioè dieci e uno, ec. ec. ma seguissimo sempre a nominare ciascuna quantità o
numero, con un nome affatto progressivo, e indipendente dagli altri nomi e
numeri, e non si fosse data ai numeri una scambievole relazione, tanto
arbitraria e dipendente dall’intelletto umano, quanto necessaria, e difficile;
noi perderemmo ben presto l’idea chiara di una quantità determinata alquanto
grossa, perchè le sue parti, essendo pure unità, sarebbero troppe per poter
esser comprese in un tratto, e [1396]abbracciate dalla nostra
concezione. Se il centinaio non fosse nella nostra mente una diecina di diecine
(il che, chi ben l’osserva, viene a formare un’idea non decupla, ma quasi unica
e semplice, (o al più doppia) a causa del rapporto scambievole delle unità
colla diecina, e della diecina semplice colla diecina di diecine); ma fosse un
centinaio di pure, slegate, indipendenti, indivise unità, ci sarebbe
impossibile il correre in un tratto per cento unità così disposte, e quindi non
potremmo concepire idea, se non confusissima e insufficiente, di detta
quantità. Per lo contrario la nostra mente abituata alla facilità di concepir
chiaramente la quantità contenuta nella diecina semplice, si abitua ancora
facilmente alla stessa concezione nella diecina di diecine, ec. ec. e con un
solo atto di concezione, apprende chiaramente il numero delle unità contenute
in una quantità, la cui idea se le presenta così ben distribuita nelle sue
parti, così relative fra loro. Questo è infatti il progresso delle idee de’
fanciulli, i quali da principio, quantunque bastantemente istruiti circa i
numeri e le materiali quantità loro ec. non si [1397]formano però mai l’idea
chiara delle unità contenute in una quantità più che tanto grossa, nè intendono
mai chiaramente che quantità sia p.e. il centinaio, finchè la loro mente non si
è abituata nel modo che ho detto, ascendendo gradatamente dall’idea simultanea
e perfetta di una diecina, a quella di due, di tre, della diecina di diecine
ec.
Molte
idee, ancorchè compostissime, le concepisce l’uomo chiaramente e facilmente in
un tratto, perchè il soggetto loro non è composto in maniera che l’idea non ne
possa risultare se non dalla concezione particolare e immediata di ciascuna sua
parte. P.e. l’idea dell’uomo è composta, ma la mente senza andare per le parti,
le concepisce tutte in un solo subbietto in un solo corpo, e quindi in un solo
momento, e dal subbietto discende poi, se vuole, alle parti. Così accade in
tutte le cose materiali ec. Ma l’idea di un numero non risulta se non dalla
concezione delle unità, cioè parti che lo compongono, e da queste bisogna che
la mente ascenda alla concezione del composto, cioè del tal numero, [1398]perchè
un numero non è sostanzialmente altro che una quantità di parti, nè si può
definire se non da queste, nè ha veruna menoma qualità o forma, o modo di
essere ec. indipendente da queste. L’assuefazione aiutata dalla bellissima
invenzione che ho detto, fa che la mente umana appoco appoco si abiliti a
concepire una quantità determinata, quasi prima delle sue parti, e
indipendentemente da loro, e discenda poi da quella a queste, se vuol meglio
distinguere la sua idea ec. il che non si può mai se non nello spazio di tempo
e non già nell’istante.
Il detto
ritrovamento, o piuttosto arbitrario stabilimento di una scambievole relazione
fra tutte le unità, e le masse di unità ec. cioè in somma della ragione che fra
noi, e in tutti i popoli civili antichi e moderni è decupla; non solo fu
aiutata dalla favella, ma non sarebbesi potuto stabilirla senza la favella.
Osservo
che uno de’ principali vantaggi, anzi forse il solo, ma grande vantaggio del
sistema di cifre numeriche dette arabiche, sopra quello delle cifre greche,
ebraiche ec. ancor esso molto semplice e bello e bene immaginato, si è questo.
Nelle cifre 10, 200, 3000 ec. le figure 1, 2, 3 esprimono ed indicano
immediatamente la quantità delle diecine [1399]o centinaia o migliaia
espresse da dette cifre, e contenute nella quantità che significano. Ma non
così le lettere greche i€,
cioè 10, e s€, cioè 200, ovvero le ebraiche w e d, che significano le stesse cose.
Bensì le cifre greche ,a, ,b, ,g, e
le ebraiche ä, äk, äg, cioè 1000, 2000, 3000, significano e danno subito e per
se stesse a vedere o l’unità o la quantità delle migliaia. Il greco però in
questo punto è più semplice dell’ebreo.
Per la ragione per cui troviamo poca varietà nella fisonomia delle bestie d’una medesima specie ec. come ho detto altrove, accade che in una città forestiera, tutto al primo momento ci paia appresso a poco uniforme, e troviamo sempre proporzionatamente assai più vario il paese a cui siamo avvezzi (ancorchè uniformissimo) che qualunque altro; almeno ne’ primi giorni. Onde non sappiamo distinguere le contrade ec. Massime se v’ha realmente qualche uniformità in quel nuovo paese, sebben però più vario del nostro; ovvero s’egli è di una forma e di un gusto ec. assai differente dal nostrale, nel qual caso non ci troveremo mai bastante varietà, prima della lunga attenzione ed assuefazione